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Landa in fiore: La saga dei Forsyte VIII
Landa in fiore: La saga dei Forsyte VIII
Landa in fiore: La saga dei Forsyte VIII
E-book343 pagine4 ore

Landa in fiore: La saga dei Forsyte VIII

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Info su questo ebook

Londra, 1932. La vita tranquilla di Dinny Cherrell è sconvolta dal ritorno in Inghilterra di Wilfrid Desert, il poeta che anni prima era fuggito in Oriente per amore di Fleur Forsyte.
Tra loro è amore a prima vista, ma il loro rapporto diventa ben presto tormentato e osteggiato dalle famiglie e dalla “buona società” quando si scopre che Wilfrid si è convertito all’Islam per salvarsi la vita. Non contento, dà alle stampe un poemetto in cui spiega la sua decisione, suscitando scandalo e diventando per tutti un vile da emarginare.
Dinny si accorgerà ben presto di quanto sono forti e dure a morire le tradizioni patriottiche e religiose, che Galsworthy riesce a mettere in scena con la consueta maestria nel penultimo capitolo della Saga dei Forsyte.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2019
ISBN9788899403812
Landa in fiore: La saga dei Forsyte VIII
Autore

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Anteprima del libro

    Landa in fiore - John Galsworthy

    44

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    Il possidente. La saga dei Forsyte vol. I

    In tribunale. La saga dei Forsyte vol. II

    In affitto. La saga dei Forsyte vol. III

    La scimmia bianca. La saga dei Forsyte vol. IV

    Il cucchiaio d'argento. La saga dei Forsyte vol. V

    Il canto del cigno. La saga dei Forsyte vol. VI

    Fanciulla. La saga dei Forsyte vol. VII

    I racconti di Casa Forsyte

    John Galsworthy, Landa in fiore (La saga dei Forsyte, vol. VIII)

    1a edizione Landscape Books, ottobre 2019

    Collana Aurora n° 44

    © Landscape Books 2019

    Titolo originale: Flowering Wilderness. End of Chapter - II

    Traduzione a cura di Guido Del Duca

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-81-2

    In copertina: rielaborazione da René-Xavier Prinet

    Edizione digitale a cura di WAY TO ePUB

    John Galsworthy

    Landa in fiore

    La saga dei Forsyte VIII

    I.

    Nell’anno 1930, in uno dei giorni subito dopo la pubblicazione del Bilancio dello Stato, nei pressi della stazione di Victoria a Londra poteva essere osservata l’ottava meraviglia del mondo: tre inglesi, di tipo completamente diverso, tutti e tre in simultanea contemplazione di una statua londinese. Erano arrivati separatamente e se ne stavano, un po’ distanti l’uno dall’altro, nell’angolo sud-ovest dello spiazzo senza alberi, dove non battevano loro negli occhi i raggi obliqui di un tardo pomeriggio di primavera.

    Dei tre, uno era una giovane di circa ventisei anni, l’altro un giovanotto di forse trentacinque anni, il terzo un uomo fra i cinquanta e i sessanta. La giovane, di figura slanciata e di espressione tutt’altro che sciocca, guardava in su con la testa leggermente inclinata da un lato, e un lieve sorriso sulle labbra semiaperte… Il giovanotto, che indossava un soprabito blu con la cintura stretta intorno alla vita sottile, come infreddolito da quel vento primaverile, mostrava una tinta terrea sotto un’abbronzatura scolorita; l’espressione sdegnosa della sua bocca faceva strano contrasto con lo sguardo intensamente appassionato con cui fissava la statua. Il terzo, il più anziano, molto alto, con un abito marrone e scarpe scamosciate anche queste marroni, passeggiava con le mani nelle tasche dei pantaloni, la lunga e bella faccia matura, come mascherata da un pungente scetticismo.

    Intanto la statua, che era quella del Maresciallo Foch a cavallo, svettava in mezzo agli alberi, più ferma di quelli che la stavano osservando.

    A un tratto il giovanotto parlò:

    «È lui che ci ha salvati!»

