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The Protector
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E-book462 pagine6 ore

The Protector

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Info su questo ebook

«The Protector è uno dei romanzi più belli di quest’anno.»
Audrey Carlan, autrice del bestseller internazionale Calendar girl

Dall'autrice della serie bestseller This Man Trilogy

La gente pensa di sapere chi è Camille Logan: una figlia di papà, bella, viziata e con un conto in banca che le permette di fare la vita che vuole. Ma Camille ha deciso di liberarsi dai legami familiari e di cavarsela da sola. Proprio quando tutto sembra andare per il verso giusto, però, le conseguenze di alcuni affari intrattenuti da suo padre con persone senza scrupoli minacciano la sua serenità. In bilico tra risentimento e paura, Camille deve anche proteggersi dai sentimenti burrascosi che le suscita l’ex cecchino pagato dal padre per difenderla… 
Jake Sharp ha commesso un unico errore sul lavoro, e le conseguenze sono state devastanti. Da allora ha giurato a se stesso che non accadrà mai più nulla di simile. Quando ha accettato l’incarico di guardia del corpo di Camille Logan, pensava si trattasse di un lavoretto semplice, ma si sta rendendo conto di essersi sbagliato. Ben presto il lavoro e i sentimenti si accavallano e, nonostante Jake conosca il rischio che si annida dietro questa ambiguità, Camille gli sta facendo perdere la lucidità, e per un militare questo è inaccettabile… 

Dall’autrice della serie bestseller This Man Trilogy
Numero 1 in Italia e Stati Uniti

«Ogni bacio, ogni scena sexy e ogni parola sono diventati pezzi della mia anima. Ho letto questo libro un centinaio di volte e le emozioni che riesco a provare sono le stesse della prima volta. The Protector è uno dei romanzi più belli di quest’anno per me.» 
Audrey Carlan, autrice del bestseller internazionale Calendar Girl

«Jake e Camille insieme sono grandi, anche se entrambi hanno i loro rispettivi demoni del passato… Questo è il primo libro che ho letto di Jodi Ellen Malpas, ma è diventato da subito uno dei miei preferiti.»
Night Owl Review

«Intenso, appassionato, un maschio alfa e un forte personaggio femminile completo e indipendente. Una chimica esplosiva! Divertimento, mistero, azione, amore, desiderio e redenzione! L’ho adorato!»
Jodi Ellen Malpas
è nata e cresciuta a Northampton, in Inghilterra, e oggi si dedica a tempo pieno alla scrittura anche se fino a qualche anno fa lavorava con il padre in un’impresa di costruzioni. Ha intrapreso la carriera da scrittrice mettendo online il primo volume della trilogia This Man (composta da La confessione, La punizione e Il perdono), che ha riscosso un enorme e inaspettato successo ed è diventato un bestseller internazionale, pubblicato in Italia da Newton Compton. La serie successiva, One Night Trilogy, è composta dai romanzi Per una sola volta, Tutte le volte che vuoi e Ancora una volta.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2017
ISBN9788822704795
The Protector
Autore

Jodi Ellen Malpas

Jodi Ellen Malpas‘ Romane wurden in über 20 Sprachen übersetzt und erobern die Bestsellerlisten weltweit. Ein Erfolg, den die bekennende Tagträumerin nicht für möglich gehalten hätte. Seitdem ist das Schreiben von ebenso spannenden wie leidenschaftlichen Geschichten zu ihrer Passion geworden.

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    Anteprima del libro

    The Protector - Jodi Ellen Malpas

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    1468

    Della stessa autrice

    This Man Trilogy comprende:

    La confessione

    La punizionez

    Il perdono

    One Night Trilogy comprende:

    Per una sola volta

    Tutte le volte che vuoi

    Ancora una volta

    Titolo originale: The Protector

    © 2016 by Jodi Ellen Malpas

    Traduzione dall’inglese di Barbara Cattaneo

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0479-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    Jodi Ellen Malpas

    The Protector

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Capitolo uno

    Jake

    I suoi occhi, spalancati e pieni di terrore, mi fissano, il suo corpo gelato sotto al mio. Il calore, la polvere, il suono delle grida intorno a me; è praticamente impossibile concentrarsi. Ma devo concentrarmi. Sbatto le palpebre in fretta, mi sposto per avere più presa, lo spingo giù nella ghiaia e nella sabbia sotto di me. Non dovrei essere qui. Dovrei essere lontano sulle colline circostanti, nascosto fra rocce e vegetazione.

    L’ignota, invisibile minaccia.

    L’uomo che tengo prigioniero è magro e malnutrito, e il bianco dei suoi occhi è tinto di giallo. Questo coglione a cui hanno fatto il lavaggio del cervello ha fatto fuori due miei compagni. Il dolore intenso alla spalla mi ricorda che ha quasi fatto fuori anche me. Avrei dovuto tenere la posizione. Ho fatto una cazzata. Il bisogno, egoistico e sconsiderato, di far piovere l’inferno su questi stronzi, ha portato alla morte di due soldati. Dovrei esserci io a terra, morto nella polvere a qualche metro di distanza. È quello che mi merito.

