Un nuovo inizio
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Info su questo ebook
Ho conosciuto l’amore della mia vita a quindici anni. A sedici, lui è partito per l’esercito. Abbiamo avuto una relazione a distanza. Fatto l’amore per la prima volta mentre era in congedo. Ci siamo sposati, anche, mentre era in congedo. Gran parte delle nostre vite le avevamo passate lontani, quindi quando Linc aveva preso una decisione, che lo avrebbe tenuto lontano da me per anni, in prigione, mi ero arresa. Avevo chiuso. Quante volte la nostra vita poteva essere messa in pausa? Sapevo di meritare di vivere la vita accanto a una persona; non amarne una che non poteva rimanermi vicina.
Ora, Lincoln è uscito e devo mettere un punto a tutto questo… a noi. Una tragedia famigliare ci costringe a passare del tempo insieme, affrontando quello che ci ha separati. Vengo messa di fronte alla decisione più difficile della mia vita. Dovrei perdonare, o lasciarlo andare un’ultima volta con l’ultimo addio?
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Anteprima del libro
Un nuovo inizio - Abby McCarthy
1
Era presto. Troppo presto per la sveglia. Ma la vibrazione incessante non sembrava intenzionata a smettere. Perché, perché questi cosi ti devono far iniziare la giornata con il suono più fastidioso possibile? La colpii con poca forza, poi rotolai fuori dal letto… quel letto che era vuoto ormai da due anni, nove mesi e sei giorni. Non che stessi tenendo il conto dei giorni da quando Lincoln se n’era andato, ma, secondo la busta sulla mensola, quel giorno Lincoln avrebbe avuto la possibilità di uscire con la condizionale. La maggior parte delle mogli nella mia situazione sarebbe stata contenta. Ma la maggior parte delle mogli probabilmente faceva visita al proprio marito in prigione.
Mi liberai dalle lenzuola, ancora arrotolate attorno alle caviglie, proprio mentre Isabelle ci si strusciava contro facendo le fusa. Il mattino era l’unico momento in cui le stavo simpatica. Era molto più calorosa con Linc.
«Va bene, Iz. Ho capito.»
Mi spostai in cucina e, ancora addormentata, presi una ciotola di cibo per il gatto dalla dispensa. Il timer della macchina per il caffè suonò, e l’aroma ricchissimo e inconfondibile della mia droga preferita, la caffeina, prese a inondare il piccolo spazio.
Riempii la ciotola del gatto e la osservai superarmi e gettarsi sul cibo, dimenticandosi della mia esistenza.
Problema risolto.
Scossi la testa e presi una tazza dallo scolapiatti accanto al lavandino. Certo, avevo una lavastoviglie, ma ormai ero sola. A cosa serviva? Dopo essermi versata il caffè, presi il latte alla vaniglia e ne versai un bel po’ nella tazza. Delizioso. Inalai l’aroma come se fosse una droga, e mi sentii subito rinvigorita.
Per i quaranta minuti successivi, mi preparai per andare al lavoro. Mi asciugai i capelli, che si gonfiarono come piaceva a me. Le ciocche spesse e nere raggiungevano ormai la metà della schiena. Gli occhi nocciola erano circondati da una linea nera, e le palpebre erano colorate di chiaro, adatto all’ufficio. Misi un lucidalabbra, poi terra e illuminante sul viso. Indossai una camicetta bianca, una gonna nera a vita alta e delle décolleté nere. Quello era il mio outfit quotidiano per l’ufficio.
Dal portagioielli presi dei cerchietti d’oro per le orecchie. Lo sguardo mi cadde per un attimo sulla fede. Il diamante a goccia brillava tra gli altri gioielli, risultando sicuramente il più bello. Cercai di evitare di pensare a Lincoln, ma sapendo che giorno fosse, mi risultò difficile.
E se lo avessero rilasciato? Come lo avrei affrontato?
