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La regina degli scacchi
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La regina degli scacchi
E-book155 pagine2 ore

La regina degli scacchi

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Info su questo ebook

Sinossi da inserire
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2016
ISBN9788867932559
La regina degli scacchi

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    La vita di Marco Siviero, al ritorno in Italia dopo un lungo periodo di lavoro all’estero, non sarà felice come pensava: persi gli amici, cambiate le abitudini, si troverà ad affrontare sospetti e ostilità. Il rientro al suo circolo scacchistico lo porterà a giocare il ruolo di terzo incomodo tra il vecchio campione e una giovane ragazza per cui le partite sono importanti più della vita. Per Marco Siviero, sconfitte e vittorie avranno spesso un sapore molto amaro. Un crescendo di tensioni che solo nelle ultime righe troveranno la loro risposta.
    Vincitore del concorso letterario ZonaEbook 2015!

Anteprima del libro

La regina degli scacchi - Marco Salvario

http://creoebook.blogspot.com

Marco Salvario

LA REGINA

DEGLI SCACCHI

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

Prima parte

Calma, Marco. Calma!.

La mano mi trema e le chiavi tintinnano. Una mandata, una seconda che mi costringe a uno sforzo inatteso, una terza. La quarta: la porta si apre ed entro. A tentoni trovo l’interruttore generale, l’abbasso facendo ricomparire la luce dopo nove anni di tenebre. Il neon si è acceso a fatica lampeggiando più volte e, al suo latteo chiarore, il mio vecchio appartamento mi accoglie grigio ed estraneo.

I muri emanano un odore appiccicoso di chiuso e di catacomba e una devastante sensazione di disagio mi morde lo stomaco. Eppure vorrei fingere entusiasmo, ridere, picchiare la mano aperta sui mobili e gridare a squarciagola: Evviva! Sono tornato!.

La mia stanza: apro le braccia e accenno a un tuffo sul letto, ma la polvere è un tappeto lurido che ricopre e permea tutte le superfici, facendomene aborrire il contatto. Polvere che mi entra nella gola e tossisco fino alla nausea: sputo e mi soffio il naso, senza liberarmi completamente.

In cucina, per una perdita d’acqua dal piano superiore che deve (quando?) avere creato un piccolo allagamento, sono caduti frammenti d’intonaco e un pensile si è gonfiato e deformato fino a scoppiare. Una teiera è rotolata a terra dal ripiano, andando a pezzi insieme ad alcune tazze colorate di cui non riesco a ricordare l’aspetto originale.

In tutte le stanze, le lampade, o perché invecchiate, o perché sono ancora abituato alla luce esterna del giorno, diffondono una luminosità pallida. Cercando l’aria e il sole, alzo furiosamente tutte le tapparelle, rimuovendo ragnatele che il peso della polvere lacera e che si appiccicano alla mia pelle e ai vestiti. Nella mia camera il nastro sfilacciato mi si spezza tra le mani e mi frusta dolorosamente le dita. Apro la portafinestra della cucina e mi affaccio sul balcone incrostato di escrementi di colombo. La ringhiera è arrugginita e i vasi, che un tempo contenevano violette e gerani, sono stati rovesciati da qualche ventoso temporale.

Che desolazione, quanto lavoro mi aspetta!

Osservo dall’alto il cortile e mi sembra rimpicciolito: tre auto parcheggiate lo occupano completamente. Dal piano superiore un lenzuolo matrimoniale scende nascondendomi completamente il cielo: allungando un braccio posso toccarne l’umido tessuto verdastro e mi viene voglia di afferrarlo e di tirare forte, fino a trascinarlo giù. Giustamente, non lo faccio.

Riapro il rubinetto generale e l’acqua sgorga a lungo rossiccia e gorgogliante, prima di ritrovare una trasparente fluidità.

Mi lavo mani, viso e mi risciacquo la bocca, sputando la polvere nera che brucia ancora in gola. L’acqua ha un sapore ferroso, dolciastro.

Bene, ripeto per incoraggiandomi, molto bene.

Avevo bisogno di sentire una voce, anche se è solo la mia. Alle mie orecchie l’intonazione sembra fluente e italiana, senza accenti stranieri: ai miei concittadini, sembrerà modificata?

Alzo il telefono senza sentire nessun segnale in risposta. Devo fare riallacciare la linea? Scuoto la base, la batto sulla mensola con energia e premo i tasti, agganciando e riagganciando più volte. Controllo, apro il pannello inferiore e scopro che l’acido delle pile ha incrostato e bruciato l’interno dell’apparato: prima di partire, avrei dovuto rimuoverle.

