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Catarina de’ Medici
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E-book503 pagine7 ore

Catarina de’ Medici

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Uno dei periodi più movimentati della storia di Francia che vide una donna, italiana di nascita e di sentimenti, imporsi e dominare gli eventi con una costanza e una forza d’animo degni di meraviglia, è studiata da Ivo Luzzatti con passione di biografo diligente e obiettivo. Re, cortigiani, donne bellissime e intriganti, feste, poesia, guerre sanguinose, lotte di partiti e di religione, tutto un accavallarsi di alterne vicende che ci rivelano il vero volto del secolo XVI, su cui si abbatté come un uragano la notte di San Bartolomeo, si susseguono in questo libro riuscitissimo, da cui la figura di Caterina de’ Medici, che, sola, salvò la corona e l’unità della Francia basandosi su una politica di equilibrio e di conciliazione, balza in tutto il suo giusto valore di donna e di regina.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2020
ISBN9788835836957
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    Anteprima del libro

    Catarina de’ Medici - Ivo Luzzatti

    (1519–1589)

    Copyright

    First published in 1939

    Copyright © 2020 Classica Libris

    Dedica

    On ne doit aux morts que la vérité

    Voltaire

    Alla contessa

    Mara Carnevale Braida

    I. L.

    Prefazione

    Fra le più note figure femminili che la storia ricorda, ve ne sono alcune, quali Elisabetta d’Inghilterra, Maria Stuart, Lucrezia Borgia, Caterina di Russia, Cristina di Svezia, Maria Antonietta (per citarne solo poche), che raccolsero in vita e dopo, molto amore ed altrettanto odio. Esaltate e vilipese nei carmi dei poeti e nelle prose dei critici, ancor oggi fanno scorrere fiumi d’inchiostro a difensori ed accusatori che incessantemente ne fanno e rifanno il processo della vita. Scomparendo, quelle creature hanno lasciato una larga scia di poesia che si sprigiona ancor piena di fascino dalle pagine dei loro scritti, dai serici tendinaggi delle alcove semibuie ove giacquero ignude nelle braccia degli amanti, dalle mura delle prigioni ove languirono, dalle pieghe delle vesti che le coprirono, dai ninnoli e dai gioielli che le adornarono e dalle tele che ce ne tramandano le immobili effigi. Il loro nome ancora appassiona e fa sognare, forse per la profonda umanità degli errori e delle colpe che commisero sotto l’impulso di quelle passioni che agitano tutti gli esseri, epperciò, di fronte ai censori che le condannano, sorgono mille e mille voci che le assolvono, sicchè probabilmente mai il tribunale supremo della storia potrà emettere un definitivo giudizio a loro riguardo.

    Vi sono poi altri personaggi, universalmente criticati in vita, che i posteri invece, giudicando con maggiore equità, hanno più tardi assolto da ogni sentenza sfavorevole. Sembrerebbe quindi assiomatico ritenere che il tempo, mettendo i valori umani al giusto livello, sia il giudice infallibile d’ogni azione e d’ogni individuo. Di massima ciò è vero, ma non sempre.

    Nel corso delle nostre letture, infatti, siamo stati fermati da un’eminente figura colpita dalla condanna quasi unanime di contemporanei e posteri. Orbene, chiunque abbia una certa dimestichezza con gli studi storici, deve aver osservato come tutti coloro che hanno svolto una qualsiasi azione direttiva nella vita dei popoli, se sono stati combattuti da un partito, hanno beneficiato delle difese di quello avversario; quindi raramente avviene che i giudizi su di loro siano plebiscitariamente favorevoli o contrari.

    Perciò davanti alla sentenza che ha bollato il nome di Caterina de’ Medici regina di Francia, siamo stati indotti a studiar meglio quella donna che ebbe una parte così cospicua nella storia francese ed europea della seconda metà del sedicesimo secolo. Man mano che ci siamo addentrati nell’esame dell’enorme materiale documentario e bibliografico esistente, sono apparse le prime crepe nell’edificio costruito intorno alla sua vita. Poi le crepe sono diventate fenditure, larghi squarci ed infine le mura si sono sfaldate e crollate, facendo apparire ai nostri occhi una persona assolutamente diversa da quella che ci era stata presentata.

    Da questa rivelazione è nata in noi la tentazione di far conoscere la figura che abbiamo intravista. Non sappiamo se essa sia la vera; in ogni caso però, la riteniamo più somigliante di quella che generalmente esce dalle pagine delle innumerevoli biografie e vite più o meno romanzate, attraverso le quali appare generalmente come esemplare di donna demoniaca che si macchiò di tutte le colpe e di ogni delitto. Di fronte al continuo germogliare, specialmente in Francia ed in Inghilterra, di libri che vogliono eternare quella leggenda calunniosa ed infame, riteniamo doveroso e giusto mettere in vera luce questa grande regina, italiana di nascita, di spirito e d’educazione, affinchè il pubblico, conoscendola meglio, possa giudicarla più equamente.

