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I racconti di Casa Forsyte
I racconti di Casa Forsyte
I racconti di Casa Forsyte
E-book283 pagine4 ore

I racconti di Casa Forsyte

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Info su questo ebook

​​​​​​Nel 1930, dopo aver messo fine alle prime due trilogie della Saga dei Forsyte, John Galsworthy scrisse una serie di racconti incentrati su alcuni dei protagonisti della famiglia Forsyte, ammettendo che era "difficile separarsi da coloro con cui aveva vissuto per così tanto tempo".
Da questa singolare nostalgia nascono questi diciannove racconti, ambientati tra il 1821 e il 1918 pervasi di humor inglese e di curiosità per gli appartenenti a una famiglia unica, e da cui emerge un secolo di storia britannica e non solo. 
 
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2018
ISBN9788899403447
I racconti di Casa Forsyte
Autore

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Anteprima del libro

    I racconti di Casa Forsyte - John Galsworthy

    26

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    Il possidente. La saga dei Forsyte vol. I

    In tribunale. La saga dei Forsyte vol. II

    In affitto. La saga dei Forsyte vol. III

    La scimmia bianca. La saga dei Forsyte vol. IV

    John Galsworthy, I racconti di Casa Forsyte

    1a edizione Landscape Books, febbraio 2018

    Collana Aurora n° 26

    © Landscape Books 2018

    www.landscape-books.com

    Titolo originale: On Forsyte ’change

    Traduzione di Gian Dauli dall’edizione Corbaccio

    del 1932 intitolata Casa Forsyte, riveduta e corretta.

    ISBN 978-88-99403-44-7

    In copertina: The concert di James Tissot.

    Progetto grafico service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    John Galsworthy

    I racconti di

    Casa Forsyte

    PREMESSA

    A

    I RACCONTI DI CASA FORSYTE

    Dedico a un pubblico paziente e a una critica ancor più paziente, questo volume di racconti apocrifi intorno ai Forsyte, chiedendo scusa per due ragioni: anzitutto, è duro separarsi improvvisamente e definitivamente dalle creature con le quali si è vissuto tanto a lungo; inoltre questi appunti, io credo, contribuiranno realmente a completare le cronache sulla famiglia Forsyte.

    Essi furono tutti scritti dopo la fine del Canto del Cigno, ma cronologicamente stanno tra la Saga e la Commedia, poiché senza la Saga non potrebbero esser compresi e terminano prima che abbia inizio la Commedia.

    Vadano dunque per il mondo, nella speranza ch’io sia perdonato.

    John Galsworthy

    LE FIBBIE DI SUPERIOR DOSSET

    (1821-63)

    Nell’anno 1821, Superior Dosset Forsyte se ne venne in città, benché non precisamente in un ricco equipaggio. Secondo la testimonianza che la zia Ann, nota per la sua precisione, ne fece al giovane Jolyon ch’era venuto in vacanza dal collegio di Eton, l’emigrazione da Bosport si estese di fatto all’intera tribù e si effettuò in due diligenze, e in una berlina che era detta allora Highflyer coach.

    «Era morta da poco la nostra cara mamma, e nostro padre – che sarebbe tuo nonno, Jo caro – fu alquanto taciturno per tutto il viaggio; già, non è stato mai un uomo che abbia mostrato molto i suoi sentimenti. Io portavo in braccio tua zia Susan, e con tuo zio Timothy – aveva due anni, un bimbo così interessante – eravamo nella prima delle due carrozze con tuo nonno. E nella seconda c’era il tuo caro papà, così docile, tutto il tuo ritratto – credo avesse quindici anni allora, giusto la tua età –, con la zia Juley e la zia Hester e lo zio Nicholas, che aveva quattro anni; e nella berlina c’erano gli zii James, Swithin e Roger. Temo che lo zio Swithin abbia dato fastidio a tutti durante il viaggio, con la sua cerbottana. Partimmo al mattino presto, e andammo a passare la notte in casa del tuo prozio Edgar, a Primrose Hill. Ricordo che portava ancora i calzoni al ginocchio, con una gran quantità di ciondoli alla catena. Noi, naturalmente, si era tutti in lutto. Tuo nonno vestì di nero per due anni dopo la morte della povera mamma; era stato un gran dolore per lui, per quanto non se ne lamentasse mai».