    Questa trasgressione alle regole d’educazione produsse sugli altri due un effetto diverso: il signore anziano sollevò leggermente le sopracciglia e si fece avanti come per esaminare le gambe del cavallo. La giovane si voltò a guardare in faccia colui che aveva parlato e immediatamente il suo volto espresse una viva sorpresa:

    «Wilfrid Desert?»

    Il giovanotto s’inchinò.

    «Allora», disse la giovane, «noi ci siamo già conosciuti. Al matrimonio di Fleur Mont. Se si ricorda, lei era testimone, il primo testimone che io avessi mai visto. Avevo solo sedici anni. Certo lei non si ricorderà di me… Elizabeth Cherrell, detta Dinny Cherrell. Mi presero come damigella d’onore all’ultimo momento».

    Il giovane abbandonò la sua espressione di disprezzo.

    «Mi ricordo benissimo dei suoi capelli».

    «È la sola cosa per cui gli altri si ricordano di me».

    «Si sbaglia! Mi ricordo anche di aver pensato che lei doveva aver posato per Botticelli. E vedo che sta ancora posando per quel quattrocentista».

    Dinny pensava: Questi occhi sono i primi che mi abbiano turbata. Sono veramente belli.

    I suddetti occhi si erano nuovamente voltati verso la statua. «È proprio lui che ci ha salvati», disse Desert.

    «Lei c’era, naturalmente».

    «Volavo, e ne ero pieno fino ai capelli».

    «Le piace la statua?»

    «Il cavallo, sì».

    «Sì», mormorò Dinny, «è un cavallo vero e non una botte scalpitante con denti, froge e un dorso arcuato».

    «Nel complesso è un lavoro ben fatto, degno di Foch». Dinny, corrugando la fronte, osservò:

    «Mi piace come se ne sta tranquillo in mezzo a quegli alberi».

    «Come sta Michael? È suo cugino, se ben ricordo».

    «Michael sta benone. È ancora deputato; ha un collegio che non riesce a perdere».

    «E Fleur?»

    «In fiore. Sa che ha avuto una bambina l’anno scorso?»

    «Fleur? Ah! Allora ne ha due di bimbi?»

    «Sì; questa l’hanno chiamata Catherine».

    «È dal 1927 che manco dal mio paese. Diamine! È passato parecchio tempo da quel matrimonio».

    «Si direbbe», disse Dinny, contemplando la sua faccia bronzeo-terrea, «che è stato parecchio al sole».

    «Se non sto al sole, non vivo».

    «Una volta Michael mi disse che lei viveva in Oriente».

    «Sì, mi aggiro da quelle parti».

    La sua faccia parve oscurarsi ancor più ed ebbe un leggero brivido. «Fa un freddo cane, in questa primavera inglese!»

    «E scrive ancora versi?»

    «Oh! conosce questa mia debolezza?»

    «Li ho letti tutti. Quello che preferisco è l’ultimo volume». Egli sorrise.

    «Grazie di accarezzarmi per il verso del pelo; lei sa che ai poeti fa piacere. Chi è quel signore alto? Mi sembra di conoscerla, quella faccia».

    Il signore alto, che era andato dall’altra parte della statua, stava ritornando.

    «Non so come», mormorò Dinny, «ma lo ricollego anche lui a quel matrimonio».

    Il signore alto si fece verso di loro, dicendo:

    «I garretti non sono fatti per niente bene».

    Dinny sorrise.

    «Meno male che noi non abbiamo garretti. Stavamo proprio pensando se la conoscevamo o no. Non era lei al matrimonio di Michael Mont qualche anno fa?»

    «C'ero. E chi è lei, madamigella?»

    «Ci siamo conosciuti in quell’occasione. Sono una sua prima cugina da parte della madre. Dinny Cherrell. Il signor Desert era il testimone dello sposo».

    Il signore alto fece un cenno con il capo.

    «Oh! Ah! Io mi chiamo Jack Muskham e sono cugino di primo grado del padre di Michael». Si rivolse a Desert. «Lei ammirava Foch, mi sembra».

    «Difatti».

    Dinny rimase sorpresa dall’espressione annoiata che aveva assunto il volto di Desert.

    «Eh, sì», disse Muskham «fu un vero soldato; e non ce n’erano troppi in giro. Ma io sono venuto qui per vedere il cavallo».