    Quali le origini di questa ostilità che in molti casi si trasforma in odio e che permane a traverso i secoli? Per poterle identificare, bisogna riportarsi con la mente a quello che era lo spirito della regalità nel sedicesimo secolo, quando, cioè, i monarchi erano ancora ritenuti gli unti del Signore e considerare che cosa rappresentasse, agli occhi dei francesi, la famiglia regnante, le cui origini risalivano direttamente ad Ugo Capeto. In quella dinastia dei Valois, la quale non aveva mai imbastardito il proprio sangue con parentadi che non fosser di stirpe regia, entrò Caterina de’ Medici: italiana, cioè di un paese fin d’allora non molto stimato ed apprezzato dai nostri fratelli d’oltr’Alpe, discendente da una famiglia di ricchi banchieri che solo di recente aveva raggiunto potenza e fama europea, ma che già cominciava ad esser circondata da notorietà poco simpatica. Non appena la quattordicenne Caterina pose il leggiadro piede in terra di Francia quale moglie del duca d’Orléans, secondogenito del re Francesco I, fu immediatamente colpita dal nomignolo dispregiativo di italiana e si trovò isolata alla corte, dove il più modesto personaggio poteva vantare maggiore vetustà di sangue. Quel matrimonio, avversato dal popolo e dalla nobiltà, venne considerato come un’umiliazione per il paese e per la monarchia, subìto solo per superiori necessità di politica estera. Se Caterina fosse rimasta modesta duchessa d’Orléans, la sua vita sarebbe certo trascorsa nell’oscurità ed oggi apparirebbe come un’illustre incognita. Il destino volle invece farla assidere sul trono dove, per forza di circostanze, fu portata a svolgere per quasi un trentennio una parte decisiva nelle vicende storiche francesi.

    Quali fossero le condizioni del paese diremo diffusamente nel corso di questo libro; riassumendole qui, accenneremo solo che esso stava allora attraversando una profonda crisi causata dal lungo travaglio della sua unificazione politica e spirituale e del consolidamento della monarchia, fenomeni che si svolgevano contemporaneamente ed in correlazione col conflitto religioso fra la chiesa cattolica e quella calvinista.

    Il primo apparire delle armi da fuoco alla battaglia d’Azincourt (1415) fu la battuta d’introduzione della marcia funebre che doveva accompagnare alla tomba la gloriosa cavalleria medioevale, il colpo di vanga che iniziava lo scavo della fossa destinata a ricevere il cadavere del regime feudale. Due anni dopo, Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna, moriva in battaglia a Nancy. Quel sangue può essere considerato come l’acqua lustrale che tenne a battesimo Francia e Germania quali stati moderni, il seme che germogliò poi tutte le guerre per la conquista del confine renano, combattute da allora, a traverso i secoli, da quelle due potenze e che il recente trattato di Versailles ritiene avere disperso per sempre.

    Regnava allora in Francia un grande monarca: Luigi XI, che diede alla nazione quella unità politica ed etnica che ancor oggi conserva, distruggendo il potere dei grandi feudatari. Dopo di lui, Carlo VIII e Luigi XII incominciarono l’espansione esterna che si accentuò poi con Francesco I il quale, se non con la stessa forza di Luigi XI, ma certo con gli stessi intendimenti, ne perfezionò l’opera di rafforzamento dell’autorità regia e del principio nazionale. Coi successori, il figlio ed i tre nipoti, quell’autorità cominciò a declinare sotto i colpi dell’alta nobiltà che, non ancora definitivamente debellata, aveva rialzato il capo per riconquistare l’antica potenza.

    Fu appunto in quelle circostanze che emerse la figura di Caterina de’ Medici la quale, davanti l’impotenza dei figli a regnare, o per minore età o per deficienza di qualità, si sostituì ad essi e governò direttamente od indirettamente la Francia, riuscendo, in mezzo ad universali ostilità, a lotte d’ogni genere ed a crisi di estrema violenza, a mantenere la corona sul loro capo, difendendola con le unghie e coi denti contro coloro che volevano impadronirsene.

    Innumerevoli furono e d’ogni genere le accuse portate contro di lei, che, dall’assassinio al lenonismo, comprendono tutta la gamma nera dei delitti e delle immoralità e la cui origine, secondo i critici, deve farsi risalire all’ambizione.

    Occorre soffermarci un istante su questo argomento. Noi sosteniamo che Caterina de’ Medici non fu un’ambiziosa. Infatti, come duchessa d’Orléans, delfina e regina si tenne sempre lontana da ogni intromissione negli affari del governo, dalle lotte dei partiti e dagli intrighi di corte, presa tutta dalle sue laboriose maternità e dalle cure della numerosa figliolanza. Non un solo gesto od una parola che possano far sospettare in lei una qualsiasi tentazione di recitare una parte sulla scena politica francese. Solo al momento in cui il marito morì lasciando sul trono il figlio maggiore in completa balia di un partito il cui capo mirava sovrapporsi alla corona e forse conquistarla per sè stesso, ella si fece avanti buttandosi nella mischia con tutto il peso delle sue forze e per trent’anni lottò riuscendo a conservarla ai legittimi eredi.

    Era quello un suo precipuo dovere verso la secolare dinastia dei Valois, nella quale si dimostrò degnissima d’esser entrata a far parte e verso la stessa Francia, che servì fedelmente come nessun francese del suo tempo seppe fare, difendendola con quei mezzi di cui poteva disporre, contro gli attacchi dei nemici esterni e contro le rivolte, non meno pericolose, di quelli interni.

