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Qualcosa Inventeremo
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E-book229 pagine3 ore

Qualcosa Inventeremo

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Info su questo ebook

Giacomo "Jack"Alighieri ha una routine collaudata che non ha alcuna voglia di cambiare, così come non ha voglia di fare molte cose. Giorno dopo giorno la sua vita comincia con la sveglia nel suo bilocale, continua per otto ore in un ufficio e si conclude la sera al BarCellona, tra nostalgici degli anni Ottanta, idraulici amanti del teatro, personaggi muti o solo silenziosi, birra e vino bianco. E narrazioni fantasiose al bancone del bar, che lo vede di volta in volta cantastorie o imbonitore, truffatore della realtà o suo archivista. Avrebbe potuto continuare così per sempre, magari aggiungendo ogni tanto un'uscita con l'amico storico, ma una serie di bigliettini di cartone lasciati sul tavolo della cucina del suo appartamento cambia tutto. Poche parole scritte con una grafia che odora di femmina e di avventura, un luogo e un orario. Un appuntamento con il destino, ma di chi?
 
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2020
ISBN9788835805434
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    Anteprima del libro

    Qualcosa Inventeremo - Simone Rocchi

    Simone Rocchi

    Qualcosa inventeremo

    UUID: f96c6e2e-c3cc-4a43-b11f-a26ff33c80ab

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    ​Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    ​Capitolo 8

    Capitolo 9

    ​Capitolo 10

    Capitolo 11

    ​Capitolo 12

    Capitolo 13

    ​Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    ​Capitolo 18

    Capitolo 19

    ​Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    ​Capitolo 26

    Capitolo 27

    ​Capitolo 28

    Capitolo 29

    ​Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    ​Capitolo 34

    Capitolo 35

    ​Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 1

    17 agosto 2015 - Tarda mattinata

    Ho lasciato l'auto in un parcheggio coperto a pagamento in pieno centro, per mantenerla al fresco fino al mio ritorno e questo, già di per sé, dà la misura di quanto io sia cambiato nell'ultimo anno. Cammino piano, all'ombra dei palazzi, ma arrivo comunque pezzato al mio appuntamento. Anzi, diciamo pure fradicio.

    Non fraintendetemi, anche io adoro questo periodo dell'anno in cui la città si svuota e riesce a sembrare meno caotica e più accogliente, ma il caldo rimane infernale e insopportabile.

    Raggiungo l'edificio e ci entro senza farci troppo caso: da fuori lo conosco a memoria, un blocco di marmo grigio nell'anima e con migliaia di occhi puntati sulla città, in perfetto stile edilizia pubblica anni Cinquanta.

    Mi viene voglia di dichiararmi colpevole solo a guardarlo.

    All'interno, il fresco che mi raggiunge subito è un bacio che accetto volentieri. Anche qui il marmo è ovunque, solo striato di rosso e non del classico colore tetro.

    Estraggo il biglietto dalla tasca e leggo le indicazioni per arrivare all'ufficio giusto: prendo l'ascensore e salgo al terzo piano. Il metallo attorno ai pulsanti è sfregiato da una marea di scritte colorite contro ogni forma di ordine costituito. Le possibilità distruttive della fantasia umana riescono sempre a sorprendermi e a mettermi di buon umore.

    Vorrei poter dire che questa convocazione è stata un fulmine a ciel sereno o che è arrivata in modo del tutto inaspettato, ma mentirei: ho sempre saputo che questo giorno sarebbe arrivato e, a dire il vero, non mi sento nemmeno troppo in colpa. Ci hanno messo persino troppo, se devo essere sincero.

    La porta scorrevole si apre con un plin che mi riporta sul pianeta Terra. L'ufficio 313 è a sinistra e per arrivarci devo passare attraverso un altro corridoio e uffici deserti in cui l'aria condizionata è comunque accesa.

    Il tizio che mi ha convocato è molto probabilmente l'unico essere umano rimasto in città e deve essersi prodigato molto perché io gli facessi compagnia. Busso alla porta e sento la sua voce invitarmi a entrare.

    L'aspetto è quello di una persona cui non farebbe male essere sola sulla Terra: è basso, pelato e ha due occhi porcini resi ancora più minuscoli da un paio di occhiali dalle lenti spesse come un cellulare. Forse ha anche dei denti canini sporchi di sangue, ma dato che per il momento non sorride reputo la cosa un'invenzione del mio subconscio.

    La giacca verdognola con righe dorate, però, esiste davvero.

    «Si accomodi» mi invita.