    «Com’era, zietta?»

    «Un uomo robusto, caro, dal colorito acceso. A quei tempi, si beveva molto vino, specialmente Madera».

    «Ma che cosa faceva, lui?»

    «Aveva cominciato facendo il muratore, caro».

    «Un massone?»

    «Non subito. Era un semplice muratore. Vedi, suo padre era fattore, e volle che tuo nonno facesse il garzone muratore perché imparasse come si costruiscono le case. Secondo me, quella è stata una saggia decisione, perché a quei tempi c’era molto da fare per gli imprenditori di costruzioni, sicché il nonno poté farsi strada per tempo. Ed era già ricco quando ce ne venimmo a Londra». E gli occhi arguti di zia Ann si posarono sul nipote, scrutandolo.

    Egli si era alzato in piedi, e, appoggiato al caminetto, snello nel suo primo abito a coda di rondine, si guardava la punta delle scarpe. Elegante era, sì, il caro ragazzo, ma lievemente imbarazzato, quasi i suoi nervi avessero ricevuto un colpo. Egli era in collegio a Eton, tra la nobiltà. La zia continuò in tono deciso:

    «Noi non abbiamo di che vergognarci delle nostre origini, caro Jo. I Forsyte sono di buona razza campagnola, e sono sempre stati uomini schietti e ligi alla loro parola, e questo è quello che conta. E la nostra cara mamma era una vera signora, dopotutto. Il suo nome da ragazza era Pierce – una famiglia del Devonshire – ed era figlia di un procuratore, che a Bosport godeva di molta stima. Poco prima di morire era fallito, perché il suo socio era scappato con i capitali, e lui dovette rimetterci tutta la sua fortuna per coprire l’ammanco. La mamma aveva un viso dolce, e stava molto attenta al modo come noi parlavamo e ci comportavamo. Vedi, questa è la sua miniatura».

    Il piccolo Jolyon si avvicinò e vide un volto ovale, con bei capelli spartiti in mezzo che incorniciavano la fronte scendendo lungo le tempie, e scuri occhi grigi che lo guardavano alquanto profondi sotto le sopracciglia; e un mento che finiva in delicata punta, e spalle avvolte tra i merletti.

    «Il nonno le voleva bene, a modo suo. Dopo che fummo venuti a Londra, per anni egli lavorava tutto il giorno, e la sera lo vedevo seduto nel suo studiolo, tra i suoi progetti e i suoi calcoli – non sapeva mai decidersi ad andare a letto. Poi, cominciò ad andare a cavallo. E fu una vera fortuna per lui».

    Jolyon alzò gli occhi. Ora le sue sopracciglia si erano distese, come se, finalmente, il nonno avesse compiuto qualcosa degna di lode.

    «Certo, alla fattoria, quand’era ragazzo, andava a cavallo. E quando ne riprese l’abitudine, seguitò a cavalcare ogni giorno, fino a che la gotta non glielo impedì».

    «Ah, dunque soffriva di gotta, zia Ann?»

    «Sì, caro; allora la gotta era molto più diffusa che non lo sia ora. In certo qual modo tuo nonno assomigliava un poco allo zio Swithin; soltanto, era molto più piccolo. Gli piacevano molto i cavalli, ed era una vera autorità in fatto di vini».

    Il piccolo Jolyon si andava accarezzando il panciotto, quasi a frenare la sua commozione nell’udire rammemorare tali segni di signorilità, accorto abbastanza, tuttavia, da rilevare che la zia lo osservava per vedere se mostrasse segni di presuntuoso orgoglio.

    «E dove abitavate, zietta?»

    «Ecco, caro… i primi tempi avevamo preso una casa a Primrose Hill, poco distante dal tuo prozio Edgar. Abitammo là per molti anni, finché traslocammo in una casa di nostra proprietà, che tuo nonno aveva costruito a St. John’s Wood; e non la lasciammo più fino alla sua morte, nel 1850, quando venimmo ad abitare qui, con lo zio Timothy».