    «Certo, è la parte più importante della statua», mormorò Dinny.

    Il signore alto si rivolse verso di lei con il suo sorriso scettico.

    «C’è una cosa per cui dobbiamo ringraziare Foch: che non ci abbandonò mai nei momenti difficili».

    Desert si voltò all’improvviso:

    «Ha qualche ragione speciale per fare questa osservazione?»

    Muskham scrollò le spalle, si tolse il cappello rivolto a Dinny e s’allontanò a passo lento.

    Lo guardarono andarsene e tra loro cadde un silenzio. Lo ruppe Dinny chiedendo:

    «E lei da che parte va?»

    «Dalla parte dove va lei».

    «La ringrazio molto, signore. Mount Street, dove ho una zia, le andrebbe come direzione?»

    «A meraviglia».

    «Dovrebbe ricordarsi di questa zia, la madre di Michael: è un tesoro, la donna più brava del mondo per saltar di palo in frasca; parla a sbalzi, che bisogna saltare anche noi per tenerle dietro».

    Attraversarono la strada e s’incamminarono su per Grosvenor Place, dalla parte di Buckingham Palace.

    «Suppongo che troverà l’Inghilterra cambiata ogni volta che ci ritorna».

    «Non c’è male…».

    «Non vuol bene alla sua terra nativa, come si suol dire?»

    «Mi ispira una sorta di orrore».

    «Lei è per caso uno di quelli che vogliono essere giudicati peggiori di quello che sono?»

    «Peggiore di quel che sono? Non è possibile. Lo chieda a Michael».

    «Michael è incapace di calunniare».

    «Michael, come tutti gli angeli, sta al di fuori della realtà».

    «No», disse Dinny, «Michael ha i piedi ben fermi sulla terra ed è molto inglese».

    «Questa è la contraddizione che lo tormenta».

    «Ma perché lei vuol denigrare l’Inghilterra? Altri l’hanno già fatto prima di lei».

    «Non l’ho mai denigrata, tranne che davanti agli inglesi».

    «Meno male. Ma perché davanti a me?»

    Desert si mise a ridere.

    «Perché mi sembra che lei sia l’Inghilterra, come mi piacerebbe che fosse».

    «Orgogliosa e giusta, ma non grassa né avvizzita!»

    «Quello su cui trovo da ridire è la convinzione dell’Inghilterra di essere ancora perfetta».

    «E non lo è, davvero?»

    «Lo è», disse inaspettatamente Desert, «ma non ha nessuna ragione di crederlo».

    Dinny pensò:

    "Siete perverso, fratello Wilfrid, disse la giovane, e la vostra lingua è troppo tagliente; non siete mica bello a camminare con la testa all’ingiù e i piedi in aria.

    Perché volete provare sempre la cosa più difficile?"

    Ma più semplicemente osservò:

    «Se l’Inghilterra, nonostante tutto, continua a sentirsi perfetta, dimostrerebbe a ogni modo di avere una certa intuizione. È per intuito che non le è piaciuto il signor Muskham?» E guardandolo in faccia, pensò: Ho fatto una gaffe.

    «Perché dovrebbe essermi personalmente antipatico? È il solito tipo insignificante di frequentatore di caccie e di corse».

    Non è questa la ragione, pensò Dinny continuando a osservare la faccia del suo interlocutore. Strana faccia! Infelice per una profonda disarmonia interna, come se due angeli, uno buono e uno cattivo, cercassero continuamente di distruggersi a vicenda; ma i suoi occhi le produssero lo stesso turbamento come quando, a sedici anni, con i capelli ancora sciolti gli era stata vicina al matrimonio di Fleur.

    «Dunque le piace veramente pellegrinare in terra d’Oriente?»

    «Sono perseguitato dalla maledizione di Esaù!»

    Un giorno, pensò Dinny, mi farò spiegare a cosa allude. Ma probabilmente non lo rivedrò più. Un brivido le corse giù per la schiena. Disse:

    «Forse lei conosce anche mio zio Adrian. Durante la guerra era in Oriente. Ora tiene in ordine delle ossa, in un museo. Probabilmente conosce Diana Ferse. Lo zio l’ha sposata l’anno scorso».