Scossi la testa e cercai di liberarmi da quei pensieri, ricordandomi che non aveva più il mio numero. Non sapeva dove vivessi. E l’unico posto dove avrebbe potuto cercarmi era al lavoro, ma c’era la sicurezza alla porta.
Mi guardai un’ultima volta allo specchio, valutandomi: mi piaceva il look che avevo creato. Ero sempre stata grata per la discendenza spagnola e italiana. Mi dava un’aria esotica, e l’unica cosa che mi venne in mente fu che era stata proprio quell’aria esotica ad attirare Lincoln. Se solo non lo avessi mai incontrato…
No.
Dovevo fermare quei pensieri e impedire alla mia mente di tornarci.
Indossai un cappotto nero stretto in vita, afferrai la borsa, le chiavi e mi chiusi la porta alle spalle. Qualche secondo dopo, ero in ascensore verso il pianoterra del complesso e poi in strada. Le strade erano trafficate, come sempre. Le persone troppo distratte dai telefoni per notare ciò che accadeva attorno. Io no. Quel giorno avevo troppa paura del telefono. Sapevo che era un uomo dalle mille risorse.
Salii sulla linea L del treno verso il centro di Chicago. Ci volevano venti minuti per arrivare ed era sempre pieno. C’erano quattro posti liberi, quindi mi sbrigai a sedermi.
«È libero?» Sollevai lo sguardo e incontrai quello di un hipster affascinante. Aveva la barba in ordine, degli occhiali interessanti e uno chignon stretto. Persino da seduta riuscivo a vedere le lunghe le ciglia e il broncio appena accennato.
«Tutto tuo,» risposi, alzandomi così da permettergli di raggiungere il sedile accanto al finestrino. Non volevo sentirmi intrappolata con lui da una parte e il vetro dall’altra. Era la cosa peggiore.
Si sedette, e feci del mio meglio per evitare il contatto visivo. Non mi andava di parlare. E gli hipster sembrano sempre tipi molto socievoli e amichevoli. Ma io non ero proprio in vena.
«Allora, stai andando al lavoro? Scusa, era una domanda idiota. Ovviamente stai andando al lavoro. Sono le otto e un quarto di venerdì mattina, dove mai potresti andare vestita così?» Parlò senza mai fermarsi.
«Mm-hm,» risposi distratta, sperando che capisse l’antifona.
Il telefono prese a vibrare facendomi balzare sul posto. Cadde sul pavimento sporco del treno. Mi sporsi per prenderlo e sbattei la testa contro quella dell’hipster.
«Ahi,» dissi mentre lui diceva: «Ahia.»
Tornai seduta e mi massaggiai la tempia.
Mi passò il telefono, e per la seconda volta pensai che fosse molto attraente, quasi bello.
Il telefono vibrò ancora, quindi abbassai gli occhi fino a vedere il nome di Ty. Mi abbandonai a un sospiro di sollievo. Ty era il fratello di Lincoln, l’unico a sapere il mio numero di telefono e il mio indirizzo. Era l’unica persona della mia vita con Lincoln con cui ero rimasta in contatto. Nessun altro poteva capire perché avevo dovuto lasciare Lincoln e io non riuscivo a reggere il giudizio. Come se il mio desiderio di chiudere con un marito galeotto fosse una cosa folle.
Osservai l’uomo accanto a me. Era da maleducati rispondere a una telefonata in treno, ma lo feci comunque.
«Ehi, Ty.»
«Ehi, Lols. Tutto bene?»
«Sì, tutto bene. Sto cercando di non pensare a nulla.»
«Ho parlato con mamma. Pensa che succederà. Non c’è motivo per cui non lo rilascino.»
Annuii, per poi rendermi conto che non poteva vedermi. «Ricorda, hai promesso, Ty.»
«Sei sicura che è quello che vuoi? Ti ama.»
Potevo sentire la gola stringersi. Ero stata così brava a non piangere per così tanto tempo.
