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Circostanze apparenti
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E-book151 pagine1 ora

Circostanze apparenti

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Info su questo ebook

Un capo arrogante morto avvelenato, un presunto omicida frustrato ed erotomane, un avvocato e una galassia di personaggi improbabili gravitano intorno alle disavventure di un solo uomo: Alessandro Aldovozzi.
di Roberto Aldovini
Un capo arrogante morto avvelenato, un presunto omicida frustrato ed erotomane, un avvocato conosciuto più per le doti anatomiche che non per le sue arringhe, una galassia di personaggi improbabili che gravitano intorno alle disavventure di un solo uomo: Alessandro Aldovozzi… arriva finalmente in libreria il romanzo che ha ridefinito il legal thriller. Già finalista al Premio Giallo Indipendente, Circostanze apparenti cattura e convince fin dalla prima pagina.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2020
ISBN9788833284286
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    Anteprima del libro

    Circostanze apparenti - Roberto Aldovini

    direzione.

    PARTE I

    I

    Il dildo rosa confetto mi fissa con aria di sfida dal comodino accanto al letto. Nella penombra della stanza la sagoma perlacea cattura la poca luce che filtra dalle persiane, restituendola sotto forma di riflessi sbiaditi. Mentre riemergo dalla nebbia di cinque ore di sonno e dai postumi della serata precedente, il mio sguardo è catturato dalle venature che si incrociano lungo l’asta artificiale rimandandomi, per qualche perversa associazione di idee, alle montagne russe della mia infanzia.

    Sfregandomi il viso mi siedo sulla sponda del letto e rabbrividisco per il marmo gelato del pavimento. Nonostante un guizzo dei neuroni superstiti, l’origine della presenza totemica continua a sfuggirmi.

    Mi rassegno all’enigma e come un morto vivente raggiungo il bagno, dove mi sorprendo a fissare un idiota nello specchio, che mi squadra di rimando. Viso smunto, occhiaie, un accenno di priapismo mattutino. Rifletto sulla tragicità dello scorrere del tempo e metto la testa sotto il getto d’acqua fredda prima di spostarmi alla tazza del water, dove un improvviso tremolio della mano si risolve nel tinteggiare la parete. Bestemmio prima di ingaggiare una colluttazione con il rasoio da barba, che mi procura un taglio orizzontale sotto la basetta destra. Sconfortato, torno in camera per indossare il completo blu d’ordinanza, quindi raggiungo l’open space che ospita la cucina. Con un gesto rabbioso getto due macine nel caffellatte, macchiandomi la camicia. Mentre torno in camera per cambiarmi, dalle labbra mi sfugge un’altra imprecazione.

    Sono già le sette e un quarto quando riesco finalmente a scendere nell’autorimessa, giusto in tempo per calpestare per la terza volta in un mese le deiezioni fumanti del carlino della signora Lanfranchi.

    «Bastardo d’un cane bastardo!» urlo a beneficio della Lanfranchi, che certamente mi osserva nascosta dietro le tende.

    Struscio la suola della scarpa sul cemento lanciando nel silenzio catacombale del garage un se lo prendo lo inculo che si stempera in un’eco cupa come il mio umore.

    Raggiungo la mia berlina tedesca, dove trovo un po’ di pace grazie alle Variazioni Goldberg. Nell’ora che impiego a percorrere i cinque chilometri che separano il mio appartamento dal luogo in cui si consuma la mia parabola professionale, spoglio visivamente una dozzina di ignare passanti mentre mi destreggio nel traffico e ingaggio duelli a colpi di clacson con casalinghe alla guida di SUV che si muovono nella mobilità mattutina con la grazia di una mandria di bufali.

    A un semaforo passo con il giallo. Il vigile urbano che mi consegna la contravvenzione con la sacralità di un trattato internazionale sostiene fosse rosso.

    Supero l’ultima rotonda coprendo l’urlo delle gomme con svariati appellativi gridati all’indirizzo della madre del pubblico ufficiale e imbocco il viale d’accesso alla Pharmalife s.p.a. su due ruote, infilandomi tra una Opel Corsa e una Lancia Y con una manovra che grida vendetta agli occhi del Signore.