    Il suo cuore batte freneticamente sotto la stoffa sottile della sua maglietta logora. Posso sentire i colpi battere nel mio petto, anche attraverso gli strati dei miei abiti e la giacca antiproiettile. Ma la scintilla di cattiveria nei suoi occhi è ancora lì, mentre blatera una cascata di parole in un'altra lingua.

    Sta pregando.

    Fa bene.

    «Ci vediamo all’inferno». Premo il grilletto e gli pianto una pallottola in testa.

    ***

    Scatto sul letto, sudato e ansante, le lenzuola sottili appiccicate a ogni centimetro della mia pelle con cui entrano in contatto.

    «Figlio di puttana», respiro, lasciando che i miei occhi si abituino al tenue bagliore del mattino, finché non riesco a vedere il profilo d’inchiostro di Londra dalla finestra panoramica della mia camera da letto. Sono le sei. Lo so senza nemmeno guardare l’orologio sul comodino, e non è soltanto il sole che sorge a dirmelo. La sveglia che esplode nella mia testa alla stessa ora ogni mattina è sia un peso sia una benedizione.

    Butto le gambe al lato del letto, afferro il mio telefono, non mi sorprende non trovarci né messaggi né chiamate perse.

    «Buongiorno mondo», borbottò, lanciandolo di nuovo sul comodino, prima di stendere le braccia verso il soffitto, allungando i muscoli tesi. Faccio ruotare le spalle, buttando un po’ d’aria nei polmoni prima di farla uscire piano attraverso il naso. Mi sporgo in avanti, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia, e guardo la città fuori, ricacciando l’incubo in un angolo della mia mente, mentre respiro piano. Dentro e fuori.

    Dentro e fuori. Dentro e fuori. Chiudo gli occhi e ringrazio per questa calma autoimposta. Sono un maestro in questo.

    Ma i miei muscoli s’irrigidiscono di nuovo appena sento il letto muoversi sotto di me. La mia mano va subito sotto al materasso per prendere la mia VP9 prima ancora che la mia testa dia l’ordine. Impulso.

    La pistola è puntata sul bersaglio che si sta svegliando prima ancora che i miei occhi mettano a fuoco.

    Istinto.

    Sono in piedi, nudo come il giorno in cui sono nato, braccia ferme e completamente stese davanti a me. La nove millimetri fin troppo perfetta per la mia presa.

    «Hmmmmm». Il morbido miagolio mi entra in testa, e osservo il groviglio di arti nudi e lunghi che spuntano dal mio letto. Il cervello fa il suo lavoro, mi riporta al bar in cui sono stato ieri notte, e immediatamente nascondo la pistola, appena in tempo prima che apra gli occhi. Mi sorride pigramente e allunga il corpo sottile e sodo, un movimento calcolato per farmi venire la bava alla bocca e il cazzo duro.

    Peggio per lei. Ho una cosa sola in mente. E non è lei.

    «Torna a letto», sussurra, guardando vogliosa tutto il metro e novantacinque del mio corpo mentre si appoggia al gomito sottile, il mento appoggiato sulla mano, le lunghe dita che tamburellano la pelle liscia della guancia.

    Non le sto dando l’attenzione che mi chiede. Prevedo donna molto delusa all’orizzonte. Stessa scena, altra giornata.

    Mi allontano, sento le stilettate di un’occhiata cattiva sulla schiena. «Scusa, ho da fare», dico secco da sopra la spalla, senza concederle il privilegio della mia attenzione. Non ho tempo per questo. «Sentiti libera di prenderti una banana mentre te ne vai». Giro l’angolo ed entro in bagno.

    La finestra che va dal pavimento al soffitto su due delle mie pareti mi dà una visuale di 180 gradi sulla città, ma tutto quello che riesco a vedere è la mia faccia smunta nello specchio. Sospiro e mi tengo con una mano al lavandino mentre apro il rubinetto e fisso il mio riflesso penoso. Ho un aspetto di merda, esattamente come mi sento. Maledetto cazzo di Jack Daniel’s. Mi passo il palmo della mano sulla mascella ruvida, e sento «Sei uno stronzo di merda!», seguito dai segni rivelatori di una donna nuda che entra nel mio bagno. Non posso darle torto. Io sono uno stronzo. Un arido, vendicativo stronzo. Mi piacerebbe trovare pace e tranquillità, ma nella mia vita non c’è pace. Vedo le loro facce ogni volta che chiudo gli occhi. Danny. Mike. Erano come fratelli per me, e anche dopo questi quattro anni, so che è colpa mia se sono morti. La mia stupidità. Il mio egoismo. Non c’è scampo. Solo distrazioni. Lavoro, bevute e sesso sono le uniche cose che ho. E senza un incarico al momento, me ne restano solo due.

    Getto un’occhiata stanca al mio riflesso e trovo lei, indignata come mi aspettavo sarebbe stata. Ma c’è anche del desiderio. I suoi seni piccoli e perfetti finiscono in capezzoli turgidi e i suoi occhi arrabbiati non smettono di fissarmi tutto. Giro la testa di lato, aspetto che il suo sguardo avido cada sul mio. Schiude le labbra. Il mio cazzo non reagisce. Neanche quell’accenno di erezione mattutina.