«Ty,» sospirai il nome.
«Va bene, è che penso…»
«Ora chiudo,» gracchiai quasi.
«Okay. Senti, ti scrivo quando so qualcosa di certo.»
«Ciao, Ty.» Terminai la comunicazione senza aspettare una risposta. Era tutto troppo opprimente.
Infilai il telefono in borsa e spostai lo sguardo sull’uomo accanto a me. I suoi occhi incrociarono i miei: «Era il tuo ragazzo?»
Era un po’ presuntuoso da parte sua fare quella domanda, ma scossi la testa.
«Mi dispiace, sembra che tu stia avendo una pessima mattinata.»
«Non ne hai idea,» confermai.
«Guarda il lato positivo. C’è il sole.»
Guardai fuori e notai che era una bellissima giornata. «Hai ragione. Ed è una bellissima giornata.»
«Scusa, non ti conosco. Tu non conosci me. Forse pensi che sia un po’ invadente che uno sconosciuto si faccia i fatti tuoi, ma non posso farne a meno… mia madre è una hippie.»
Mi domandai per un attimo dove volesse andare a parare.
«Comunque, mi ha insegnato che quando le cose sembrano andare male, bisogna sempre guardarsi attorno e cercare qualcosa di positivo. E il sole in cielo è sempre una bella notizia.»
Non conoscevo quell’uomo, ma ammiravo la sua spontaneità.
«Come ti chiami?» chiesi. Non lo facevo mai.
Il viso si ammorbidì, e quando sorrise, notai delle increspature attorno alle labbra. «Mi chiamo Jet. E tu?»
Fui attraversata da un barlume di senso di colpa, ma lo scacciai via. «Jet?» domandai. Era un nome particolare.
«Come ho detto, mamma era una hippie, e mio padre… beh, mio padre è cresciuto negli anni Settanta. Sai, di solito mi tengo questa storia per il primo appuntamento.» Lo disse con un tono leggero, poi mi studiò per un istante. «Allora, che ne dici?»
Parlò troppo veloce, e io, ormai confusa, non sapevo che cosa mi stesse chiedendo. Il nome, giusto. «Oh, scusami, sono Lola.»
«Beh, Lola, che ne dici? Vuoi sapere di come una hippie e un aspirante Travolta hanno creato un Jet?»
«Ah,» risposi, scioccata. Non avevo per nulla notato il fatto che stesse flirtando. Massaggiai il dito dove una volta tenevo la fede, incerta delle mie stesse sensazioni.
«Oh, no, non mi piace il suono di quel tuo ah
.»
«Mi dispiace, Jet. Tu sembri davvero un bravo ragazzo, ma io sono… beh… sono complicata.»
«Sai che ti dico? Quando sarai meno complicata, chiamami.»
Mi passò un suo biglietto da visita, e fui sorpresa di vedere che era un ingegnere acustico presso lo studio di registrazione Sound Machine Recording Studio.
«La Sound Machine, eh? Io lavoro nell’amministrazione alla Black Label.» Lavoravo per una casa discografica e mi capitava spesso di pagare fatture alla Sound Machine.
«Com’è piccolo il mondo. Vedi quante cose abbiamo in comune?» Cavolo, ci sapeva fare. C’era qualcosa nella sua spensieratezza che mi metteva a mio agio.
Il treno si fermò, e tutti ci sporgemmo un po’ in avanti mentre perdeva velocità. «Beh, io scendo qui. Spero che mi chiamerai quando la tua vita sarà meno complicata.» Piegò la testa di lato, ponderando le prossime parole mentre io mi alzavo per farlo scendere. «Forza, Lola, un solo appuntamento.»
Quando disse il mio nome, sentii delle farfalle muoversi nello stomaco. Scossi la testa. «Vedremo. È stato un piacere. Oh, Jet, goditi il sole.»