    «Che specie di case costruiva il nonno, zietta?»

    «Non mi ricordo di averne mai veduta neppure una, fuorché quella dove abitavamo. Ma credo fossero case di un certo valore. Le prime, se non sbaglio, erano nei paraggi di Fulham e alcune a Brighton; altre, più tardi, a St. John’s Wood. A quei tempi, era una parte di Londra che incominciava a vivere. Egli non era affatto quello che si dice un costruttore da strapazzo. I suoi amici gli avevano messo uno strano soprannome; lo chiamavano: Superior Dosset».

    «E perché?»

    «Prima di tutto, non gli piaceva affatto sentir dire che era del Dorsetshire e diceva sempre che era nato proprio al confine, ma al di qua del Devonshire, per quanto la parrocchia fosse nel Dorset. Ma lui guardava dall’alto in basso quelli del Dorsetshire – soleva chiamarli una massa di galletti; aveva certi suoi buffi modi di dire e perciò lo prendevano in giro. Era davvero un tipo originale. Certa gente, si capisce, diceva ch’era un pessimo uomo».

    «E come vestiva, zietta?»

    Con le lunghe dita sottili, la zia Ann rimise a posto la miniatura, e ne tolse un’altra dal cassettino.

    «Questo è tuo nonno, caro, il ritratto è del 1820, poco prima della morte della nostra cara madre».

    Jolyon vide un viso florido, ben rasato, dalle sopracciglia sporgenti con l’arco accentuato all’insù, una gran bocca carnosa, un naso largo, diritto, e il mento largo e diviso da una fossetta; occhi chiari, che parevano trattenere un sorriso sotto le palpebre folte; i capelli bruni ravviati all’indietro scoprivano una fronte ben formata; il collo avvolto in un cravattone bianco, l’abito turchino a coda di rondine, a vita corta, con un panciotto chiaro a doppio petto, un mazzo di ciondoli attaccati a un nastro nero; ma nella miniatura la sua figura finiva alla cintola.

    «Portava i pantaloni?»

    «Sì caro, e spesso di color camoscio, mi pare, fin dopo la morte della mamma. Ma di sera portava calzoni corti, e scarpine con le fibbie. Le ho ancora. Un giorno le darò a te, perché dopo il tuo caro padre, sarai tu il capo della famiglia, così come mio padre lo era ai suoi tempi».

    «Oh! Anche il nonno era il maggiore?»

    «Sì, come suo padre prima di lui; e il nome di Jolyon passa sempre al maggiore. Non devi dimenticarlo mai, Jo caro. È una grande responsabilità».

    «Preferirei avere le fibbie sole senza la responsabilità, zietta».

    La zia di Jolyon abbassò gli occhiali, finché ricaddero sull’aquilina curva del naso. Così ella poteva veder meglio il nipote; e lentamente intrecciò le dita sottili, con tre anelli, dalle unghie aguzze, come se palpasse una lenta conclusione. Caro Jo! Dunque gl’insegnavano a prendere le cose così alla leggera? Eton – un bel posto, certamente, e anche di qualità, ma forse un tantino pericoloso. E i suoi occhi parvero scrutare il giovane dai biondi capelli ondulati sulla fronte, giù sino ai tiranti che mantenevano i calzoni ben a posto sugli stivaletti. Non stava per caso diventando un po’ vanesio?

    «Tuo nonno, mio caro, ha sempre preso sul serio la sua posizione. Potrei raccontarti una storia…»

    Zia Ann aggrottò le sopracciglia. Sicuro! Gli avrebbe fatto bene conoscerla.

    «Fu in quell’anno in cui il tuo caro padre e il suo amico Nick Treffry s’erano appunto messi a commerciare in tè – circa sei anni dacché ci eravamo stabiliti a Londra. Al nonno gli affari erano andati molto bene, con le sue imprese di costruzioni, e così aveva potuto dare una buona educazione ai suoi ragazzi; specialmente tuo zio Nicholas era un omino che prometteva molto bene, e tuo zio James stava facendo pratica in commercio – fu poi ammesso procuratore il giorno in cui compì i vent’anni, ed è difficile riuscire più presto di così. Ma, malgrado tutte le spese che doveva sostener per noi, il nonno aveva messo da parte una bella somma di denaro. Abitavamo ancora a Primrose Hill, e così vedevamo spesso tuo zio Edgar; e poi tuo padre aveva investito un po’ del suo capitale nel commercio dello zio…»

    «Che commercio aveva, zietta?»