    «Chiudi la porta uscendo», dico in tono piatto, non le do che una faccia inespressiva come accompagnamento a quell’ordine brusco. E poi la vedo. L’intenzione.

    Ci siamo, penso fra me e me, mi sposto dal lavandino e mi raddrizzo, preparandomi.

    Viene verso di me, la mano tesa e carica a mezz’aria. «Bastardo!». Mi schiaffeggia in piena guancia. E glielo lascio fare, stringo i denti e aspetto che il dolore si dissolva prima di scrocchiare il collo e aprire gli occhi. «La porta è da quella parte», dico, stendendole il braccio davanti.

    Restiamo in stallo per qualche istante; lei stordita, probabilmente sta pensando alla bella scopata che le ho fatto fare ieri notte, e io impassibile, sperando che si sbrighi ad andarsene e mi lasci alla mia giornata.

    «Grazie per l’ospitalità», commenta acida, facendo finalmente perno sui piedi nudi e allontanandosi in fretta.

    Pochi attimi dopo la porta sbatte, facendo vibrare le pareti intorno, e io torno allo specchio, prendo lo spazzolino. Mi lavo i denti, poi mi metto i pantaloncini e le scarpe da corsa e scendo in strada.

    ***

    L’aria del mattino è piacevole. Mi dirigo verso il parco, ascolto i suoni d’assestamento di Londra all’alba, il traffico scarso, gli uccellini, il rumore di altri passi di corsa sul marciapiede. Tutto ha l’effetto calmante di cui ho bisogno per iniziare bene una giornata libera. La rugiada è ancora appesa ai fili d’erba, e una nebbiolina umida si appiccica al petto nudo mentre accelero giù per il sentiero. Inizio a non sentirmi le gambe. Mi piace.

    Sono concentrato sulla corsa, la direzione è automatica, come se avessi percorso questa strada milioni di volte. Forse l’ho fatto. Le stesse facce, donne per la maggior parte, sorridono tutte speranzose quando mi vedono avvicinarmi, raddrizzano la schiena, si sforzano di controllare la respirazione. Oggi potrebbe essere il giorno in cui mi fermo e dico ciao, o forse addirittura potrei sorridere mentre le supero. Come ho detto, una gran delusione. Ognuna di loro è solo un’altra faccia in mezzo a un mare di altre facce senza significato, esseri umani sulla mia strada. Le aggiro in fretta, il mio corpo lavora automaticamente per evitare ogni genere di contatto.

    Dopo mezz’ora la mia mente inizia a schiarirsi, e insieme al sudore butto fuori l’alcol.

    Butto tutto fuori nell’ultimo chilometro, finché i polmoni non iniziano a bruciare in cerca d’aria.

    Fatto.

    Rompo il passo e rallento, mi fermo fuori dal Nero’s Café, guardo il cielo. Annuisco a me stesso, soddisfatto. Sette e venti in punto. Mi faccio strada attraverso l’ingresso, afferro un tovagliolino con cui mi asciugo la fronte mentre mi avvicino al bancone. Prendo una bottiglietta d’acqua mentre passo davanti al frigo e la apro, buttandola giù tutta prima ancora di arrivare alla cassa. La ragazza fa suonare il campanello prima che possa tirar fuori dalla tasca la ricevuta.

    «Il tuo caffè sta arrivando», dice, controllando in fretta alle sue spalle.

    «Grazie», mormoro, lanciando la bottiglietta vuota in mezzo al locale. Atterra perfettamente nel cestino. Il mio caffè è sul bancone appena riporto l’attenzione sulla ragazza.

    Ogni giorno, lo stesso. Prendo il mio caffè e me ne vado.

    Il traffico sta aumentando mentre cammino lungo Barkeley Street, prendo un quotidiano dal solito tizio.

    Me lo sta porgendo mentre mi avvicino, con la faccia sorridente. «Presto questa mattina, eh signore».

    Annuisco e prendo il giornale, gli lancio una sterlina prima di buttare un occhio sulla prima pagina. Mi sale la rabbia non appena intravedo il titolo principale.

    19 MORTI IN TURCHIA IN SEGUITO ALLA SPARATORIA DELLE VACANZE

    «Bastardi». Ingoio la rabbia, insieme all’impotenza, e continuo a leggere. Evacuazione, turisti avvertiti di evitare il paese. La Turchia si aggiunge alla lista delle zone rosse. Tutto il cazzo di mondo è diventato una zona rossa ormai. Piego il giornale e lo butto nel cestino mentre ci passo di fianco. Non so perché mi faccio questo. Non c’è niente che possa fare per essere d’aiuto. Non adesso. Non c’è bisogno di me. Non mi vogliono. Il casino che ho fatto in Afghanistan ha fatto in modo che così fosse. Le facce dei miei compagni, degli amici, iniziano a rompere il muro di difesa che ho costruito nella mia mente. Facce allegre. Facce di morti. Sbatto gli occhi, scaccio il flashback, lo spingo via prima che possa insediarsi. Devo correre altri quindici chilometri.

    ***

    Apro la doccia e lascio la temperatura esattamente dov’è. Fredda gelata. Proiettili d’acqua ghiacciata mi colpiscono da tutti i lati, assicurandomi che tutto il mio corpo riceva una punizione. Mi sembra giusto. Reale. Butto la testa all’indietro e lascio che l’acqua mi arrivi in faccia, mentre ripasso i compiti della giornata. Pulire la pistola... per la quarta volta questa settimana. Controllare le email. Forse chiamare Abbie.