    Prendo posto davanti a lui. La sedia è comoda; probabilmente è una tattica: il contribuente deve sentirsi a suo agio, rilassarsi, credere che nessuno voglia fargli alcun male.

    «Sono il dottor Manzi.»

    Gli rispondo col mio nome, senza alcun appellativo, ci stringiamo la mano e lui abbozza un sorriso tirato. Attacca con l'uso di un plurale che, visto il deserto che ho attraversato, mi pare leggermente illegittimo.

    «L'abbiamo convocata per farle alcune domande. Niente di che. Spero non si sia allarmato.»

    «Nessun problema.» Scrollo le spalle: Figurati, penso. Con questa camicia addosso e grazie alla tua aria condizionata sono l'esempio del cittadino modello e collaborativo.

    Del resto, quando la tua principale fonte di reddito sono dei versamenti che arrivano dal conto cifrato di una non meglio precisata ONG svizzera e ti ritrovi convocato dall'Agenzia delle Entrate non hai alcun motivo per allarmarti, no?

    «Lei è laureato in Economia, vero?»

    «Sì.»

    «Anche io.» Solleva lo sguardo e aggiunge: «Economia Tributaria, per la precisione.» Un ultimo sorriso poco prima di abbassare di nuovo la testa su un mazzetto di fogli che tiene perfettamente impilati davanti a sé. Deve essere un ossessivo-compulsivo-maniaco dell'ordine: lo sto già immaginando mentre rassetta casa con uno spolverino in mano.

    Concentrati Jack, per favore. Per fortuna ci pensa l'impiegato a riportarmi alla realtà.

    «Lei fino a gennaio 2015 ha lavorato come impiegato amministrativo, vero?»

    «Sì.»

    Altro sorriso.

    «Poi vedo che ha cambiato impiego...»

    Non aspetta la mia risposta ma alza gli occhi e sta zitto per qualche secondo.

    Lo imito. Ho visto troppi film polizieschi per non sapere che è meglio stare zitti.

    «Vede, quello che vorremmo capire è come mai, tutto d'un colpo, un ragazzo di trent'anni lascia il lavoro ed è assunto da una Organizzazione Non Governativa, con sede in Svizzera, per attività di consulenza. ONG dalla quale, peraltro e già prima di lei, è piuttosto dispendioso ottenere informazioni e dettagli. Senza voler pensar male, però capisce che fare domande è il nostro lavoro. Del resto, cosa sarebbe l'universo senza quel pizzico di curiosità che contraddistingue la specie umana?»

    Sarebbe bello rispondergli spiegando davvero in cosa consiste il mio lavoro, ma non ci vuole un genio per capire che non è una buona idea.

    Mi fissa e io non trovo di meglio da fare che schiarirmi la voce prima di iniziare.

    « Ci mancherebbe. Senza curiosità saremmo fermi all'età della pietra.»

    L'esordio con ci mancherebbe è un atto dovuto: l'ho sempre reputata una locuzione irritante, almeno fino a quando non ho iniziato a capire che l'uso di alcune parole come assolutamente poteva aprirmi porte fino ad allora inesplorate ed evasioni incredibili.

    Poi proseguo nella risposta e ci metto una delle mie migliori arringhe difensive, di quelle che tirano in ballo i sogni, i treni che passano una volta sola nella vita e hanno a bordo un solo passeggero: un'opportunità unica. Verso la fine ci infilo anche un pizzico di senso di colpa per la fortuna sfacciata che mi è capitata, che non guasta mai.

    «D'altra parte» sospiro, «è innegabile che ci troviamo in un momento storico in cui molti miei coetanei fanno fatica a trovare il primo impiego, mentre a me è stata data la facoltà di poter addirittura scegliere. Cosa avrei dovuto fare?»

    Sono andato avanti un paio di minuti e ho concluso con una domanda retorica. Niente male. Per ricevere la benedizione mi mancano solo le braccia aperte.

    L'omino mi guarda senza dire nulla. Ha ancora gli occhi fissi su di me, e non dice nulla. Credo si stia chiedendo quanto lo abbia preso per il culo.

    «Bene» esala poi, regolando nuovamente lo spessore dei fogli davanti a lui.

    Non l'ho convinto proprio per niente, lo capisco dal fatto che non intende proseguire nella discussione né fare altre domande. Oppure è talmente impressionato dalla mia non risposta lunga centoventi secondi che evita di pormi ulteriori, inutili quesiti.