«Non è il sole ad avermi illuminato la giornata.» Se ne andò, e io mi ritrovai a sorridere. Solitamente non davo mai corda agli uomini, ma qualcosa nel modo in cui si era aperto così spontaneamente mi aveva intrigata. Riuscivo a sentire il senso di colpa che voleva tornare. Mi avrebbe consumata se glielo avessi permesso, e non potevo farlo. Erano passati anni; lunghi e pesanti anni. Mi chiesi per un attimo come fosse stato per Lincoln, e odiai il fatto che la mia mente continuasse a tornare lì, di nuovo. Di solito ero brava a non pensare a lui, ma quel giorno sembrava impossibile. Cercai di pensare a Jet e alla sua spontaneità, ma invano. Non importava dove indirizzassi i pensieri, quelli tornavano a Lincoln.
Scesi a Union Station, e la folla, come sempre, mi stupì. Sistemai il biglietto di Jet in borsa e mi diressi verso l’ufficio, che si trovava al quarantasettesimo piano dell’Hancock Building. A quell’ora, le strade sembravano più affollate del solito. Percorsi Michigan Ave, e una volta all’Hancock Building, salutai Richard, il portiere di mezza età ma molto affascinante del complesso.
Aveva qualche capello bianco, ma era sempre in ordine. Rasato, con delle bellissime labbra e un sorriso ancora più bello. Non ero interessata, ma potevo apprezzarne il fascino.
«Buongiorno, signora Paige.»
«Ehi, Richard. Come sta Sam?» Sam era la moglie di Richard, che aveva appena partorito un bambino di quasi cinque chili.
«Sta benone, esausta ma bene. Non dorme quasi mai perché Logan sembra svegliarsi a ogni ora per mangiare, ma a parte quello, sta alla grande. Dovrebbe venire a conoscerlo. Sono sicuro che a Sam farebbe piacere.»
Avevo incontrato Sam solo qualche volta, ma mi era sembrata incredibilmente gentile e accogliente. Una cosa che avevo notato subito era la devozione nei confronti del marito. Era evidente in ogni sguardo. Lo conoscevo bene quello sguardo. Era lo stesso con cui guardavo Linc.
«È un’ottima idea, ma le lascio ancora un po’ di tempo. Immagino che se avessi appena partorito un neonato della stessa stazza di uno di tre mesi, vorrei aspettare di avere tutto sotto controllo prima di essere sommersa dai visitatori.»
«Ottima osservazione,» commentò con un sorriso. «Le dirò che ha chiesto di lei. Buona giornata.»
«Anche a te, grazie.»
Con la key card, mi diressi verso l’ascensore, poi da Tiffany, la receptionist, e infine nel mio piccolo ufficio. Lo feci con un sorriso e pensai che non appena avessi avuto un po’ di soldi da parte, avrei comprato a Logan dei vestitini carini.
Il sole splendeva così tanto che dovetti abbassare le serrande. Non sarei riuscita a fare nulla altrimenti. Mentre mi avvicinavo alla finestra per farlo, notai le onde agitate sul Lago Michigan. Agitate, proprio come mi sentivo io.
La giornata passò come qualsiasi giornata lavorativa. Rimasi seduta davanti al computer, e ogni tanto alzavo il telefono per parlare di ricevute e fatture. Come sempre, anche quel giorno il tempo volò via mentre ero immersa nel mio lavoro.
Mentre tornavo a casa, ripensai all’incontro con Jet. Sembrava molto più alla mano di Linc. Come sarebbe stato frequentare qualcuno così spontaneo? Aspettai che il senso di colpa si facesse strada dentro di me, ma non successe. Invece, realizzai che quel giorno non avevo mai controllato il telefono. Come avevo potuto? Forse era il modo in cui la mia mente cercava di proteggermi.