    L’ultima cosa è stata sulla mia lista ogni giorno negli ultimi quattro anni. Non l’ho mai fatto. Chiamala e basta. Falle sapere che sei vivo. Le basta questo. È tutto quello che posso darle. Eppure non riesco a sforzarmi di tornare nel passato.

    Il mio respiro rallenta, mi cade la testa. Spari, esplosioni, urla.

    Email!

    Mi strofino le guance, mi riprendo sull’orlo di un attacco d’ansia, e afferro il gel da doccia. Devo continuare con la mia giornata. Dopo essermi lavato mi avvolgo un asciugamano intorno alla vita, prendo le mie pillole e ne mando giù una mentre attraverso il mio open space verso la finestra panoramica dove ho la scrivania. Mi siedo sulla grande poltrona in pelle nera e accendo il portatile, guardo la città fuori mentre il computer carica, resto seduto a pensare in silenzio.

    Scrivile e basta. Falle sapere che sei ancora vivo. Rido con freddezza della mia patetica situazione. Abbie è forse l’unica persona su questo pianeta a cui importa se sono vivo o morto. O forse non interessa più nemmeno a lei. Ci sono solo io. Niente famiglia. Niente amici. Niente genitori.

    Dal momento in cui mia madre e mio padre restarono uccisi sul volo 103 della Pan Am, ho avuto un unico scopo. Guerra. Avevo sette anni. Non capivo nemmeno quello che era successo, ma sapevo che c’erano persone cattive là fuori, e che andavano fermate. Il bisogno bruciante di combattere il male cresceva mentre crescevo anch’io. Mia nonna si prese cura di me finché non morì di vecchiaia. Poi non ci fu più nessuno a occuparsi di me. Potevo arruolarmi e fare la mia parte. Qualunque cosa potesse servire.

    La mia abilità nello sparare fu presto notata e fui separato dai cadetti. Mi diedero un fucile. Non mi sono mai guardato indietro. Ho preso la mira, ho sparato, ho colpito. Ancora e ancora, e ogni volta ho provato un senso di realizzazione. Nessun senso di colpa. Solo realizzazione. Perché nel mondo c’era un pericoloso bastardo in meno di cui doversi preoccupare.

    Ding!

    L’avviso di una email mi distrae dai miei pensieri. «Ciao, splendida», dico a voce alta quando vedo il suo nome sullo schermo. All’improvviso posso sperare in un po’ di tregua. Sono passate due settimane senza incarichi, e sto perdendo la testa. Due settimane senza nient’altro da fare che bere, scopare e lottare per tenermi lontano dai ricordi che mi ossessionano.

    Come sempre, tipico di Lucinda, il suo messaggio va dritto al punto... il che è senza dubbio il motivo per cui è l’unica donna che mi piace davvero.

    Ma il mio sorriso soddisfatto mi abbandona in fretta mano a mano che vado avanti a leggere.

    CLIENTE: Trevor Logan, magnate della finanza e proprietario di immobili

    SOGGETTO: Camille Logan, figlia minore del cliente, unica figlia femmina

    MISSIONE: ombra

    DURATA: indefinita

    COMPENSO: £100K/settimana

    Mi butto indietro sulla poltrona, le mie dita formano un triangolo davanti alla bocca. Centomila sterline a settimana?

    Ci deve essere qualche fregatura. Una missione ombra? Non ne svolgo una da un sacco di tempo, e non sono sicuro sia una buona idea accettarne una adesso, per nessun’altra ragione se non il soggetto della missione, la figlia di Trevor Logan, un uomo d’affari senza scrupoli che ha pestato i piedi a chiunque durante la sua ascesa. L’ho visto sui giornali, di recente, impegnato in una battaglia legale dov’era accusato di aver fatto fuori gli azionisti di minoranza di un’azienda che aveva acquisito. Certo, aveva vinto. Vince sempre, e la stampa ogni volta appoggia il coglione. È un ipocrita insopportabile, e non riesco a immaginare che la sua preziosa figlia sia diversa. Lucinda doveva tenerne conto.

    Avrebbe dovuto saperlo. Conosce il mio passato. Gli orrori, ogni più piccolo disgustoso dettaglio. Questo tipo di incarico richiede una sorveglianza continua, un’ombra completa. E per una donna del genere? Impossibile. Finirei per strangolarla... o, peggio: una donna che mi ricorda costantemente le caratteristiche di un’altra potrebbe far aumentare i miei flashback.

    Metto in fretta da parte questi pensieri prima che mi trascinino via.

    No. Non posso, neanche per questa cifra.

    «Stavi iniziando a piacermi, Lucinda», dico piano mentre le scrivo una risposta.

    Avrà immaginato che sarei stato in difficoltà senza niente su cui concentrarmi. Bere e scopare non bastano dopo settimane di eccessi in entrambi i campi senza nient’altro da fare, ma mandarmi questa offerta è semplicemente stupido. Vuole farmi fuori? Sto per premere invio quando vedo spuntare la barra di Google.