    Le sue educate formule di congedo pongono fine al primo round, quello in cui gli avversari di solito si studiano e si sparano colpi a salve. Ora l'eretico sa che l'Inquisizione lo ha preso nel mirino e continuerà a tramare nell'ombra; Torquemada invece ha capito di trovarsi di fronte un paraculo di prima categoria e che prima di formulare accuse bisogna avere in mano delle prove certe.

    Scendo le scale a piedi e attraverso l'atrio con passo lento: nessuno deve pensare che me la stia dando a gambe. La porta automatica si apre e il caldo è una mazzata tremenda che aggredisce ogni poro.

    È in questi momenti che vorrei accendermi una sigaretta, ma non ho mai iniziato a fumare.

    Capitolo 2

    8 aprile 2014 - Tarda mattinata

    Mi chiamo Giacomo, ho da poco compiuto trent'anni e l'unica cosa che so fare nella vita è raccontare storie. Il mio nome non mi è mai piaciuto, o almeno è così da quando da piccolo ho scoperto che se le gambe facevano giacomo-giacomo eri nella merda.

    Sono sopravvissuto fregando tutti: quello che era straniero pareva essere più figo e allora ho fatto in modo che gli amici mi chiamassero Jack. E così è successo.

    Ho un lavoro tranquillo come impiegato in una piccola azienda e di cognome faccio Alighieri: escludere del tutto la possibilità che il cognome abbia influenzato la mia vita mi viene davvero difficile.

    Ho una laurea in Economia Aziendale che incorniciata è buona per coprire un'infiltrazione di muffa sulla parete. Il muro da nascondere è quello del salotto del mio spoglio bilocale, preso in affitto in una zona malfamata ma non troppo della città, di quelle piene zeppe di palazzi dalle altezze tutte diverse, un po' grigi e un po' color mattone, con giardini semiabbandonati e senza troppi accoltellamenti.

    Sono single e non ho straripanti progetti all'orizzonte, lavorativi o sentimentali. Per una ragione che non so spiegare e non ho il coraggio di indagare, dopo i vent'anni, ho iniziato a prendere per buono quasi tutto quello che mi capitava. In pratica, ho iniziato ad accontentarmi. A scansare i problemi con abili quanto indolenti passettini laterali.

    Non ho mai dubitato che prima o poi sarebbero tornati per centrarmi in pieno.

    Roberto mi chiama che sono le undici del mattino di un anonimo martedì.

    Rob è il mio migliore amico da una quindicina d'anni, vale a dire dai tempi delle superiori. Uno di quegli amici che agli inizi nemmeno si considerano, perché si è provenienti da pianeti diversi ma poi, per un caso fortuito quando ci si incrocia non ci si lascia più.

    Lo sbarco tra extraterrestri era capitato durante una festa in casa organizzata dal Monzio nella sua villa ai piedi delle colline; una festa in stile Tempo delle Mele, con succhi di frutta in bella mostra sul tavolo da mischiare alle bottiglie di Keglevich portate di nascosto. Luci spente e musica più adatta a piangere che a ballare. Erano bei tempi.

    Rob era lì, impalato a bordopista, cioè a bordo tappeto, inguainato in una camicia col colletto negli anni in cui, tra gli adolescenti, fanno ancora colpo i jeans strappati, le borchie o le magliette banali ma firmate.

    Troppo timido per attaccare bottone con le ragazze e troppo educato per calpestare il tappeto.

    E poi io, nell'altro angolo, quello bar, troppo annoiato per spendere energie nel tentativo di conquistare una ragazza.

    Credo di essere stato io a fare il primo passo e credo che Rob mi abbia accettato per sentirsi meno solo. Deve essere l'unico modo decente di sentirsi quando un terrestre dall'aspetto disgustoso e che puzza di vodka alla fragola ti si fa incontro porgendoti un dono conico.

    Non ricordo affatto cosa dissi ma rammento che parlammo molto, e più che aprirsi, Rob esercitò il proprio diritto di opinione su questa o quella canzone o ragazza, in una manifestazione pura del suo libero pensiero e perciò inattaccabile, almeno per me. Io, incredibile a dirsi, parlai meno, ascoltai sfoderando di tanto in tanto l'affilata arma del commento sarcastico, una memoria calcistica già allora ragguardevole e qualche piccola riflessione profonda e sensibile.

    Iniziammo a frequentarci, lui sempre impeccabile con la riga nel mezzo e le camicie chiare, io con le mie T-shirt, le scarpe comode e il carattere ringhioso. Contestavamo tutto, io lanciando oltre la staccionata la mia rabbia, lui aggirando gli ostacoli con grazia. Entrambi volevamo far ragionare i nostri coetanei, aprire loro gli occhi, ma usando due tecniche opposte, io prendendoli a schiaffi, lui convertendoli con una carezza.