In treno, presi il telefono. Dovevo sapere, in un modo o nell’altro, se Lincoln sarebbe uscito. Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo. Forza, Lola. Puoi farcela. Una volta saputo il risultato dell’udienza, la giornata non sarà diversa da tutte le altre. Non saprà dove vivi. Andrà tutto bene. Mi raccontai quella menzogna perché volevo crederci. Lincoln era e sarebbe sempre stato pieno di risorse. Premetti l’icona con il viso di Ty.
Ty: Chiamami!
Ty: Non ignorarmi!
Ty: Va bene, capisco. Non vuoi parlare.
Ty: L’hanno rilasciato sulla parola.
Ty: L’hai letto?
Ty: Ho detto che Lincoln è libero.
E poi, scritto a caratteri cubitali.
È LIBERO.
2
PASSATO
Guardai Ellie chiacchierare con Camille ed Erin. Ellie aveva sempre desiderato fare parte del loro gruppo. A me non importava. Osservai Camille con le mèches bionde e dei pantaloncini che erano fin troppo ini. Indossava una camicetta verde con maniche corte e bottoni, che le arrivava a metà della pancia e finiva in un piccolo fiocco. Erin era vestita in modo un po’ più semplice, con una minigonna di jeans decorata sulle tasche posteriori e un top nero. Ellie cercava di vestirsi come loro e integrarsi, ma non arrivava mai a quel livello di disperazione. Si vestiva in modo simile, ma non sembrava tentare così disperatamente di adeguarsi.
Eravamo a una partita di football, giocavamo in casa. Non era necessario vestirsi a quel modo. Avevamo passato praticamente le nostre vite a vedere quei ragazzi giocare. A me quelli della scuola interessavano ben poco, erano tutti uguali. Non facevano altro che mangiare, dormire e respirare football. Non che non mi interessassero per niente i maschi, ma quelli della mia scuola erano noiosi da morire.
Non ero vestita come se stessi cercando di rimorchiare. Ero vestita come volevo: comoda. La mia maglietta dei Green Day preferita, shorts di jeans e Converse. Tutto del mio outfit urlava il mio nome.
Ascoltai Camille ripetere quanto fosse figo Braxton Tillerson e che lo avrebbe aspettato dopo la partita. Non desiderai altro che sbattere la testa contro il muro.
«Ehi, Ellie. Vado a prendere da mangiare. Vuoi qualcosa?» chiesi, non volendo rimanere lì un momento di più.
«Hai intenzione di mangiare?» si intromise Camille prima che riuscissi a sentire se Ellie volesse qualcosa.
«Beh, sì,» risposi, anche se avrei voluto aggiungere Ovvio
.
«E se ti sporchi? O se ti vede un ragazzo figo?»
«Ehm, da quando mangiare non è figo?» domandai.
«Sveglia, siamo a una partita di football! La serata per ragazzi per eccellenza.» Camille mi guardò come se non potesse credere alle mie parole.
Spostai lo sguardo su Ellie, che mi rivolse un’espressione solidale.
«Vengo a cercarti dopo,» le dissi.
«Grazie,» rispose con il senso di colpa negli occhi. Sapeva benissimo che quelle ragazze erano superficiali, ma sapeva anche che si trovavano in cima alla catena alimentare della scuola. Qualunque ragazza era consapevole che per essere popolare, bisognava essere nel gruppo delle popolari. Su quello, io ed Ellie non eravamo d’accordo.
Lasciai il gruppo, sollevata di essermi allontanata, e mi diressi verso il punto ristoro. C’erano così tante persone in coda che non riuscivo a vedere neanche il bancone. Era pieno. Dall’altra parte del campo, il punto ristoro degli avversari non era così affollato, visto che le persone in tribuna erano meno.
Noncurante, decisi di spostarmi in territorio nemico e aggirare il campo fino a raggiungere lo stand non così popolare. La folla sempre più rada fu un sollievo. C’erano solo due persone davanti a me. Aspettai con pazienza, pensando a quanto fosse stupido preoccuparsi di mangiare da quel lato del campo.