    «Non conosco proprio nessuno».

    «Dunque il nostro unico punto di contatto è Michael».

    «Non credo molto ai contatti attraverso altre persone. Dove abita, signorina?»

    Dinny sorrise.

    «Un breve cenno autobiografico mi sembra opportuno. Da innumerevoli secoli la mia famiglia ha avuto la sua sede a Condaford Grange, nella contea di Oxford. Mio padre è un generale a riposo; io sono una delle sue due figlie; il mio unico fratello è pure militare, sposato, e sta per tornare dal Sudan in licenza».

    «Ah!», disse Desert e la sua faccia riprese l’espressione afflitta di prima.

    «Ho ventisei anni», continuò Dinny, «nubile e senza figli per ora. Dicono che la mia passione sia quella di occuparmi degli affari degli altri. Non so come mai. A Londra sto da lady Mont, in Mount Street. Benché allevata con semplicità, ho tendenze spenderecce, senza avere i mezzi per soddisfarle. Credo di saper capire una spiritosaggine. Adesso a lei».

    Desert sorrise, scuotendo la testa.

    «Devo parlare ancora io?» disse Dinny. «Lei è il secondogenito dei lord Mullyon; è stato troppo in guerra; scrive versi, ha un temperamento nomade ed è nemico di se stesso: quest’ultimo particolare solo a titolo d’informazione. Eccoci a Mount Street. Venga su a salutare la zia Em».

    «No, grazie… Piuttosto vuol pranzare con me domani e dopo andremo a teatro?»

    «Volentieri. Dove?»

    «Da Dumourieux, all’una e mezza».

    Si scambiarono una stretta di mano e si lasciarono. Dinny, nell’entrare in casa della zia, si sentiva tutta leggera e sostò un momento davanti alla porta del salotto sorridendo a questa sua sensazione.

    II.

    Il sorriso scomparve dalle labbra di Dinny nell’udire il brusio che giungeva attraverso la porta chiusa.

    Dio mio!, pensò. È la festa della zia Em e me n’ero dimenticata!

    Qualcuno che suonava il piano si fermò; una corsa, della confusione, uno strusciare di seggiole sul pavimento, due o tre strilli, silenzio e la musica riprese.

    ‘‘Giocano a chi arriva prima a sedersi", pensò mentre apriva la porta senza far rumore.

    Quella che era stata Diana Ferse, sedeva al piano. Lungo una fila di otto sedie, che presentavano alternate una il sedile e una la spalliera, erano in azione un adulto e otto ragazzi, con in capo dei cappelli di carta velina variopinta: sette stavano già alzandosi in piedi e due rimanevano seduti su di un’unica seggiola. Da destra a sinistra Dinny notò: Ronald Ferse; un bambino cinese; la piccola Anne, figlia minore della zia Alison; il minore dello zio Hilary, Tony; Celia e Dingo (figli della sorella sposata di Michael, Celia Moriston); Sheila Ferse e sull’ultima sedia lo zio Adrian e Kit Mont. Sapeva anche che c’erano la zia Em, un po’ affannata, vicina al caminetto, con un gran copricapo di carta purpurea, e Fleur che toglieva una sedia dalla parte di Ronald.

    «Kit, alzati, eri eliminato».

    Ma Kit rimase seduto e Adrian si alzò.

    «Benissimo, adesso te la vedrai con i tuoi pari. Muoviti, presto!»

    «Via le mani dalle spalliere» strillava Fleur. «Wu Fing, non devi metterti a sedere finché la musica non ha smesso. Dingo, non stare così appiccicato all’ultima sedia».

    La musica cessò. Corse, spinte, strilli, e la più piccola, la piccola Anne, rimase fuori.

    «Non fa nulla, tesoro», disse Dinny. «Vieni qui a suonare questo tamburo. Fermati quando si ferma la musica; così va bene. Adesso ricomincia. Sta’ attenta alla zia Di».

    E ancora e ancora e ancora, finché rimasero nel gioco soltanto Sheila, Dingo e Kit.