    Dopo la maturità io mi sono infilato dritto dritto a sinistra, nel tunnel dell'Università, giusto per tergiversare ancora un po', mentre lui ha svoltato a destra, verso la porta blindata di una banca.

    Siamo rimasti amici, lui in giacca e cravatta e io, al massimo, con una polo Lacoste.

    Ora gestisce i miei risparmi, vale a dire quelle quattro lire che alla fine di ogni mese rimangono sul mio conto corrente.

    Una sua telefonata in orario lavorativo è più rara di un bambino albino in Nicaragua. Sono seduto al PC, mi alzo e mi allontano per rispondere.

    Di comune e tacito accordo saltiamo i convenevoli. Ha la voce agitata e mi chiede di raggiungerlo in filiale in pausa pranzo.

    «Ma per cosa?» provo a insistere.

    Adesso che non siamo più dei ragazzini, tra le qualità che gli procurano un certo successo con le ragazze non c'è il fascino del bel misterioso, che comunque con me non ha mai attaccato.

    «Non sono cose di cui parlare al telefono.»

    «Mi prendi per il culo?»

    «No.» Riappende.

    Non è nemmeno il tipo da fare scherzi. Sono moderatamente preoccupato.

    Preoccupato perché Rob è Rob e vive circondato da un alone di serietà, moderatamente perché non sono una persona che si fa prendere dall'ansia.

    Gli ultimi dieci minuti prima della pausa però sono un supplizio: l'occhio fugge di continuo sulla lancetta più lunga e non appena questa raggiunge una posizione vagamente verticale non ci penso due volte e me la squaglio.

    Il cielo è limpido e la giornata mite, di quelle che ti illudono che l'inverno sia ormai alle spalle una volta per tutte. Dalla periferia dove mi trovo io al centro dove lavora Rob ci metto poco, ma è trovare parcheggio il vero casino: vista l'ansia strisciante che questa situazione surreale ha creato fregandosene del mio carattere moderato, vado contro i miei più solidi principi morali e lascio la mia auto in un parcheggio custodito. Sarà l'amicizia o sarà che sto invecchiando? Preferisco non rispondermi.

    Varco la soglia della banca con la delicatezza di un rapinatore o di chi deve depositare un riscatto da un milione di dollari entro l'ora di chiusura. Rob mi nota subito, ma va detto che non è proprio un'impresa da aguzzate la vista della Settimana Enigmistica.

    Mi viene incontro con il suo metro e ottanta abbondante, capelli castano chiari e barba perfettamente rasata, il tutto reso ancora più curato grazie all'abito grigio e alla cravatta cremisi; ha un'eleganza naturale che io non avrò mai, nemmeno dopo un secolo di addestramento con il signorile Candelabro de La Bella e la Bestia. Nei suoi occhi, marroni, c'è però una tensione che io, con anni di allenamento alle spalle, ho imparato a evitare.

    «Troviamo un buco» mi dice.

    Lo seguo e dopo un paio di porte sbuchiamo in quello che, più che un ufficio, sembra un acquario: tavolo rettangolare nel mezzo e vetri su tutte le pareti. Di mangime non se ne vede e io ne avrei un gran bisogno: pagherei il corrispondente di un'intera giornata lavorativa per farmi togliere un pizzico di ansia da un bicchiere di prosecco.

    Rob mi fa segno di accomodarmi e mi porge dei fogli, il tutto senza dire una parola. Quindi incrocia le braccia all'altezza del petto. Lo guardo.

    «Dai un'occhiata.»

    C'è il logo della banca, il mio nome e tutti gli altri dati.

    «Be'?» Non ci vuole un genio per capire che si tratta del mio estratto conto, ma ammetto di non esser mai stato troppo bravo a concentrarmi con una persona che mi fissa. Diciamo pure che sono campione europeo di distrazioni facili.

    «Niente da dire?»

    «Sì, il saldo non torna. Mai avuto così tanti soldi.»

    Rob è sempre in piedi di fronte a me e scioglie le braccia conserte. «Mi prendi per il culo? Hai guardato attentamente solo la riga finale, come fanno tutti.» Fa un passo in avanti e punta l'indice sulla penultima riga.

    C'è un bonifico da cinquemila euro. Il numero di conto da cui proviene è coperto da asterischi.

    «Che cazzo è?»

    «Vuoi dirmi che davvero non ne sai niente?»

    «Cosa cazzo dovrei sapere?» Alzo un pochino la voce.

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