    Anche volendo però ammettere che fosse ambiziosa, vi è da chiedersi se ciò costituisca veramente una colpa. L’ambizione è una delle molle più potenti che spinge l’umanità ad operare. Chi non sente questa febbre, s’accontenta di vegetare nel monotono corso della vita quotidiana, senza cercare nuove vie alla propria attività, senza tentare di migliorare il suo stato, senza innalzare lo sguardo verso più ampi orizzonti. Evita la lotta, la fatica, il dolore e nulla fa per portare un qualsiasi contributo al progresso umano. L’ambizione spinge l’uomo nel cammino ascensionale del progresso, verso le grandi scoperte e le opere insigni in tutti i campi dell’attività. Bisogna perciò riguardarla come una virtù ed infatti essa ci ha dati i santi, i martiri, gli scienziati, i navigatori, i letterati, gli eroi, tutti insomma quegli spiriti illuminati che col lavoro appassionato e col loro sacrificio hanno portato il mondo all’attuale stato di civiltà. Solo quando l’ambizione alberga in anime meschine e mediocri ed è messa a servizio di egoistici interessi personali e di basse passioni, allora degenera e diventa una pericolosa tara morale che può produrre tanti mali all’individuo ed alla società.

    Caterina de’ Medici quindi, anche se fosse stata un’ambiziosa, non deve esser condannata, giacche tutta la sua attività fu volta a nobile scopo: la grandezza del paese che ella amò come seconda patria e servì con indefettibile fedeltà.

    Evidentemente nel suo lungo lavoro dovè commettere numerosi errori, ma non per questo può essere giustificata quella campagna di calunnie che da secoli viene condotta contro di lei. Nessuno è infallibile e chi più opera, maggiormente è soggetto a sbagliare. Nel suo caso poi, gli errori sono tanto più comprensibili quando si rifletta all’ambiente ed alle circostanze nelle quali si trovò ad agire e noi ci chiediamo chi avrebbe potuto tenere il suo posto senza incorrere in censure e condanne. Vogliamo anche ammettere che taluni suoi atti e metodi di governo non possano essere approvati e giudicati legali ed ortodossi specialmente se vengono guardati a traverso il cristallo dell’etica pura; ma nell’esaminarli è necessario spogliarsi della nostra mentalità di uomini del ventesimo secolo e riportarci al suo tempo.

    A questo proposito ci piace riferire quanto scrisse Prosper Mérimée nella prefazione al suo libro: Chronique du Règne de Charles IX. «Il me paraît donc évident que les actions des hommes du XVIe siècle ne doivent être jugées avec nos idées du XIXe. Ce qui est crime dans un état de civilisation perfectionné n’est que trait d’audace dans un état de civilisation moins avance, et peut-être est-ce une action louable dans un temps de barbarie. Le jugement qu’il convient de porter de la même action doit, on le sent, varier aussi suivant les pays, car entre un peuple et un peuple il y a autant de différence qu’entre un siècle et un autre siècle».

    La mentalità del sedicesimo secolo era certo differente dalla nostra e molte azioni che oggi respingiamo con orrore, allora non destavano meraviglia alcuna, se pure non erano ritenute legali.

    Il tradimento della patria e la rivolta armata contro il proprio sovrano, per esempio, erano fenomeni molto normali, specie da parte di principi reali e grandi feudatari; il delitto politico veniva considerato un’arma lecita di governo e di lotta e se si esce poi dal campo della politica per entrare in quello della vita comune, notiamo come anche la morale dovesse essere alquanto differente da quella che regola le nostre azioni, se le concubine dei monarchi avevano quasi rango di regina, se un principe reale non si vergognava di accettare doni vistosi dalle sue amanti e se un cardinale si permetteva di contrarre matrimonio pur conservando la porpora. E tutto ciò senza che il mondo si scandalizzasse troppo.

    Nel parlare di Caterina de’ Medici abbiamo dovuto dilungarci anche su altri personaggi del suo tempo. Come il soggetto centrale di un quadro riceve maggior risalto dallo sfondo e dal giuoco delle luci e delle ombre, dai colori, dalle forme e dagli atteggiamenti delle figure secondarie e dagli elementi ornamentali che il pittore gli pone d’intorno, così, perchè il lettore possa avvicinarsi maggiormente, conoscere la nostra eroina ed avere elementi per giudicarla, condannarla od assolverla, abbiamo voluto dare alquanto sviluppo agli attori che hanno recitato parti preponderanti sulla scena politica francese. Non era possibile, parlando della vita e del tempo di Caterina de’ Medici, tacere di Francesco I e del suo regno, dei membri della famiglia reale, dei maggiori esponenti della nobiltà, del clero e del mondo politico. Come pure abbiamo dovuto soffermarci sulle svariate vicende dello Stato: guerre esterne e lotte intestine, sull’origine e lo sviluppo delle crisi religiose e sull’azione dei partiti e dei loro capi. Dal racconto molto succinto di quegli avvenimenti e dell’attività dei vari personaggi, il lettore potrà farsi un’idea dell’ambiente ove visse e delle difficoltà che circondarono la nostra eroina e potrà, infine, meglio giudicarne le opere.

    Il materiale che direttamente od indirettamente interessa questo studio è immenso. Sono migliaia di documenti di Stato e rapporti diplomatici conservati in archivi e biblioteche statali e private di tutta Europa; sono migliaia di volumi di argomenti vari: storia, cronaca, memorie, epistolari, itinerari, politica, arte, filosofìa, ecc., che ci offrono abbondanti notizie per ricostruire vita, persone ed avvenimenti del sedicesimo secolo.