    «Juta, caro. Non che tuo nonno fosse suo socio, ma vi aveva preso parte. Lo zio Edgar era assai diverso da tuo nonno; era un uomo molto amabile, ma piuttosto debole di carattere, e ho ben paura che desse un po’ troppo ascolto ai consigli altrui. In ogni modo si lasciò trascinare a quello che si chiama, mi sembra, giocare al rialzo e, stupidamente, non si consigliò nemmeno con tuo nonno. S’intende che quando il nonno lo seppe, andò su tutte le furie. Io, vedi, tenevo un pochino il posto della povera mamma, e ricordo di averlo sentito dire: Che cosa diavolo è saltato in mente a quel disgraziato pezzente senza carattere di giocare al rialzo. Ricordati bene quello che dico, Ann, non passerà molto che si troverà ridotto sul lastrico».

    Zia Ann tacque, riandando con la mente a quella scena lontana: la figura tozza del padre, chino sulla vecchia tavola da pranzo, quella che ora stava nella stanza al piano inferiore, la larga mano dalle dita corte subitamente serrata a pugno, gli occhi iniettati di sangue, convulsamente chiusi nella visione del fratello ridotto in miseria.

    «E avvenne proprio così, zia Ann?»

    «Sì, caro. Fu un’annata terribile in cui tutto subì un ribasso improvviso, specialmente la juta. Il povero zio Edgar era così buono che non pensava che gli altri potevano essere cattivi e pieni d’ingordigia».

    «E andò in rovina, zietta?»

    «È quello che stavo appunto dicendo. Dunque, tuo nonno non era socio dello zio Edgar, e non appena seppe quello che lo zio aveva fatto, vendette la sua parte di azioni e si salvò la pelle, come avrebbe detto lui. E poi la juta continuò a ribassare invece di rialzare, e lo zio Edgar fu minacciato di bancarotta. Tuo nonno attraversò un gran brutto momento, non sapendo in coscienza se decidersi o no ad aiutarlo. Vedi, egli sapeva che un atto simile significava doversi restringere per anni nelle sue imprese di costruzioni, rigorosa economia per noi tutti, e rinunciare a tante cose alle quale eravamo abituati. E il fatto che lo zio non si fosse consigliato con lui lo toccava nel vivo e faceva sì che parlasse di lui in modo amaro. Ma il peggio avvenne quando, una sera, tuo zio Edgar si mise a piangere. Oh, non era un carattere molto forte! Me lo vedo ancora davanti: usava certi fazzolettoni di foulard rosso e se ne stava seduto lì, con la faccia sepolta in uno di essi. Tuo nonno camminava su e giù, e lo accusava di pretendere che lui gli cavasse le castagne dal fuoco, e non sarebbe stato lui a farlo, certamente no. M’aspettavo di vederlo andare in furia, da un momento all’altro. Poi, tutt’a un tratto si fermò, e guardò a lungo lo zio Edgar: Edgar, disse, sei un poveraccio. Ma io sono il capo della famiglia e non voglio vedere disonorato il nostro nome. Senti, ora vattene, e domani mattina vedrò di aiutarti».

    «E lo fece davvero?»

    «Sì, Jo. Fu un sacrificio terribile. Però, in fondo credo fummo tutti contenti; volevamo bene allo zio Edgard, e sarebbe stato uno scandalo troppo grande vederlo fallire, specialmente perché non era stato del tutto onesto. Dopo questo fatto, non l’abbiamo più veduto tanto spesso, ma quando morì, era assai più ricco di prima e doveva tutto a tuo nonno. Vedi dunque, caro, che non è una bella cosa prendere le responsabilità alla leggera».

    Il nipote aveva distolto lo sguardo da lei, come se d’un tratto avesse capito perché ella gli avesse raccontato quella storia.

    «Io, zia, avrei pensato che non avesse preso le responsabilità alla leggera, se morì più ricco di prima».