    «Cazzo», sussurro, digitando qualche parola nello spazio vuoto che inizia a riempirsi.

    Immediatamente odio quello che vedo. Una donna, sui venticinque forse, con gambe slanciate e un sorriso pericolosamente seducente. I lunghi capelli biondi scompigliati e gettati su una spalla mentre beve champagne a una festa in giardino, circondata da uomini con la bava alla bocca.

    Avevo ragione. Questa qui è il peggior genere di donna, e sicuramente non dovrei farmi coinvolgere oltre il tempo necessario per scoparla per bene. Eppure quando avrei dovuto chiudere la finestra, tornare alla mia riposta a Lucinda e premere invio, mi ritrovo invece senza accorgermene a cercare altre immagini. Passo in rassegna dozzine di fotografie, alcune di lei che esce da diversi locali, alcune a delle feste, alcune in cui passeggia per Londra carica dei numerosi sacchetti del suo shopping. Poi ci sono gli scatti professionali, la maggior parte per marchi di moda e stilisti. Aggrotto la fronte quando mi appare sullo schermo Wikipedia. Ha una cazzo di pagina Wikipedia? Sospiro, ma mi ritrovo comunque a cliccare sul link e a continuare a leggere.

    Camille Logan, è la figlia minore del magnate Trevor Logan e una celebre personalità del jet set. Nata il 29 giugno 1991, ha studiato brevemente moda presso il London College prima di essere scoperta da Elite Models.

    Vive in centro a Londra ed è un volto noto della mondanità. Fra i suoi legami sentimentali spicca Sebastian Peters, erede della Peters Communications. Camille rispetta le classiche misure da modella: altezza 177 cm, interno gamba 86 cm, reggiseno taglia 2° coppa C e vita 63 cm. Capelli biondi, occhi azzurri. Dopo una brutta rottura con Peters, Camille si è fatta ricoverare alla Priory Clinic per superare una dipendenza da cocaina. Da allora ha ripreso la carriera di modella e rappresenta marchi come Karl Lagerfeld, Gucci e Boss.

    Mi ributto nella poltrona, sconvolto. «Hanno messo le sue cazzo di misure?». Scuoto la testa incredulo mentre torno alla mia email e aggiungo un post scriptum.

    Neanche per un milione! Passo.

    Non aggiungo neanche un grazie. Lucinda deve essere impazzita. E con questo, chiudo il portatile.

    ***

    Agito il liquido ambrato nel bicchiere, guardo la sua morbida onda coprire l’interno del vetro. A quanti siamo questa notte? Dieci? Undici? Respiro e lo mando giù, sbatto il bicchiere vuoto sul bancone. Il barista me lo riempie subito, gli faccio un cenno di ringraziamento, appoggio i gomiti sul bancone. Mi accorgo delle occhiate che le donne in questo locale mi stanno lanciando, vogliono tutte che alzi lo sguardo per poter incrociare il loro. Ma se do a una di loro anche solo un cenno d’attenzione, la notte finirà come la maggior parte delle ultime notti. Una scopata, un addio e uno schiaffo. E si ricomincia. Questa notte si beve e basta. Si beve e basta.

    Mi passo le nocche sugli occhi e strofino forte. Senza una distrazione, che sia un lavoro o una donna da scopare, la lotta per frenare la mia mente dal tornare ai bui luoghi del passato è una battaglia come nessun’altra. Le facce iniziano ad apparire nella mia testa, facce che mi tormentano ogni giorno. Le esplosioni mi rimbombano nel cervello, e il cuore a riposo inizia a battere all’impazzata.

    «Figlio di puttana», respiro, alzo lo sguardo e incrocio una donna che sbatte le ciglia nella mia direzione dal fondo del bancone. È una tregua dalla mia personale tortura che ho intenzione di accettare, ma appena mi alzo dallo sgabello per avvicinarmi, il rumore assordante del vetro che si frantuma mi obbliga a tenermi al bancone per restare in piedi. Ho il cuore nella mia cazzo di gola, la testa mi fa passare davanti freneticamente scene che conosco bene. Finestre rotte, esplosioni e fuoco nemico, grida di terrore. Provo a calmarmi, i miei occhi sfrecciano per il locale cercando di farmi ricordare dove mi trovo. Il barista impreca, lo guardo e lo trovo a fissare il casino di vetri rotti ai suoi piedi.

    «Hey, bello».

    Gli occhi vanno verso la voce e trovo la donna che prima era dall’altra parte del bancone, sorride seducente. L’idea che potrei prenderla, trascinarla nel mio appartamento e scoparla finché il mio cuore non martella per un’altra ragione non mi calma come dovrebbe.

    Non riesco a vedere il suo viso. Riesco a vedere solo il mio passato. Non funzionerà.

    Metto la mano nella tasca della giacca, prendo le mie pillole, svito il tappo mentre esco dal locale. Ho bisogno di qualcosa su cui concentrarmi e ne ho bisogno in fretta. I flashback stanno diventando sempre più frequenti e le pillole sempre meno efficaci.