    Scommetto che vince Kit, pensò Dinny.

    Sheila è fuori! Via una sedia. Dingo con la sua aria così scozzese e Kit, così biondo ora che aveva perso il cappello di carta, giravano e giravano intorno all’ultima sedia. Andavano giù insieme, insieme si rialzavano e riprendevano a girare, Diana badava a sviare i loro sguardi, Fleur se ne stava indietro con un lieve sorriso; la faccia della zia Em era in fiamme. La musica cessò: Dingo si sedette anche questa volta e Kit rimase in piedi, rosso di rabbia.

    «Kit», esclamò Fleur, «comportati come si deve!»

    Kit alzò il capo e si mise le mani in tasca.

    Brava Fleur, pensò Dinny.

    Una voce alle sue spalle disse:

    «La grande passione di tua zia per i giovani fa nascere gran confusioni. Se ci mettessimo un po’ tranquilli nel mio studio?»

    Dinny si volse a guardare il viso magro, asciutto, mobile di sir Lawrence Mont, i cui baffetti erano praticamente bianchi mentre i capelli li aveva ancora brizzolati.

    «Io non c’entro niente, zio Lawrence».

    «Una volta tanto. Lascia dunque che i miscredenti si sfoghino e andiamo giù a fare una chiacchierata da bravi cristiani».

    Mi piacerebbe parlare di Wilfrid Desert, pensò Dinny mentre, arrendevole, seguiva lo zio.

    «Di che cosa ti stai occupando adesso, zio?»

    «In questo momento mi sto riposando e leggendo le memorie di Harriette Wilson. Una donna notevole, Dinny. Ai tempi della Reggenza nell’alta società ce ne voleva per rovinarsi la reputazione; ma lei fece del suo meglio per rovinarsela. Se non sai nulla di lei, posso dirti che ebbe gran fede nell’amore, ebbe numerosi amanti ma di tutti ne amò soltanto uno».

    «E, ciò nonostante, aveva fede nell’amore?»

    «Eh! era una donnina di buon cuore e gli altri le volevano bene. Proprio l’antitesi di Ninon de Lenclos, che li amò tutti quanti. Sono state due donne assai vispe. Te lo immagini un dialogo fra loro due sulla virtù? Siediti».

    «Questo pomeriggio, mentre stavo guardando la statua di Foch, ho incontrato un tuo cugino, il signor Muskham».

    «Jack?»

    «Sì».

    «L’ultimo dei dandy. C’è un’enorme differenza, Dinny, fra il buck, il dandy, lo swell, il masher, il blood, il knut, e qual è l’ultimo nome dell’incarnazione? Non me lo ricordo mai. C’è stato un continuo decrescendo. Per l’età, Jack apparterrebbe all’epoca dei masher, ma ha sempre avuto il taglio del puro dandy, il vero tipo che si trova nei romanzi di Whyte Melville. Che impressione ti ha fatto?»

    «Cavalli, partite a picchetto e imperturbabilità».

    «Levati il cappello, mi piace vedere i tuoi capelli». Dinny si tolse il cappello.

    «Ho incontrato anche qualcun altro: il testimone di Michael».

    «Chi? Il giovane Desert? Di nuovo qui?» E sir Lawrence inarcò le sopracciglia.

    Le guance di Dinny si erano leggermente soffuse di rossore. «Sì», rispose.

    «Strano tipo, Dinny».

    Lei ebbe una sensazione alquanto diversa da quante ne avesse mai provate. Non avrebbe potuto spiegarla con le parole ma le faceva ripensare a una certa porcellana che due settimane prima aveva regalato a suo padre per il suo compleanno: un gruppetto in biscuit di bella foggia, raffigurante una volpe con quattro volpacchiotti accovacciati sotto. L’occhio della volpe, dolce ma guardingo, esprimeva esattamente quello che era il suo sentimento in quel momento.

    «Perché strano?»

    «Veramente tradisco un segreto, Dinny. Ma per te… So di sicuro che questo giovane fece la corte a Fleur, uno o due anni dopo il suo matrimonio. Fu la prima spinta a farlo diventare l’Ebreo Errante che è».