    Sembrerà forse un paradosso, ma è appunto questa esuberanza di elementi che crea le maggiori difficoltà quando si voglia penetrare nell’essenza intima dei protagonisti e ricostruire la verità dei fatti. Allora ci si trova di fronte ad innumerevoli descrizioni e versioni tutte diverse e contradittorie, giacchè ogni autore osserva, riferisce e giudica secondo preconcetti e vedute del tutto personali e quasi sempre per far trionfare proprie tesi politiche o confessionali, per cui non esita a violare senza rispetto alcuno anche la storia. Gli è che la maggioranza degli scrittori dell’epoca e molti di coloro che li seguirono, misero mente e penna a servizio dei partiti a cui appartenevano, di modo che i loro scritti possono essere considerati come altrettante armi, non certo le meno pericolose, con le quali essi combattevano la stessa guerra che si conduceva sui campi di battaglia, nelle cancellerie dei governi, nei corridoi delle corti, nei confessionali delle chiese. La Francia era allora nettamente divisa in due grandi fazioni nemiche: cattolici ed ugonotti, e naturalmente la stampa ne rifletteva idee e passioni; poichè Caterina de’ Medici fu ostile ad entrambe, ecco che esse si scagliarono velenosamente contro di lei in una feroce campagna di accuse calunniose e false che crearono poi quella leggenda infamante che si perpetuò a traverso i secoli. Purtroppo non ci si può sempre completamente fidare neppure degli atti ufficiali ed i soli attendibili sono i rapporti diplomatici, fra i quali specialmente quelli degli ambasciatori veneti, sempre sereni, acuti ed obiettivi.

    Ci siamo sforzati di ricercare e presentare la storia degli avvenimenti desumendola solo da documenti di indiscusso valore e nei casi nei quali sussistono dubbi abbiamo citato le diverse opinioni. Ci è sembrato questo il modo migliore per far conoscere la nostra eroina, la quale non ha che da guadagnare dal racconto esatto della sua opera, senza perderci in panegirici che non farebbero che destare sospetti sulla nostra obiettività.

    Forse la figura di Caterina de’ Medici non può riuscire simpatica anche se monda da ogni colpa e ciò perchè ella appare come una creatura fredda, eminentemente calcolatrice e cerebrale, padrona assoluta di sè stessa, priva della scintilla di quelle passioni che costituiscono la vita interiore degli esseri. Fu un temperamento essenzialmente politico: dati i tempi, però, non potè mai fare della grande politica, ma dovè accontentarsi di agire con compromessi, intrighi, inganni e sotterfugi. Vissuta in altri ambienti ed in altra epoca avrebbe certo oscurato la fama di Elisabetta d’Inghilterra e di Caterina di Russia.

    De Thou, il grande De Thou, quando ella morì esclamò: «Ce n’est pas une femme, c’est la royauté qui vient de mourir». Aveva ragione, perchè «elle a sauvé la couronne de France; elle a maintenu l’autorité royale dans des circonstances au milieu desquelles plus d’un prince aurait succombé... Mais à toutes les époques où de grandes batailles ont lieu entre les masses et le pouvoir, le peuple se crée un personnage ogresque...».[1] Caterina fu proprio questo personaggio leggendario che la Francia di quel tempo si creò e tale è rimasta fino ad oggi, perchè «il est certain que les historiens sont des menteurs privilégiés, qui prêtent leur piume aux croyances populaires».

    Pierre Champion in una recente intervista ebbe a dire: «... la force de sa faiblesse, c’est qu’elle se rend compte de l’honneur qu’il y a pour elle à être reine de France, de la responsabilité aussi. La France est la plus ancienne et la plus grande nation d’Europe. La dynastie capétienne, dans laquelle la fille des banquiers florentins est entrée, ne la cède en rien, pour l’ancienneté, la noblesse, la puissance, à la nation qu’elle gouverne. De tout cela, Catherine a conscience. Elle a pour la maison de France un respect filial. Elle est à genoux devant la couronne de France. On peut dire qu’elle a tout fait pour être la servante légale de la monarchie...».[2]

    Sono tre giudizi: uno, di un eminente, integro magistrato ed uomo politico che le fu molto vicino e che anche l’avversò; il secondo, di una delle menti più alte del secolo scorso; il terzo, infine, di uno degli storici contemporanei che maggiormente ha studiato il suo tempo. Tutti francesi.[3]

    I. L.

    Libro Primo

    LA SORGENTE

    1

    I GENITORI

    (1518–1519)

    Nell’aprile dell’anno 1518, Francesco I re di Francia si era recato con la corte al castello d’Amboise per festeggiare due solenni avvenimenti: il battesimo del primogenito, il delfino Francesco ed il matrimonio di Maddalena de la Tour d’Auvergne, principessa di casa Borbone, con Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, nipote del papa Leone X.

    Vediamo così riunito fra le mura di quella superba costruzione, tutto lo splendore di Francia: le donne più belle, i cavalieri più nobili, i personaggi più rappresentativi ed illustri del regno per vetustà di sangue, per fama d’imprese e valore militare, per altezza di mente e d’opere nel campo della politica, delle arti e del sapere.

    Dominava l’affascinante figura del re. Ventenne appena,[4] il 1° gennaio 1515 era asceso al trono succedendo al suocero e cugino Luigi XII e già da quattro anni regnava inondato tutto dalla gloria della battaglia di Marignano.[5] Nella tiepida primavera di quell’anno 1518, la spensierata giovinezza brillava nei suoi lunghi occhi vivi di sorridente arguzia, scintillanti in un viso faunesco incorniciato da una barba bruna, ancor troppo leggera per nascondere il sensuale labbro inferiore sporgente sotto il naso lungo ed irregolare.