    Se continuo di questo passo, prenderò la camera che ha lasciato libera Camille Logan alla Priory Clinic. Tornerò al punto in cui ero quattro anni fa: perso, devastato e con nient’altro da fare se non torturarmi costantemente e rivivere i miei incubi. Non mi abbandoneranno mai, ma posso limitarli. Ho solo bisogno di spingere questa merda da un lato e vedere Camille Logan per quello che è.

    Un lavoro. Concentrati sulla missione. Tutto qui. È tutto quello che ho.

    Tiro fuori il cellulare e faccio il numero della mia salvezza.

    «Stavo proprio per chiamarti», mi saluta Lucinda.

    «Il lavoro coi Logan. Lo accetto». Non me ne frega un cazzo di chi è il cliente. Una donna, un bambino, una cazzo di scimmia. Ho bisogno di lavorare. Niente può essere peggio di questo.

    «Bene», mi risponde semplicemente, non facendone una gran questione. «Sono contenta che tu mi abbia evitato di dover rimettere il tuo culo in riga».

    Il cuore inizia a rallentare un po’. «Qualcuno dovrebbe», borbotto.

    «Dove sei?»

    «Chelsea».

    «In un bar?»

    «Me ne sto andando».

    «Con?»

    «Nessuna».

    Ride, come se non mi credesse. E sicuramente non mi crede. «Fatti una bella dormita, Jake. E presentati alla Logan Tower domani alle tre. I centomila ti verranno accreditati sul conto in mattinata». Lei attacca e io vado verso casa, adesso la mia testa è concentrata sul lavoro e nient’altro.

    Sono il migliore all’agenzia per la sicurezza dove lavoro. Non mi sto vantando. È un fatto, puro e semplice.

    Vuoi proteggere qualcuno, assumi me. Non ho mai fallito. Ho intenzione di continuare così.

    La mia testa è tutta sulla partita.

    Capitolo due

    Cami

    «Camille!».

    Mi volto, le mie borse girano insieme a me, creando l’effetto di un gigantesco ed elaborato tutù di carta. Sorrido quando vedo Heather corrermi incontro, con gli occhi lucenti ed emozionati. Faccio la lotta per portarmi la mano al viso, le mie borse mi battono sul fianco mentre le sollevo, indosso gli occhiali da sole prima che il loro peso mi obblighi ad abbassare ancora il braccio.

    «Hey!», le rispondo, contenta quanto lei. «Non si lavora oggi?».

    Il viso allegro di Heather lascia trasparire una punta di amarezza, appena prima di buttarmi le braccia al collo, ma non posso restituirle l’abbraccio, ho una quantità oscena di sacchetti in mano, e non me ne pento neanche un po’. Le piacerà da morire quello che ho da mostrarle. «Mi hanno licenziata», sputa fuori risentita, stringendomi più forte.

    «Oh, cazzo! Cosa è successo?», le domando appena lascia l’abbraccio, raccoglie i capelli biondo rame su una spalla e si mette a sistemare l’interno della sua Chanel.

    «Martedì sera. Ecco cosa è successo». Mi prende a braccetto e ce ne andiamo giù per Bond Street.

    «Ohhh». Martedì sera mi viene addosso come una valanga. O quello che mi ricordo di martedì sera.

    Champagne. Tantissimo champagne, e qualche dubbio passo di danza nel nostro locale preferito.

    «Sì, oh», replica, facendomi un mezzo sorriso. «Sono arrivata al lavoro in orario ieri, ma non sarei riuscita a leggere il gobbo neanche per salvarmi la vita, era tutto sfuocato».

    Rido, me la vedo che stringe gli occhi sullo schermo oltre la telecamera. «Essere in forma è abbastanza fondamentale per le dirette televisive».

    Attraversiamo la strada e ci dirigiamo verso una caffetteria col pilota automatico. Ho bisogno di un tè freddo al limone, subito. «E adesso?», le chiedo, mentre lascio cadere come piombo tutte le borse dalle mie mani doloranti appena raggiungiamo un tavolo.

    Heather mette il suo bel sederino su una sedia. «Adesso posso concentrarmi sul nostro sogno, Camille!». Gli occhi le brillano per l’emozione. «Qualche novità?»

    «Abbiamo un altro investitore interessato», le dico, cercando di sembrare rilassata. Non voglio entusiasmarmi troppo alla possibilità di partire con la nostra linea di abiti. Non finché non c’è un vero accordo sul tavolo. Abbiamo già fatto quell’errore. Avevano metaforicamente la penna sulla linea tratteggiata quando ho notato una clausola di cui non si era mai parlato durante le negoziazioni. Qualcosa sul realizzare abiti solo fino a una certa taglia, il che in pratica avrebbe significato che qualunque donna con anche il più minimo accenno di curve o traccia di sedere non avrebbe potuto indossare la nostra linea. Quello rompeva l’accordo, è qualcosa a cui io e Heather crediamo molto. Eravamo state chiare sul fatto che i nostri abiti dovevano essere disponibili per ogni donna di ogni forma e taglia. Gli investitori non avrebbero cambiato idea, e nemmeno noi. «Sembrano interessati».

    «Davvero?». Mi fa un gran sorriso pieno di denti.