    Era dunque a questo che egli alludeva quando accennava a Esaù? No! Dalla faccia che aveva fatto parlando di Fleur non le pareva possibile.

    «Ma sono cose di un secolo fa», disse lei.

    «Oh, sì! storie vecchie; ma si è sentito parlare anche di altro. I club sono fontane d’ogni maldicenza».

    Il sentimento di Dinny perdette di dolcezza ma la sua attenzione si acuì.

    «Fontane di che cosa?», chiese.

    Sir Lawrence scosse la testa.

    «Quel giovane mi piaceva; neanche a te, Dinny, voglio ripetere cose di cui in fondo non so nulla di sicuro. Basta che uno viva in modo un po’ diverso dal solito, perché la gente non la finisca più di ridire sul suo conto». La guardò fissa, ma lo sguardo di Dinny rimase limpido.

    «Chi è quel bambino cinese di sopra?»

    «È il figlio di un ex mandarino, che ha lasciato qui la sua famiglia per via dei subbugli che ci sono laggiù. Strano ometto. Simpatici, i cinesi. Quando arriva Hubert?»

    «La settimana prossima. Prenderanno l’aeroplano dall’Italia. Jean ha volato molto, sai».

    «Che ne è di suo fratello?», e guardò di nuovo Dinny in faccia.

    «Alan? È di stanza in Cina».

    «Tua zia non finisce di rimpiangere che tu non lo abbia sposato».

    «Caro zio, farei qualunque cosa per far piacere alla zia Em, ma poiché i miei sentimenti per lui sono quelli di una sorella, i comandamenti me lo avrebbero impedito».

    «Io non voglio che tu ti sposi», disse sir Lawrence, «per andare a finire in Barberia o giù di lì».

    Come un lampo le passò per la mente il pensiero: Lo zio Lawrence la sa lunga, e il suo sguardo divenne più limpido.

    «Questo maledetto ufficialismo», continuò lui, «mi pare che ci portino via tutti i nostri conoscenti e parenti. Delle mie due figlie, Celia è in Cina, Flora in India; tuo fratello Hubert nel Sudan, tua sorella Clare, appena sposata, se ne andrà. Jerry Corven ha avuto un posto a Ceylon. Ho sentito dire che Charlie Muskham è stato preso al seguito del Governatore della Città del Capo; il figlio maggiore di Hilary vuole entrare nell’amministrazione civile in India e il minore in Marina. Mi pare, Dinny, che tu e Jack Muskham siete gli unici che mi rimaniate. C’è anche Michael, naturalmente».

    «Dunque vedi spesso ai club il signor Muskham?»

    «Abbastanza al Burton, e viene al mio tavolo al Coffee House: giochiamo a picchetto: siamo gli ultimi due a giocarlo. Ma adesso non è la stagione: da ora fino a dopo le corse di Cambridge non lo vedrò quasi più».

    «È un grande intenditore di cavalli?»

    «Sì. Di qualunque altra cosa non capisce niente. Già, gli intenditori non capiscono nulla fuori della loro partita. Pare che il cavallo sia un animale che chiude tutti gli spiragli all’intelligenza. Concentra in sé tutta l’attenzione degli appassionati; non solo devono badare ai cavalli ma anche a tutte le persone che in qualche modo hanno a che fare con i cavalli. Come stava il giovane Desert?»

    «Oh!», esclamò Dinny, che non se l’aspettava, «aveva un colorito giallo fosco…».

    «È il riverbero della sabbia. È una specie di beduino, sai. Suo padre è un eremita, quindi ce l’ha un po’ nel sangue. La miglior cosa che so di lui è che Michael gli vuol bene, nonostante quel pasticcio».

    «E le sue poesie?», chiese Dinny.

    «Disarmonie: con una mano disfa quello che fa con l’altra».

    «Forse non ha mai trovato il suo posto nel mondo. Ha degli occhi piuttosto belli, non ti pare?»

    «Mi ricordo piuttosto della sua bocca, inasprita dalla sofferenza».

    «Gli occhi dicono quello che uno è; la bocca quello che uno è diventato».

    «La bocca e la pancia».

    «Ho notato che lui di pancia non ne ha», disse Dinny.