    Inalzato giovanissimo ai fastigi della corona, amante della vita in tutte le sue più svariate manifestazioni, spinto dalla violenza del sangue generoso, immerse con spensierata avidità le labbra sensuali e l’anima voluttuosa nei calici colmi dei liquori più esilaranti, per spegnere l’inestinguibil sete di piaceri e di sensazioni. Nelle forme eleganti del corpo agile e ben costruito nascondeva un’eccezionale resistenza a tutte le fatiche: a quelle di Marte ed a quelle di Venere. Come l’occhio acuto ed esperto non sbagliava nel distinguere subito una vera opera d’arte, così sapeva con rara perizia scegliere i cani ed i cavalli più veloci e ritrovare, nel fiorito giardino femminile, fulgido ornamento della corte, l’orchidea più rara e delicata con cui ornare la sua dionisiaca esistenza. Tanto che non s’avvilì mai con passioni indegne e tutte le donne che amò, furono creature che alla bellezza estetica delle forme, univano gentilezza d’animo e fascino d’intelligenza e di coltura.

    Uno spirito così raffinato non poteva rimaner insensibile alle immortali creazioni che l’arte stava, appunto in quell’epoca meravigliosa, regalando all’umanità. «Io posso fare un principe, soleva dire, ma Dio soltanto può fare un artista». Di questi fu mecenate munifico; li chiamò a sè da ogni paese, onorandoli, proteggendoli e spendendo somme favolose perchè dessero forme materiali ai prodigi del loro genio.

    Amò la guerra e fu soldato prode ed ardito, se pur non sempre vittorioso; come re ebbe la sfortuna di regnare contemporaneamente a Carlo V di lui più abile e potente. In materia politica e religiosa, liberale in un tempo in cui i sovrani si trasformavano molto spesso in tiranni; clemente coi nemici, sentì tenacemente l’amicizia ed ancor più tenacemente l’amore.

    Consacrato cavaliere da Baiardo il giorno della vittoria di Marignano, conservò intatte le nobili virtù dell’ormai defunta cavalleria medioevale; vissuto nel sedicesimo secolo, comprese profondamente lo spirito del Rinascimento di cui fu uno dei personaggi regali più rappresentativi.

    Aveva come motto «Nutrisco et extinguo» e come emblema, la salamandra: ed invero l’incombustibilità di questo animale ben rappresenta la resistenza ch’egli oppose al fuoco di tutte le passioni.

    Già da qualche giorno, precedendo lo sposo, eran giunti ad Amboise i doni delle nozze. Una colonna di trentasei muli, partita da Firenze, aveva varcato le Alpi ancora sepolte sotto la neve e seguendo il corso della Loire era entrata nella cinta delle mura del castello. Monili preziosi, costosi gioielli, capolavori artistici,[6] trecento mila scudi d’oro ed infine il letto nuziale benedetto dal papa, vero miracolo dell’arte fiorentina, tutto in legno raro e tartaruga, incrostato d’argento e d’avorio. Anche un altro dono, però, la giovane damigella stava per ricevere, non compreso fra quelli venuti a dorso di mulo; una graziosa offerta che lo sposo le avrebbe personalmente fatto fin dalla prima notte delle nozze. «Elle ne l’espousa pas seul, scrisse il maresciallo di Fleuranges,[7] car elle espousa la grosse vérole...».

    Giunse finalmente Lorenzo con ricca scorta, cordialmente accolto dal re. Il giorno seguente ebbe luogo il battesimo del delfino, che lo sposo, insieme a Margherita d’Angoulême,[8] tenne alla fonte quale rappresentante del padrino papa Leone X. Poscia ebbero inizio le feste nuziali che durarono sei settimane: giostre, tornei, balli e cacce. Vi furono anche un combattimento di gladiatori ed una finta battaglia contro una fortezza di legno, con relativi morti e feriti. «Il duca d’Urbino, da poco sposato, fece del suo meglio in presenza della sua dama» notò con fine ironia il signore di Fleuranges.

    Il divino Leonardo aveva disegnato le macchine per l’assalto del fortilizio. Viveva egli allora esule nel castello di Cloux, vicino ad Amboise, onorato ospite di re Francesco che lo chiamava padre. Lo aveva accolto con gioia alla corte e nel mostrargli tutto quanto di bello era intorno a lui, gli aveva detto: «Tutto ciò che tu vedi è ancora niente in confronto di quello che tu puoi fare. Tu puoi lavorare con tutta libertà, che io troverò bellissimo tutto quanto uscirà dal tuo cervello, sieno palazzi, statue e quadri. Disponi del marmo, del bronzo e dei colori a tuo piacimento, ch’io voglio popolare il mio regno delle tue opere. Immagina, inventa e crea senza pensar ad altro; io apro al tuo genio un credito illimitato».[9], [10]

    Prima di chiudere settantenne la sua vita armoniosa, mentre con la mente proteiforme, non stanca, ripensava alla patria lontana che non avrebbe mai più dovuto rivedere, il grande italiano regalava ancora alla Francia ed al mondo le ultime immortali produzioni del suo genio universale. Castelli e fortezze, acquedotti e canali, macchine guerresche e parate festose come quella del «campo del drappo d’oro», la più fantastica rappresentazione, forse, del Rinascimento, che tre anni dopo re Francesco offrì ad Enrico VIII d’Inghilterra.