    Zia Ann sorrise. Quel caro ragazzo era davvero molto impertinente!

    «Jo,» disse, rifacendosi grave, «potrei raccontarti un’altra storia, di tuo nonno».

    «Oh, racconta, zia!»

    «Questo accadde verso il 1830; anni duri per tutti quanti; tuo nonno, allora, costruiva certe case a Brighton. Era un uomo uso a calcolare il proprio interesse fino al centesimo; ma mi ripeteva spesso che, quando il suo denaro su quelle case gli avesse reso il cinque per cento, sarebbe stato il massimo che si poteva sperare. Ricordo così bene queste cose, perché proprio allora speravo tanto che potesse concludere un discreto affare, e avevo la mia buona ragione per ciò».

    Zia Ann s’arrestò; rivedeva quella sua buona ragione, la quale, rivestita di un paio di pantaloni ben tesi sui tiranti, la guardava sul divano ove ella sedeva, tutta infiocchettata nella larga crinolina; e udiva la maschia voce di lui che le diceva: Ann cara, posso parlare con tuo padre?, e riudiva la sua risposta: "Ti prego, caro Edward, aspetta; papà è così preoccupato, proprio in questi giorni. Ma se le cose andranno bene, come spero, l’anno venturo credo potrò lasciarlo, lui e i cari ragazzi».

    «E la buona ragione qual era, zietta?»

    «Oh, nulla, caro. Come ti dicevo, tuo nonno era in grande ansia, perché quelle case rappresentavano l’affare che doveva trarlo d’impaccio. Fu un anno orribile, e, mi rincresce dirlo, c’erano molte piccinerie in famiglia».

    «Che cosa sono, le piccinerie?»

    «Piccineria, mio caro, è quando si cerca di trarre dal prossimo il miglior partito che si può».

    «E il nonno non traeva da nessuno il miglior partito?»

    Zia Ann lanciò al nipote un’occhiata pungente.

    «No», disse. «Erano gli altri che traevano il miglior partito da lui, Jo».

    «Oh… continua, zietta. Com’è interessante! Mi piace tanto sentire queste cose».

    «Dunque, un giorno il nonno tornò di umor nero da Brighton. Ce ne volle prima che potessi calmarlo, tanto da fargli raccontare quello che era successo. Tre di quelle case, a quanto pare, non asciugavano. Le prime case avevano fatto ottima riuscita, cosicché il nonno non aveva mai sospettato nulla; ma sembra che il fornitore del materiale da costruzione avesse approfittato della sua buona fede, per bagnare la calce con acqua di mare invece che con acqua dolce. Non ho mai potuto comprendere se ci ricavasse un qualche vantaggio, o se l’avesse fatto per ignoranza, ma il nonno era convinto che fosse un mascalzone. Non asciugheranno mai, non asciugheranno mai, andava ripetendo. Credo che se fosse morto in quel momento, quelle parole gli si sarebbero stampate sul cuore. Perché, vedi, sembra ci sia stato qualcuno che gli abbia insegnato un sistema per far sembrare asciutte le case, per quanto, col tempo umido, non lo sarebbero mai state veramente. Quella notte, dopo che mi fui coricata, lo udii camminare a lungo nella sua stanza, attigua alla mia; poi, il mattino dopo, lo sentii borbottare: No, non voglio essere menato per il naso!. Dopo una lotta tremenda con se stesso, aveva deciso di non prestarsi ad alcun imbroglio».

    «E allora che cosa avvenne, zietta?»

    «Ebbene, non fece altro che demolire quelle tre case e ricostruirle da capo; ma ci rimise migliaia di sterline».

    «E non le fece pagare a quello che aveva adoperato l’acqua di mare?»

    «Cercò di farlo, Jo, ma quell’uomo era fallito. Il nonno invecchiò molto, dopo quella faccenda. E noi tutti quanti ci sentivamo come smarriti».

    Zia Ann tacque, perduta nel ricordo di allora. Edward!… La voce del nipote la scosse.

    «Il nonno non fallì vero, zietta?»