    «Davvero», confermo io, incapace di non risponderle con lo stesso sorriso, ma sono così nervosa. Per ora siamo solo due facce carine che stanno bene coi vestiti. Mi piace il lavoro di modella, ma ho una voglia feroce di dimostrare a tutti, incluso a mio padre, che posso essere più di un manichino. So che Heather la pensa come me. Nessuna di noi vuole fare compromessi sul nostro sogno, e soprattutto, nessuna di noi vuole accettare i soldi dei nostri padri. Anche il padre di Heather ne è pieno. Non pieno come il mio, certo, non molti lo sono, forse nessuno a Londra lo è, ma comunque è oscenamente ricco. «Abbiamo un incontro con la mia agente domani. Vuole parlarci di alcune cose».

    «Ci sarò!». Fa un sorrisetto e indica le mie borse. «Cos’è che hai comprato, visto che la linea Camille Logan e Heather Porter fashion non è ancora disponibile? Sai, vero, che potremo indossare solo la nostra linea quando esisterà?».

    Il pensiero mi eccita. Scegliere i tessuti, inventare i modelli, creare abiti di qualità e accessibili. La moda si muove troppo in fretta per poter spendere una fortuna sull’ultimo trend. «Solo un vestito per la festa di compleanno di Saffron». Prendo il portafoglio dalla borsa. «E un tessuto che ho trovato a Camden che voglio che tu veda. Ci si potrebbe fare un abito incredibile». Ho il modello già in testa, e so che l’abilità di Heather nel confezionare gli abiti gli renderà giustizia. «Tè freddo?»

    «Grazie». Sta guardando nei miei sacchetti da prima del mio ingresso. Mi sento ancora spossata dagli eccessi di martedì sera, la pelle è meno luminosa e morbida del solito, prendo anche una bottiglietta d’acqua per accompagnare il tè e la finisco prima di arrivare in cassa. Devo idratarmi, e forse fare una maschera. Gesù, ho venticinque anni e mi sembra già che la vita sociale di Londra non faccia più per me. «Prendo un tè freddo normale e uno al limone. Grazie», dico alla ragazza al bancone mentre tiro fuori un dieci dal portafoglio. «Oh, e una bottiglietta d’acqua».

    «Oh mio Dio!», esclama, facendomi fare qualche passo indietro. «Tu sei Camille Logan, vero?».

    Mi sento le guance arrossire e alzo gli occhi su di lei, vedo una faccia completamente stupefatta. È al tempo stesso lusinghiero e imbarazzante. «Sì», confermo, sperando che non ne faccia un affare di stato.

    «Sei anche più perfetta di persona!».

    «Grazie».

    «Sono così invidiosa! La tua vita è perfetta! Ti adoro!».

    Adesso il mio sorriso è forzato. Perfetta. Sì, certo che lo è. Credo abbia diciassette anni, se li ha. Non ne ha idea.

    Nessuno ha idea della costante lotta per tenere la mia mente concentrata sul futuro e non sul passato, l’insostenibile padre che cerca di controllare la mia vita, o la fatica che faccio ogni giorno a resistere nella scena londinese, alimentata a cocaina e champagne. Queste sono battaglie private che resteranno private. Troppe sono già state rese note al pubblico... e a mio padre. «Sei molto carina», metto alla prova la mia sincerità, nonostante il fatto che, effettivamente, è davvero stata carina. Ingenua, ma carina. «Ho un’amica che mi aspetta fuori. Ti spiace?». Faccio un cenno verso la macchina dietro di lei, sperando che la mia sottile allusione la risvegli dall’emozione di aver incontrato qualcuno di famoso.

    «Oh Dio, certo». Si mette all’opera immediatamente, tutta agitata, e mi prepara l’ordine in tempo record. Mi passa le bevande e, con il viso pieno d’orgoglio, si sporge un po’. «Pago io per questi. Così poi potrò dire di aver offerto da bere a Camille Logan!».

    «Oh, no, non devi, davvero». Scuoto la testa, decisa a rifiutare il suo gesto gentile. «Pago io per questi, ma grazie comunque».

    «No!». Mette giù tutto e fa un passo indietro, fuori dalla portata, così che i miei dieci sventolano sul bancone in mezzo a noi. Mette le braccia conserte sul petto, con una punta di ostinazione negli occhi.

    Non vincerò questa cosa a parole, quindi scelgo l’unica altra opzione. Vado al portafoglio, tiro fuori un altro dieci, poi lo metto sul bancone con l’altro, prima di afferrare in fretta i miei bicchieri. «Adesso puoi dire alla gente che Camille Logan ha offerto da bere a te!». Sento il suo strilletto contento appena metto piede sul pavé fuori. Heather ha in mano il taglio di tessuto fantastico che ho trovato, accarezza il velluto e si ferma a guardarmi quando mi rimetto a sedere.

    «Tutto bene?», domanda, ripiegando la stoffa.

    «Una fan un po’ vivace». Le passo il suo tè freddo mentre ride, allungando il collo per vedere dentro alla caffetteria.

    «Evviva!», tuba Heather prima di prendere un lungo sorso dal suo tè. «Adoro la stoffa!».

    «Favolosa, vero?». Spingo in giù il ghiaccio con la cannuccia e appoggio la schiena al metallo della sedia, lascio che la mia pelle si inondi di sole. «Stavo pensando arricciato in vita e…».