    «Monna Lisa» brillava con la luce del suo enigmatico sorriso nella preziosa collezione del sovrano il quale, non appena visto il quadro, l’aveva subito voluto.[11] «Questa è la più bella di tutte le donne, perchè tutte le comprende e poichè non mi è dato di possederne l’originale, io voglio almeno averne il ritratto».

    La mano che aveva creato tanti inestimabili capolavori pendeva ora stanca, paralizzata ed inerte. Il «Battista», ultimo bagliore della grande fiamma, era là sul cavalletto ad affascinare gli uomini ed a confondere la critica incapace di scorgere in quella bellezza pagana e cristiana ad un tempo, quale fosse il vero ideale estetico dell’artista; era là il Precursore di una nuova religione, nello studio di Cloux pieno d’aria, di sole e di melanconia, mentre il vegliardo pensoso consumava gli ultimi aneliti della sua vita meravigliosa.

    Nel momento in cui stava per entrare nel mistero di quel mondo che aveva cercato invano esplorare e per raggiungere la soluzione del formidabile problema che lo aveva tanto tormentato, il grande Mago affondava il pensiero nella muta contemplazione della sua lunga, operosa esistenza. Percorreva nuovamente i giardini fioriti della gagliarda giovinezza, mentre tutte le sembianze incontrate nella lunga esistenza tornavano ad invadere la pace di quel vespero sereno. Amici e rivali, dame, principi e mecenati ed infine la stella luminosa, il grande amore, il doloroso rimpianto: Monna Lisa, l’eterno femminino.

    Purtroppo, però, il nodo spirituale che li aveva tenuti avvinti per tanti anni, si era ad un tratto sciolto e la silenziosa tragedia di quel fuggevole istante doveva pesare per sempre sulla vita del novello Prometeo. Poi anche il suo ritratto, l’opera titanica nella quale aveva per quattro anni macerato l’anima nel silenzioso studio di palazzo Soderini in riva all’Arno, lo abbandonò. Il ricordo di lei rimase però quanto mai vivo, presente ed allucinante. Nella solitudine che lo circondava, la memoria della scomparsa tornava, forma incorporea, visione magica, ossessionante resurrezione, ad evocarsi con gesti armoniosi, con atteggiamenti delicati, con l’enigma dell’affascinante sorriso. Poi quelle visioni svanivano, lasciandolo con la dolorosa realtà e col tormentoso mistero della sua sparizione.

    Il 22 maggio 1519, assistito dal fedele discepolo Francesco Melzi, chinato il capo sulla spalliera della sedia, dolcemente il gigante moriva. Il ciclo di quella titanica vita si chiudeva, ma egli lasciava dietro di sè, come fulgida cometa, una luce potente che ancor oggi illumina ed affascina le umane genti.

    Alle feste nuziali mancava la regina Claudia. Frutto del matrimonio di Luigi XII con Anna di Bretagna,[12] dal padre vecchio e dalla madre malaticcia e claudicante aveva ereditato un viso pieno di mesta soavità, una salute malferma ed una leggera zoppia. Il motto che si era scelto, «candidior candidis»,[13] rispondeva pienamente alla purezza dell’anima sua, che passò immacolata a traverso il fuoco delle passioni che bruciava nella voluttuosa corte dei Valois.

    Era a letto per il recentissimo parto del secondogenito Enrico duca d’Orléans,[14] il futuro marito della creatura che stava appunto per essere concepita in quegli stessi giorni, fra quelle medesime mura, da Lorenzo de’ Medici e da Maddalena, nel prezioso letto benedetto dal papa. Il destino tesseva una trama ben originale nelle limpide notti che avvolgevano il castello d’Amboise.

    In sua vece gli onori di casa erano fatti da Margherita d’Angoulême, la perla dei Valois, la Marguerite des Marguerites, la Marguerite des Princesses, la beneamata sorella di Francesco I, la creatura femminile più rappresentativa forse del Rinascimento francese.[15] Nata nel 1492, fin dalla prima giovinezza nutrì la mente della calda linfa degli studi classici. Conosceva l’italiano, lo spagnolo, il latino, il greco e l’ebraico, ciò che le permise gustare Platone, Sofocle, Aristotele e gli altri maggiori autori dell’antichità. Leggeva gli scritti di San Paolo e quelli di Sant’Agostino ed aveva tali nozioni della civiltà ebraica, da poter facilmente risalire col pensiero alle lontane origini dell’epopea biblica. Ebbe «corps féminin, coeur d’homme et tête d’ange» e si sarebbe potuto dire di lei ciò che Voltaire scrisse della sua romantica amica, la marchesa du Châtelet: «Jamais personne ne fut si savante qu’elle et jamais personne ne mérita moins qu’on dit d’elle: c’est une femme savante». Infatti, quale modesto emblema aveva scelto una violetta con lo stelo elevato verso il sole ed il motto: «Non inferiora secutus».