    Scendo dall’auto e mi avvio a passo svelto verso l’ingresso della palazzina in vetro-cemento che ospita gli uffici direzionali dell’azienda. Il logo con la scritta Your health our mission mi accoglie occhieggiando sulla parete alle spalle della reception e ricordandomi come, per un tragico scherzo del destino, la mia salute sia drasticamente precipitata quando dieci anni fa ho deciso di mettere le mie doti legali al servizio di questa multinazionale del benessere. Mentre l’ascensore sale con l’esasperante lentezza di un impiegato statale, ripasso mentalmente l’elenco delle pendenze lavorative, ma l’operazione viene interrotta, una volta raggiunto il quinto e ultimo piano, dallo spalancarsi delle porte sulla vista di due gambe lunghissime, accompagnate da un busto snello che ospita un seno compresso in una camicetta color crema.

    Il viso curato è l’ultima cosa che noto quando riesco finalmente ad alzare gli occhi.

    «Ti cerca Belotti.»

    L’informazione mi giunge gradita quanto un’estrema unzione e suscita visioni apocalittiche da cui tento di fuggire tornando a fissare il seno di Carla, la mia collega.

    «E che minchia vuole Belotti alle otto e venti di mattina?» penso, probabilmente ad alta voce, perché lei risponde: «E che minchia ne so?»

    Schiacciato da un incombente senso di tragedia, mi avvio lungo il corridoio bianco che dall’ascensore di estende in direzione dell’ufficio del Direttore Generale come se percorressi il Miglio Verde.

    Arrivato davanti alla porta in vetro satinato, una targa dalle dimensioni di un’insegna pubblicitaria ospitante la scritta Dott. Angelo Belotti – CEO, mi informa che sono arrivato.

    Mi gratto una palla in cerca di coraggio e con un sospiro busso.

    «Buongiorno Dottore. Carla mi ha detto che mi cercava.»

    «Buongiorno Aldovocci. Venga.»

    «Vozzi»

    «Sì, quello che è.»

    Appesantito da un cronografo delle dimensioni di un pendolo, il braccio di Belotti mi invita ad accomodarmi su una poltrona che colloca i miei occhi a livello della scrivania in vetro-titanio il cui acquisto, secondo indiscrezioni del reparto contabilità, ha assorbito i ricavi dello scorso trimestre.

    «Dunque Aldovozzi, senza troppo girarci intorno», esordisce Belotti, fissandomi con occhi porcini da cui traspare la stessa empatia di una lastra di marmo, «l’ultimo contratto che ha mandato è una merda.»

    Mentre le parole paiono rimbalzare tra le pareti addobbate di fotografie che immortalano la sua folgorante ascesa professionale, focalizzo la mia attenzione sulle traiettorie di una mosca, cercando al contempo di afferrare appieno il senso di quell’affermazione. L’impresa si rivela complessa e dopo poco sento il bisogno di rompere il silenzio.

    «Nel senso che non le è piaciuto?»

    «Nel senso che fa cagare.»

    Annuisco con aria grave, massaggiandomi il mento.

    «Non saprei come altro definirlo», prosegue Belotti, incoraggiato dalla mia espressione da triglia.

    Il silenzio si protrae, inesorabile. Provo a dire qualcosa di intelligente.

    «Mi pare di capire che ci siano dei punti su cui non è d’accordo.»

    «Le sto dicendo che il lavoro che mi ha consegnato ieri fa schifo. S-C-H-I-F-O! Non va bene, non si lavora così. Qui pretendiamo il meglio, perché siamo il meglio.»

    Mentre Belotti mi rifila l’ennesimo pistolotto sulla filosofia aziendale, rivivo mentalmente le ultime due settimane passate a lavorare su un contratto di cento pagine più altre trenta di allegati, ostinatamente in lingua inglese nonostante nessuno dei contraenti sia inglese, le cui clausole sono state cambiate dozzine di volte dietro istruzioni contraddittorie e confuse che Belotti dispensava a ritmo di una fotocopiatrice impazzita.

    Imbastisco uno sguardo acuto e continuando a massaggiarmi il mento mi affido a un neutro capisco.

    «No, non capisce. Guardi, guardi qui.»