«Cavolo,» sentii un ragazzo biascicare dietro di me.
Azzardai uno sguardo, pronta a fulminare chiunque, quando vidi un altro ragazzo colpire in testa quello che, immaginai, aveva parlato, per poi dire: «Sta’ zitto.»
«Scusami,» disse quello che aveva tirato lo schiaffo. Inspirai a fondo. Tutto quello che avevo provato fino a quel momento per i ragazzi e le partite di football volò fuori dalla finestra. Lo studiai a fondo. Indossava delle scarpe da ginnastica nere, pantaloni neri e una canottiera aderente sempre nera. Era muscoloso, e non come uno del liceo, ma più come uno che ormai aveva finito scuola da un po’, uno un po’ più uomo che ragazzo. Fui costretta a piegare la testa per vederlo tutto. Era enorme. Aveva la mascella spigolosa, il labbro inferiore più carnoso di quello superiore e gli occhi scurissimi. A causa del cappello dei Cubs, non riuscii a capire il colore dei capelli. Stupendo. All’improvviso, mi sentii come Camille e il suo gruppo, bramosa nei confronti di un ragazzo. Anche se non era esattamente corretto. Credo che nessuno lo avrebbe descritto come un ragazzo.
Cercai di dire qualcosa, poi mi bloccai e mi voltai. Oddio, uccidetemi ora! Era davvero bello. Mi mancavano le parole, il che non era da me.
Attesi con pazienza il mio turno quando notai il signor Morris al bancone. Per tutto il liceo, io e il figlio eravamo stati in classe insieme e avevamo avuto l’armadietto vicino.
«Ehi, Lola.»
«Signor Morris. Come sta? Impegnato?»
«Sto bene. Starei meglio se mio figlio non fosse in panchina mentre le prendiamo dalla North.» Mi voltai a guardare il tabellone per controllare il punteggio, ma incrociai gli occhi del ragazzo carino. Distolsi lo sguardo, e mi domandai come mai quel ragazzo, che era davvero figo, mi stesse squadrando.
«Wow, stiamo perdendo male,» commentai con il signor Morris.
Con un cenno annoiato della testa, chiese: «Cosa posso darti?»
«Un pretzel, una Sprite e degli Smarties.»
«Formaggio o senape?»
«Formaggio, per favore.»
«Torno subito.» Mi sorrise, poi si voltò per preparare l’ordine.
«Ehi.» Lo spilungone si appoggiò al bancone accanto a me.
Inspirai. Quanto era bello.
«Ciao,» riuscii a rispondere.
«Mi dispiace per prima. Alex sa essere un cretino.»
«Ehi,» parlò quello che avevo appena scoperto essere Alex.
«Ignoralo. È mio fratello minore, e a volte è un po’ maleducato.»
Tornai a guardare Alex, e mi sorpresi del fatto che fossero fratelli perché Alex era un ragazzo di colore, mentre lo spilungone no.
«Siete fratelli?» domandai, sorpresa di riuscire a formulare un pensiero coerente.
«Beh, non abbiamo gli stessi genitori, ma sì.»
«Beh, piacere di conoscervi.» Spostai lo sguardo sulla borsa per prendere i soldi.
«Lincoln,» concluse il ragazzo in piedi accanto a me.
«Scusa?»
«Mi chiamo Lincoln, e tu sei Lola?»
«Sono Lola,» confermai.
Il signor Morris tornò con il cibo. «Sono sei dollari e cinquanta.»
Mi spostai per dare al signor Morris la banconota da venti che avevo tirato fuori. «Lascia fare a me.» Lincoln pagò prima che potessi farlo io.
«Non posso permettertelo.»
«Invece sì. Vedilo come un investimento.»
Il signor Morris diede il resto a Lincoln, e io mi spostai per permettere ad Alex e Lincoln di ordinare.