Una muffa rosastra copre la scacchiera di marmo verde e nero che mi è stata regalata da alcuni amici prima della mia partenza per l’India. Il pensiero mi ha commosso, però non me la sono portata dietro: è bella e artistica, tuttavia pesa troppo ed è irrealistico pensare di usarla per disputare una partita seria. Al suo posto, mia fedele compagna di viaggio è stata una scacchiera pieghevole e magnetica di circa venti centimetri di larghezza; l’ho usata così spesso che i pezzi si sono a poco a poco sbiaditi e consumati.

Alzando un telo di plastica, riscopro il mio vecchio computer. Era già obsoleto quando sono partito e il tempo ne ha fatto un pezzo da museo, grosso e ridicolamente fuori moda. Premo l’interruttore e la luce rossa dell’hard disk lampeggia con un ronzio ansante, poi resta accesa fissa e sul monitor cominciano a scorrere schermate dimenticate eppure familiari: il primo segno di risveglio e di vita in questa mia stanza. Ora che il vecchio rudere si è avviato, fatico a destreggiarmi tra le icone del vecchio sistema operativo. Provo a navigare in internet, senza successo: devo lanciare qualche applicativo di configurazione? No, manca proprio il collegamento alla rete. Forse la linea telefonica ha davvero problemi o, più probabilmente, sarà il modem che non è più adatto ai nuovi protocolli. Potrebbero benissimo essere i due problemi insieme, però sono felice che, come il morente cane Argo con Ulisse, il mio computer mi abbia riconosciuto.

Dal pianerottolo, dove le avevo abbandonate, trasporto nell’alloggio le mie valige, che non sanno che sistemazione avere in attesa degli altri bagagli che ho spedito a parte e arriveranno chissà quando: dal mio esilio in India mi sono portato dietro poco, eppure quel poco mi sembra terribilmente fuori posto. Ci studio sopra un minuto, poi abbandono le valigie nel corridoio, spingendole contro la parete perché imbroglino meno.

Richiudo l’alloggio e busso alla portineria, finché una donna scortese, che fatico a riconoscere - è la portinaia che c’era allora, con i capelli tinti rossi - viene a vedere chi la disturba. Mi scruta ostile e diffidente.

Si ricorda di me? Sono Siviero, quello del secondo piano.

Mi guarda avvicinandosi (è diventata miope?) e annuisce, torcendo la bocca. Nessun buon tornato, nessuna stretta di mano: Ci sono delle spese del condominio che lei deve ancora pagare.

M’impappino e sorrido a disagio: Ho lasciato la gestione all’amministratore stesso, gli ho dato l’accesso a un conto della banca.

Lei ripete ostinata, picchiando il piede a terra: Ci sono delle spese che deve pagare.

Pagherò, se l’amministratore non ha provveduto.

No, ci sono delle spese!.

Capito! Allargo le spalle e la donna fa per andarsene, poi mi ricordo perché sono venuto: Cercavo qualcuno che mi desse una pulita all’alloggio. La Pina c’è ancora?.

Pina è morta.

Ecco! Nove anni. Chi è andato lontano, chi è invecchiato e chi è morto. Scuoto il capo: Povera Pina!. Che avrà visto? Doveva avere cinquantacinque anni quando sono partito. Mi dispiace se ne sia andata: era una grande impicciona, apriva tutti i cassetti e gli armadi per vederci dentro, parlava a raffica, ma puliva bene ed era onesta. La portinaia mi guarda torva come se l’avessi uccisa io o se fossi sospettabile del delitto.

C’è l’impresa che fa le pulizie al condominio. Tre donne e due uomini.

Accetto subito: Quello che mi serve!.

Sono polacchi, però nessuno si lamenta di loro.

Un’impresa è quello che mi ci vuole, di qualunque razza o nazione sia.

Ora che sono sceso in strada, la prospettiva di tornare a casa mi spaventa. Cammino per le vie più affollate per evitare che la melanconia mi salti addosso e per dimenticare l’odore di chiuso mi si è appiccicato alla pelle. Distratto, urto una coppia che cammina a passo veloce: mi fermo, chiedo scusa, ma si sono già allontanati senza voltarsi indietro.

Perché sono tornato? In India mi sembrava tutto ovvio e naturale, qui non ho riferimenti.

Entro in una libreria e curioso tra i libri. Ne sfoglio alcuni, senza trovare nulla che m’interessi o incuriosisca: troppi autori stranieri, troppa politica in quelli italiani quando, invece, non si occupavano di cucina, di calcio o di sesso. Sugli scacchi non hanno nulla.

Scivolo nuovamente in strada.

Passo dopo passo le mie gambe mi conducono verso piazza Alfieri, al bar Regina, dove ha (aveva?) sede il mio primo circolo degli scacchi. Noi scacchisti sostenevamo, sapendo di avere torto, che il vero nome del bar fosse Regina degli scacchi: in realtà, il nome era stato scelto dal primo proprietario che, per profetica combinazione, si chiamava Gaspare Regina ed era soprannominato il Ciccione.