    «Gonna lunga». Heather mi completa la frase, sorridendo.

    «Sì!». Ecco perché l’adoro e perché siamo perfette per lavorare insieme. Siamo talmente in sintonia con le idee e su quello che pensiamo. «Ti faccio avere un disegno per la fine della settimana».

    «Mi ci metterò subito».

    «Perfetto. E dobbiamo metterci d’accordo per andare a vedere quel fornitore di tessuti di cui mi parlavi». Prendo l’agenda e scorro le pagine. «La prossima settimana?»

    «Certo. Non è che abbia un lavoro, ormai».

    Rido. Lei fa la voce devastata. «Lascio fare a te, allora». Guardo il mio tè, il ghiaccio si sta sciogliendo in fretta. Faccio un lungo sorso dalla cannuccia prima di rimettermi gli occhiali. «Cosa ti metti per la festa di Saffron?».

    Si avvicina, incoraggiandomi a fare altrettanto. Chiunque la vedesse da fuori la crederebbe sul punto di rivelare chissà quale succoso pettegolezzo. «Pensavo a un abito rosso con tacchi alti dorati».

    «Ottimo piano», le dico subito.

    «Tu?»

    «Non hai già guardato in quella borsa, allora?», chiedo, prendendo il sacchetto in questione e tirando fuori il mio vestito nero.

    «Sarebbe stato maleducato», tirando su l’aria dal naso, con gli occhi che si dilatano mentre vede il bellissimo abito nero. «Wow, lo adoro!».

    «Anch’io», concordo.

    «È corto». Fa ballare un sopracciglio su di me, e capisco subito l’antifona.

    Paparazzi.

    Coi fotografi che si aggirano per la maggior parte dei posti che frequentiamo nelle nostre serate fuori, siamo consapevoli del danno che può fare una foto sbagliata se finisce sulle riviste la settimana dopo. Come il tuo vestito che si alza e mostra un po’ troppe gambe o, Dio non voglia, un po’ di cellulite. Questo è un pallido esempio di quello che può succedere, per quanto comunque seccante. C’è un lato molto più spiacevole della stampa, molto più dannoso, e, purtroppo, l’ho dovuto imparare durante quel brutto periodo l’anno scorso, quando io e Seb ci siamo lasciati. So che mio padre ha pagato tantissimi giornali perché non pubblicassero le mie foto.

    Che fosse con soldi o con favori. Ma i suoi contatti e le sue relazioni non sono servite con le riviste patinate.

    E c’erano troppe mie foto in giro.

    Mi vengono i brividi a ricordare quanto mi sentissi impotente, quanto tutto intorno a me sembrasse nero, e quanto fossi delusa da me stessa. Sebastian mi aveva fatto questo. Mi ha trascinato nel suo caos fatto di cocaina e mi ha quasi rovinato. Ha preso i miei soldi quando i suoi erano finiti e i suoi genitori gli hanno voltato le spalle; si è fatto arrestare più di una volta per le sue uscite violente alimentate da droga e alcol, e quando non c’era nessuno su cui sfogarsi, io ero a portata di mano. Spero non torni mai a Londra. Spero non lo facciano mai uscire dalla clinica. Non voglio rivederlo mai più.

    «Camille?», la voce morbida di Heather mi spaventa, e salto sulla sedia, cerco di concentrarmi di nuovo sulla mia migliore amica.

    «Dove sei?»

    «Da nessuna parte». Guardo il mio bicchiere e mi accorgo di aver bevuto tutto il tè mentre ero persa nella terra del rimpianto. Sento che Heather mi sta guardando, probabilmente con un sorriso triste sulla faccia, sicuramente dopo essere arrivata alla giusta conclusione.

    Alzo lo sguardo e mi incollo un sorriso forzato addosso, e lei risponde al mio sorriso, prendendomi la mano. «Se n’è andato», sussurra, stringendo la presa.

    Annuisco e respiro piano, cerco di riprendermi. Heather è stata sempre con me, leale fino all’ultimo. Grazie ai media, tutto il mondo conosceva il mio rapporto con la cocaina, ma non sapevano niente di come Seb avesse l’abitudine di riversare la sua rabbia su di me. Quello succedeva a porte chiuse. Heather se ne era accorta e dopo aver scongiurato il pericolo, non l’aveva detto a nessuno. Quello che raccontava la stampa aveva già messo in guardia il mio padre iperprotettivo, privandomi dell’indipendenza che avevo combattuto tanto per ottenere. Heather mi aveva aiutato a rimettermi in sesto. Siamo spiriti affini. Migliori amiche dall’infanzia. In ogni momento importante della nostra vita siamo state fianco a fianco. Spero che questo non cambi mai. Heather è l’unica che conosce i dettagli della mia relazione con Sebastian. Vorrei che continuasse a essere così.

    «Comunque!», mi lascia la mano e fa un applauso. «Ti va un giro da Harvey Nic’s?».

    Abbasso le spalle per lo sconforto. Mi piacerebbe davvero, ma non posso. E sono davvero arrabbiata, perché quello che devo fare è decisamente meno esaltante. Molto, molto meno. «Sono stata convocata da mio padre». Faccio il mio labbro alla Elvis, più comunemente noto come labbro arricciato. «A dire il

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