    «Merito della dieta di una manciata di datteri e una tazza di caffè. Gli Arabi veramente non bevono caffè; il loro debole è il tè verde con della menta. Buon Dio! Ecco la zia. Quando ho detto buon Dio alludevo al tè con la menta».

    Lady Mont si era tolto il copricapo di carta e aveva ripreso fiato.

    «Cara zia», disse Dinny, «mi ero proprio dimenticata che era la tua festa e non ti ho portato nulla!»

    «Dammi un bacio, invece. Dico sempre che i tuoi baci sono una delizia. Da dove sei sbucata?»

    «Ero venuta in città a fare delle spese per Clare».

    «Hai portato quello che ti occorre per la notte?»

    «No».

    «Non fa nulla. Prenderai una delle mie camicie da notte. Porti ancora la camicia da notte?»

    «Sì», rispose Dinny.

    «Che brava ragazza! Non mi piacciono i pigiami per donna, e neppure a tuo zio. È al di sotto della vita, sai, che il pigiama è brutto. Non c’è rimedio: tanto non ci riuscite. Michael e Fleur rimarranno a pranzo».

    «Grazie, zia Em. Ho proprio bisogno di rimanere in città. Oggi non sono riuscita a prendere nemmeno metà della roba di cui Clare ha bisogno».

    «Non mi piace che Clare si sposi prima di te, Dinny».

    «Ma era logico che fosse così, zietta».

    «Sciocchezze! Clare è brillante; di solito, chi è brillante non si sposa presto. Io mi sono sposata a ventun anni».

    «Vedi, cara!»

    «Non mi prendere in giro. Sono stata brillante solo una volta. Te ne ricordi, Lawrence? Per via di un elefante; pretendevo che si sedesse e quello invece s’inginocchiava. Le zampe degli elefanti si piegano da una parte sola, Dinny. E allora dissi questa spiritosaggine: che ognuno segue la sua piega».

    «Zia Em! Tranne che in quell’occasione, sei sempre stata la donna più brillante che conosca».

    «Il tuo naso è un piacere a vederlo, Dinny; ho a noia i nasi aquilini, come quello di tua zia Wilmet, di Hen Bentworth e il mio».

    «Il tuo è appena un po’ curvo, cara».

    «Da bambina avevo il terrore che diventasse peggio e per questo lo schiacciavo con la punta all’insù contro un armadio».

    «Ho provato a farlo anch’io, zietta, ma per l’altro verso».

    «Una volta, mentre lo stavo facendo, mio fratello – tuo padre – si era nascosto sopra l’armadio, come un leopardo, e saltandomi addosso si morse un labbro a sangue. Il sangue mi colò giù per il collo».

    «Che orrore!»

    «Sì. A che cosa stai pensando, Lawrence?»

    «Pensavo che probabilmente Dinny non ha fatto colazione. È vero, Dinny?»

    «Mi proponevo di rimandarla a domani, zio».

    «Hai visto?», disse lady Mont. «Chiama Blore. Se non metti su un po’ di carne, non arrivi a sposarti».

    «Lasciamo che prima si sposi Clare».

    «Immagino che sarà Hilary a celebrare il loro matrimonio».

    «Di certo».

    «E io mi metterò a piangere».

    «Per quale ragione precisamente piangi ai matrimoni, zia?»

    «Perché lei sarà un angelo e lui sarà in falde e avrà dei baffi a spazzolino da denti, ma non proverà nessuno dei sentimenti che lei gli attribuirà. È triste!»

    «Ma certi sentimenti li proverà anche lui. Sono sicura che anche Michael faceva la stessa figura con Fleur e lo zio Adrian, quando sposò Diana».

    «Adrian ha cinquantatré anni e la barba. Per di più è Adrian».

    «Ammetto che questo comporti una differenza. Ma credo che sia piuttosto da compatire l’uomo. Per la donna quello è il momento culminante della vita, mentre l’uomo quasi sicuramente si accorge di avere un gilè che lo stringe».

    «Quello di Lawrence non lo stringeva. È stato come un fuscello e io ero sottile come te, Dinny».

    «Dovevi essere un amore

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