Il bar esiste ancora, completamente rinnovato e irriconoscibile dai ricordi che lampeggiano sfuocati nella mia memoria; il circolo è scomparso e vedo le bacheche con i bandi e i risultati dei tornei, le scacchiere intarsiate e i pezzi di legno bianchi e neri in disordine: solo una decina tavoli con le tovaglie di carta. Alzo le spalle e, al bancone, chiedo un caffè a un ragazzo strizzato in un panciotto a righette che non è della sua misura. Il caffè mi arriva dopo due minuti, trasparente e appena tiepido: acqua sporca! Nel frattempo ho scelto con poco buon senso una tartina molto vezzosa che scopro essere stata resa rigida dal tempo: si sbriciola mentre lo addento. Mi rassegno e cerco di saziare con essa la leggera fame che mi punzecchia lo stomaco.

Il barista asciuga annoiato le tazzine guardandomi senza curiosità. Ha la faccia da pesce e una grossa macchia marrone sulla manica.

Non ci sono più gli scacchisti?, domando brusco.

Ci impiega molto a rispondere, come se dovesse ricordare un’epoca lontana, o se cercasse di immaginare che razza di animale possa essere uno scacchista; d’improvviso m’indica le scale con il dito indice bianco e sottile: Quelli che giocano a scacchi? Sono là, nel rialzato.

Parla come se fossero bestie in gabbia, creature bizzarre, per fortuna non pericolose se assecondate. Mi viene voglia di confessare, abbassando al minimo la voce, che io arrivo dall’India e, dieci anni fa, ero stato una brillante promessa del circolo, invece tossisco, imbarazzato come un ragazzino innamorato che sta per incontrare la sua bella, e chiedo se posso andare a vedere.

Mi dice di andare pure, ma di non fare rumore e di non fumare. Lo rassicuro con un cenno del capo: io non fumo e non ho trombe, fischietti o tamburi.

Gli scacchisti sono una decina e ben sistemati, solo il soffitto è basso e opprimente. Otto scacchiere a disposizione, solo su due si gioca e si gioca lampo: partite veloci di cinque o dieci minuti a testa, colpi secchi sugli orologi per guadagnare frazioni di secondo e intimidire l’avversario. Avanzo cautamente come in un cimitero sacro e trattengo il respiro, studiando l’ambiente e cercando di non fare scricchiolare il pavimento di legno sotto i miei passi. Un signore anziano con un appariscente papillon giallo intorno al collo, seduto a gambe incrociate vicino a uno dei tavoli dove altri si danno battaglia, alza la testa verso di me e, quando lo osservo a mia volta, mi rivolge un cenno di saluto cui rispondo alzando la mano destra. Chissà, mi ha riconosciuto? Lui ha un volto familiare, purtroppo dal passato non emerge nessun nome e nessun ricordo.

Davanti a lui giocano due ragazzi dai capelli cortissimi, uno addirittura con mezzo cranio rapato a zero: osservo qualche mossa, ma il loro gioco è spezzato e scomposto, improvvisato anche se gli errori sono pochi. Pezzi gettati in avanti con ferocia, senza schemi, senza una logica; manuali mal digeriti e lezioni mal apprese. Troppo agonismo e niente arte, voglia di divertirsi e non di imparare.

Mi stringo nelle spalle e mi sposto verso gli altri due duellanti. Qui mi appassiono subito: un giovanotto magro, esile, la schiena molto dritta, i capelli neri, muove con sicurezza contro un avversario coriaceo che riconosco dopo un attimo di perplessità. Luchini! Ingrigito persino nei baffi, spelacchiato, rugoso, ancora sufficientemente in forma: ricorda un colonnello in pensione, ottuso ma determinato. Lo vedo preparare con mestiere due belle trappole allettanti e velenose che, in una partita veloce, sono difficili da confutare; purtroppo per lui, il suo rivale è attento, oppure fortunato: le evita entrambe analizzando un paio di secondi e reagisce con forza. Forse rischia troppo e trascura la difesa, però sa il fatto suo e, a un certo punto, abbandona spavaldamente al loro destino due pedoni che si potevano valorizzare in modo migliore, per conquistare una posizione più agile e promettente di quella dell’infelice Luchini. Mi piace, come a tutti i cultori del nobile gioco, chi considera la conquista dell’iniziativa il principale obiettivo del gioco: io sono più posizionale e avrei cercato di salvare almeno uno dei pedoni, sicuro di guadagnare lo stesso un vantaggio decisivo. Perché concedere all’avversario delle possibilità? Prima la vittoria, poi lo spettacolo.

Malgrado si debba sempre fare largo

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