«Mi prendi una Coca, per piacere?» chiese Lincoln al fratello, prima di avvicinarsi nuovamente a me.
«Allora, Lincoln, com’è che comprarmi cibo lo consideri un investimento?» domandai alla fine.
«Beh, innanzitutto, se avessi soltanto origliato il tuo nome e poi ti avessi lasciato andare via, non avrei avuto una bella storia da raccontare quando chiederanno come ci siamo conosciuti. Quindi, sto sperando che visto che ti ho comprato del cibo, riesca a corromperti e convincerti a permettermi di conoscerti meglio.»
Sorrisi timida, senza sapere cosa rispondere. Non mi comportavo mai così con i ragazzi. Mai.
Alex ci raggiunse e gli porse la Coca. «Grazie. Ti raggiungo tra poco, okay?» Lincoln fece un cenno con la testa.
«Va bene,» disse Alex prima di raggiungere un gruppo di amici.
«Vuoi sederti? Così puoi mangiare,» mi domandò Lincoln.
«Sì, grazie.» Lo seguii verso un’area verde contro il recinto, territorio neutrale. C’erano alcuni futuri giocatori di football, dell’età più o meno di cinque anni, che si lanciavano una palla avanti e indietro, in modo abbastanza grossolano.
Notai quanto fossero lunghe le gambe di Lincoln accanto alle mie, e mi domandai se fossero muscolose. Cavolo, chi ero diventata all’improvviso? Certo, ero stata attratta da ragazzi prima di allora, ma non in quel modo. Non mi ero mai domandata come fossero le loro gambe. Oh, scommetto che i polpacci sono spessi e muscolosi. E che il petto è… Oddio, dovevo fermarmi. Presi un pezzo del pretzel e mi domandai se dovessi mangiarlo davvero.
Che cavolo mi stava succedendo? Perché mi sudavano le mani? Di solito i palmi sudano? Smettila. Sta’ calma. Di’ qualcosa.
«Ehm, allora, Lincoln. Vai alla North?» chiesi perché non lo riconoscevo.
«Colpevole. Sono all’ultimo anno. E tu?»
«Io sono al secondo.» Presi un morso del pretzel, ma non prima di averlo inzuppato nel formaggio.
«Sedici anni compiuti già?»
«Non fino a quest’estate. Sono una dei più piccoli e lo odio. Guideranno tutti prima di me.»
«Quindici anni.» Lo osservai scuotere la testa sconvolto. «Per me è il contrario. Ho fatto diciotto anni prima dell’inizio della scuola.»
«Hai progetti per dopo?» chiesi. Fui percorsa da un brivido lungo la schiena quando la sua gamba sfiorò la mia.
«Entrerò nell’esercito. Ho già firmato i fogli.»
«Oh.» Non sapevo perché la cosa mi facesse sentire così triste. Forse perché avevo capito che era molto più grande di me e che sarebbe partito presto.
«E tu? Cosa ti piace?»
«Mi piace la musica e mi piacciono i numeri.»
«I numeri, eh?»
«Secchiona,» ammisi. Volevo essere sicura che sapesse bene chi fossi. Ero nervosa, sì, ma non avrei mai fatto finta di essere qualcun altro.
«Non c’è nulla di te che ti faccia sembrare secchiona, piccola.»
Il cuore fece una capriola su se stesso. Mi ha chiamato piccola. Troppo nervosa per fare altro, presi un altro morso dal pretzel. Volevo far finta che la cosa non mi toccasse, che lui non avesse influenza su di me. Stavo cercando di far finta di nulla.
«Non ti piace la partita?» chiese.
«Non molto. Sono venuta con la mia migliore amica,» risposi dopo essermi pulita la bocca. Ora iniziavo a capire la logica di Camille sul non mangiare.
«Dov’è?»
«L’ho lasciata per andare a prendere da mangiare. È con un gruppo di amiche che non sono… non sono me.» Alzai le spalle poi continuai. «Non stai guardando