    Influenzata dagli scritti di Platone e da quelli dei Padri della Chiesa, ispirata dai libri di Erasmo da Rotterdam e dalle predicazioni di Lefèvre d’Etaples (i quali furono i creatori della corrente cristiano-evangelica che spianò le vie alla riforma), commossa dalla pietosa attività di Guglielmo Briçonnet, vescovo di Meaux[16] e dalle poesie di Maigret, sintetizzò il suo pensiero religioso nel Dialogo in forma di visione notturna e nel celebre Specchio dell’anima peccatrice.[17] Venne accusata di simpatie per la riforma, ma alla luce di una critica equanime si può affermare che non abbandonò mai la chiesa di Roma, benchè alcuni atteggiamenti del suo pensiero filosofico dessero, specie in quei tempi pieni di passione religiosa, adito a gravi sospetti. Certo che esaminandone le opere, si vede come la sua mente fosse sempre ondeggiante fra improvvise esaltazioni spirituali e tormentata da confuse aspirazioni mistiche verso l’eterna salute e verso l’amore concepito all’infuori della materia; aspirazioni, però, che non riuscivano a distruggere in lei il fondo torbido dell’amore pagano e del desiderio sensuale. Ma in definitiva, condannò sempre l’azione dissolvitrice della riforma e di quelle correnti che miravano a discutere i dogmi ed i problemi teologici già definiti. Sperò invece in un rinnovamento ed in una purificazione spirituale e materiale che restituisse alla coscienza cristiana il suo vetusto e fondamentale vigore etico.

    Sposò a diciassette anni in prime nozze, nel 1503, il duca di Alençon;[18] rimasta vedova nell’aprile del 1525, l’anno seguente passò a seconde nozze con Enrico II d’Albret re di Navarra, da cui ebbe una figlia, Jeanne d’Albret.

    In quei giorni di festa al castello d’Amboise, con suprema grazia presiedeva banchetti, apriva danze, organizzava gioiosi passatempi, portando ovunque il fascino di sua regale persona.

    Quel mondo non era assetato che di piaceri e non chiedeva che affogare la vita nel godimento. Il favoloso periodo del rinascimento inondava uomini e cose con i suoi raggi roventi.

    Il medioevo era tramontato in una profonda crisi morale, religiosa, politica. Da numerosi fenomeni, come da altrettante sorgenti palesi ed occulte, erano scaturiti rigagnoli di fresche acque che avevano lentamente e silenziosamente scavato il loro cammino nelle aspre e dure pareti dell’ignoranza, dell’ortodossia e dell’oscurantismo. A poco a poco, nel corso saltellante e scosceso, le acque si erano incontrate e confuse, venendo così a formare torrenti gonfi, rumorosi, travolgenti ed ampi fiumi, mentre la loro azione d’erosione si faceva sempre più estesa e profonda. Strariparono poi dalle rive incapaci di contenerle ed invasero la campagna arida e fredda, dissolvendo la crosta che impediva al sole del pensiero e della ragione di riscaldare e fecondare la madre terra. Infine, dopo che tutto fu sommerso ed intriso, le acque si ritirarono nei loro alvei ed il suolo apparve coperto da un benefico strato di limo fertilizzante da cui, sotto i raggi del primo sole, esplose un’opulenta fioritura.

    Crociati, mercanti e navigatori, nel loro avventuroso cammino avevano scoperto nuove terre e nuove ricchezze, incontrato ignote civiltà millenarie e popoli di razze sconosciute, intravisto panorami talvolta più grandiosi di quelli che erano avvezzi osservare nei limitati confini del vecchio continente.

    Il pensiero umano, dopo essersi macerato ed astratto nell’ossessionante meditazione dei profondi misteri dell’anima, si rivolgeva ora quasi istintivamente ad una serena contemplazione della natura ed all’esame dei suoi fenomeni fisici più salienti. Lo spirito si stava insensibilmente allontanando dalla statica visione del mondo mistico nella quale era vissuto per tanti secoli, per entrare timidamente a contatto con la miracolosa verità di quello reale, sviluppando e dirigendo i suoi impulsi misteriosi verso una vita spirituale libera da ogni catena e servaggio.

    L’orizzonte angusto che aveva rinserrato l’uomo durante il medioevo, che non s’allargava oltre la ristretta ghirlanda delle mura merlate delle città, diventava ognora più ampio, come se l’individuo stesso si sollevasse lentamente dal suolo verso maggiori altitudini da dove spaziare su più vaste regioni, scoprire altre creature, altri paesi, altre civiltà: l’universo. E poichè egli riconosceva sè stesso negli esseri che abitavano oltre i monti ed oltre gli oceani, nelle lontane contrade e nei nuovi continenti, ecco così nascere spontanea in lui l’idea dell’uomo universale.

    Petrarca dall’alto delle terme di Diocleziano intravedeva, a traverso la nebbia del tempo, gli splendori di Roma antica. Quel mondo ormai morto e dimenticato, risorse ad un tratto, emerse e si andò popolando di una folla di artisti, poeti e pensatori che mettendo a nudo le grandiose rovine di tanti secoli gloriosi, portarono alla luce insospettate vestigia di scomparse civiltà che rivelarono ai popoli stupiti e commossi la grandezza della latinità.

    Il primo apparire della stampa nel 1450 a Magonza, non solo permise una più facile e rapida divulgazione del pensiero, ma favori anche la maggiore conoscenza di tutta la ricca ed eclettica cultura greca e romana, mediante la diffusione dei mirabili testi di filosofi, poeti, letterati e statisti, aprendo in tal modo, nuove vie e nuovi orientamenti al pensiero umano.