    Colto da un eccesso di teatralità, Belotti sventola dei fogli come se stesse rievocando una scena de Il Vizietto. «L’articolo quarantuno», dice accalorandosi «Cross Default? Che cacchio vuol dire Cross Default

    Prendo qualche secondo per soffocare un attacco di bile.

    «Scusi, ma quell’articolo l’ha inserito lei.»

    «Io?»

    Uno, due, tre, conto mentalmente, poi rispondo: «Sì, la scorsa settimana.»

    «E se io ci avessi voluto mettere un bel porca Eva lei lo avrebbe messo?»

    L’obiezione, di per sé fondata, suscita un moto di ribellione a cui non riesco a sottrarmi.

    «Scusi, ma l’ultima volta che l’ho corretta mi ha detto che non sono qui per fare il professore ma per eseguire le sue istruzioni.»

    «Esatto! Veda di eseguirle e portarmi un contratto decente.»

    Uno Zioporco mormorato su frequenze udibili solo dal carlino della signora Lanfranchi stempera l’attacco d’ira, impedendomi di scavalcare la scrivania e afferrare il collo del CEO.

    «Vedo di lavorarci di nuovo.»

    «Lei non deve vedere, lei deve sistemarlo entro lunedì.»

    «Veramente lunedì sono in ferie, le abbiamo concordate lo scorso Natale.»

    «Le rimandi.»

    «Non posso», mento.

    «Allora lo finisca entro domani sera», dice Belotti, poi abbassa la testa e torna a dedicarsi al cruciverba che tiene nascosto tra i fogli dell’ultimo rendiconto finanziario.

    «Certo», rispondo prima di incamminarmi, a passo stanco e con un vago bruciore alle terga, verso il mio ufficio.

    «Tutto bene con Belotti?»

    Carla si materializza dalla porta della saletta adibita a mensa mentre sono assorto in cupe riflessioni sulla mia condizione professionale.

    «Dopo ti dico, ora devo tagliarmi le vene.»

    Richiusa la porta del mio ufficio, mi lascio cadere sulla poltrona; nella testa rimbombano mille pensieri, la metà dei quali inerenti l’ingaggio di un sicario per eliminare la fonte dei miei problemi esistenziali. Nel mentre accendo il PC e apro la posta elettronica. Dalle nove della sera precedente, ora in cui ho furtivamente lasciato l’ufficio per andare a festeggiare il mio compleanno, già venticinque e-mail mi scrutano minacciose. Il cestino di Out-look si arricchisce di nuovi ospiti man mano che scorro i messaggi. Dopo meno di dieci minuti vengo stroncato da un mortale attacco di narcolessia e mi accascio sulla scrivania.

    «Aldo! Cacchio fai, dormi?»

    Volto adagio la testa, avendo cura di lasciare la guancia destra sul piano della scrivania, e con l’occhio sinistro scruto i riccioli rossicci e il viso spigoloso di Carla. L’occhiata perplessa che mi scocca dalla porta dell’ufficio pare un atto d’accusa.

    «Ginnastica facciale. Sto facendo le flessioni.»

    «Come va?»

    «A cazzo. Come al solito.»

    «Vuoi un caffè?»

    «No grazie, ho ancora cento piegamenti da fare.»

    Verso le undici ho finalmente evaso le e-mail di lavoro e posso dedicarmi al contratto-fecale, ma una telefonata mi raggiunge alle prime righe della millesima rilettura.

    «Sì?» rispondo sollevando svogliatamente la cornetta.

    «Aldovocci?» Ancora Belotti.

    «Vozzi.»

    «Sì, Vozzi. Il contratto me lo deve dare entro questa sera.»

    «In teoria uscirei alle quattro per un impegno personale, non so se faccio in tempo.»

    «Allora lo finisca per le quattro.»

    Dopo il click, fisso perplesso la cornetta e poco dopo nei corridoi della Pharmalife, imprigionato nelle forme di una bestemmia colossale, risuona il mio straziante urlo di frustrazione.

    Alle quindici e cinquantaquattro, saltata la pausa pranzo e trascurato il campionato di Tetris on-line, rileggo per la terza volta nell’arco degli ultimi trenta minuti

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