    «No, Jo; ma rasentò il fallimento. Del resto, forse il male non venne tutto per nuocere, perché gli procurò gran rispetto, e negli anni successivi fu sempre soddisfatto d’aver agito così lealmente».

    Alzò lo sguardo, un po’ sorpresa, poiché sentiva che il giovane Jolyon osservava il suo volto a una strana maniera.

    «Immagino quanto tu abbia sofferto, zietta».

    Le labbra di zia Ann si strinsero, ferme, contro il sospetto d’essere oggetto di compassione.

    «Vedi dunque, caro», disse, «che tuo nonno aveva buoni principi, e questa è una gran cosa».

    «Andava molto in chiesa?»

    «Non troppo. Era stato educato da buon metodista, cosicché non andò mai molto d’accordo con la Chiesa. Soleva dire che le funzioni erano piene di salamelecchi. Noi, naturalmente, preferivamo molto la chiesa alla cappella. Egli non ci proibiva di andare alle funzioni».

    «Forse, dopotutto, era contento di non andarci lui».

    Zia Ann si coprì la bocca con un ventaglietto di carta.

    «Non bisogna essere impertinenti, caro».

    «Oh, no, zia; parlo sul serio».

    «Ecco, Jo; non credo si potesse chiamar tuo nonno un uomo molto religioso, dopo la morte della nostra povera mamma. Non si rassegnò mai».

    «E mio padre andava molto d’accordo con lui?»

    «Non troppo. Tuo padre era proprio il beniamino della mamma».

    «Capisco».

    «Sicuro, caro, il nonno era sempre tanto occupato nei suoi affari, che gli rimaneva poco tempo per noi ragazzi. Se non sbaglio, di tutti noi io ero quella che preferiva».

    «Perché sei tanto buona, zietta».

    «Sss! Jo, non devi prendermi in giro. Io ero la sola abbastanza in età per poter discorrere con lui, quando morì la mamma».

    «Mi pareva che tu avessi detto che mio padre aveva la mia età».

    «Già, ma a quei tempi la gente non parlava con i bambini come accade ora».

    Il piccolo Jolyon non ribatté nulla, ma inarcò il mento con ostentazione.

    Bambini!

    «Quanto denaro ha lasciato, zietta, dopo tutte queste peripezie?»

    «Trentamila sterline, caro, divise in parti uguali tra noi dieci. Oh, era molto giusto».

    Jolyon cavò di tasca l’orologio: era un vecchio orologio di suo padre che gli piaceva ostentare cavandolo così di tasca.

    «È ora che me ne vada, zietta; ho un appuntamento con un tale al museo di Madame Tussaud’s. Ah!… Potrei avere quelle fibbie?»

    Gli occhi della zia Annlo squadrarono; egli era il suo beniamino, per quanto dovesse ammettere che lo comprendeva poco.

    «Si potranno lasciare in mano tua, caro?»

    «Certamente!»

    «Sono un’eredità, Jo. Non credi sarebbe meglio aspettare che tu sia cresciuto un poco?»

    «Oh, zietta! Come se non fossi…»

    Le dita di zia Ann rovistarono nel cassettino.

    «Sta bene; ma a patto che tu le tenga molto da conto. E non dovrai nemmeno portarle, fino a che non andrai a Corte».

    «Si portano le fibbie, a Corte?»

    «Credo di sì, caro. Non ci sono mai stata. Eccole».

    E le tolse dalla carta velina nella quale erano avvolte. Erano di vecchio smalto nero, smaltate in argento. Sul poco velluto nero al quale erano appuntate, luccicavano discretamente.

    Il giovane Jolyon le prese in mano. In quale delle sue tasche avrebbe potuto cacciarle, senza che lo facessero sfigurare?

    «Mi piacciono, zietta».

    «Sì, caro, sono di vero smalto antico. Hai un posto sicuro dove conservarle?»

    «Oh, sì; ho tanti cassetti». Mise le fibbie nella tasca ch’era nella falda della giubba, e si sporse a baciare la zia.

    «Non ti ci siederai sopra, Jo?»

    «Non ci sediamo mai sulle falde, zietta».

    Gli occhi della zia lo seguirono vivaci fino alla porta, donde egli si volse per farle cenno con la mano. Caro

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