    La Beltà al primo contatto coi raggi del novello sole, lentamente si svegliò dal lungo letargo nel quale giaceva e si alzò avanti agli occhi estatici degli uomini che affascinati assistevano a quella resurrezione che per loro era natività. Dalle rovine sorse come per incanto tutto un popolo di statue: divinità pagane ed imperatori romani, veneri e gladiatori, fauni e ninfe, che andarono ad animare con l’armonia ed il miracolo della loro bellezza, castelli, palazzi, giardini e ad eccitare la fantasia degli spiriti più eletti e sensibili all’attrazione della nuova religione.

    Sembrava che il mondo pagano si fosse rivestito delle sue forme più perfette per marciare alla conquista di quello cristiano. Non vi fu però lotta cruenta e dopo il primo incontro, gli ideali estetici delle due civiltà, benchè agli antipodi, si accordarono e da allora andarono sviluppandosi su di uno stesso piano.

    Non si dimenticava la Bibbia, ma si leggevano con egual piacere Omero e Virgilio; i Vangeli dei Padri della Chiesa erano apprezzati non meno degli scritti di Platone e la contemplazione del Paradiso dantesco faceva volgere con inconfessato desiderio la fantasia degli uomini alle profumate aiuole dei giardini delle Esperidi. Vi fu, in verità, qualche conflitto, però, almeno nei primi tempi, non si verificò nessun reale contrasto nè intolleranza, ma invece, una convivenza onesta e liberale.

    L’arte, specialmente, agiva con le sue leve invisibili e potenti; l’arte, che senza destar sospetti da parte delle coscienze più ortodosse e timorate poteva entrare nelle chiese, salire gli altari, infiltrarsi nelle inviolate clausure dei monasteri, avvolgere la vita ed avvelenarla col sottile fascino di sua magica presenza e sensuale attrazione. Così i personaggi e le scene della mitologia pagana vennero lentamente a sostituire nelle raffigurazioni sacre, le immagini delle tradizionali rappresentazioni bibliche e cristiane, assumendone anche il leggendario simbolico significato. Epperciò noi vediamo le figure stesse perdere, coi pittori del Rinascimento, i caratteristici aspetti fisici coi quali erano state fin allora fissate sulle tele, incavate, cioè, dalle macerazioni, dalle sofferenze e dai terrori. I teschi macabri si trasformarono in luminose teste femminili, le bocche abbandonarono le impressionanti smorfie di dolore per aprirsi a sorrisi dolci e vermigli, gli occhi lasciarono la fredda estaticità piena di misticismo e di spavento e brillarono di passione e desiderio. I simboli di Cristo e di Dionisio, di Venere e della Vergine si avvicinavano fra loro nelle superbe vette dell’arte, sì che l’occhio umano finiva per unirli in un’unica adorazione, muta, fervente ed entusiasta.

    Eros cantava la sua eterna canzone, mentre le genti s’inginocchiavano avanti le are fumanti del nuovo culto della bellezza, offrendo come sacrifizio la calda linfa della vita, bruciando nei tripodi ardenti tutto l’incenso della loro sensualità. Era la gioia soddisfatta dopo la lunga sofferenza, dopo la corsa affannosa verso la meta ultima e finale: il piacere, che è stato e sempre sarà l’aspirazione più forte e tormentatrice dell’umanità. Era il profondo respiro di sollievo di quegli esseri che nell’esasperata esaltazione dei loro sensi, avevano finalmente realizzato la tendenza atavica dell’uomo verso una vita piena di sole.

    Poichè specialmente le cose belle hanno purtroppo breve durata, così anche i festeggiamenti nuziali finirono e si dovette abbandonare il castello fatato d’Amboise.

    Il re con la corte prese il cammino di Bretagna; Lorenzo si recò con Maddalena in Alvernia per assumere possesso dei domini che ella gli aveva portato in dote.

    Firenze era lontana dal suo pensiero. Non più allarmi, nè tumulti, nè congiure, ma una vita, invece, spensierata e piacevole, una giovane sposa bella ed innamorata, che docilmente si prestava alle sue più strane e lussuriose fantasie, una brillante compagnia di dame galanti e gentiluomini generosi, una succulenta cucina, cavalli veloci e robusti, addestrate mute di cani ed un’abbondante selvaggina.

    Sua Santità, però, insisteva per il ritorno e molto a malincuore il duca d’Urbino prese la via d’Italia. Passando per Parma, Reggio e Modena, giunse a Poggio a Caiano ove sua madre, Alfonsina Orsini, attendeva.

    Il 7 settembre gli sposi entrarono in Firenze che s’era vestita a festa per accogliere onorevolmente i giovani signori.

    Scesero alla dimora dei Medici, in via Larga, che Cosimo, Padre della Patria, aveva fatto costruire da Michelozzo nel 1430. Edificio molto vasto e forse un poco triste, tra il palazzo signorile e la fortezza, che nell’interno però, rivelava il gusto raffinato e le grandi ricchezze della famiglia che per tre generazioni non aveva fatto che raccogliere oggetti preziosi e capolavori d’arte.[19]

    Lorenzo partì subito alla volta di Roma per portare al pontefice i messaggi del re di Francia. Maddalena cominciò ad abituarsi alla nuova vita in terra straniera che, per quanto assai breve, non doveva essere molto felice. Infatti non appena il consorte fu di ritorno, s’ammalò d’un male oscuro che i medici non sapevano diagnosticare. Si parlò anche di veleno. Erano febbri altissime che sopravvenivano improvvisamente e che poi scomparivano. Il malato si rianimava e la vita di palazzo Medici riprendeva il corso normale; feste e maneggi di governo, cacce e spedizioni militari. Vi erano anche spedizioni notturne, ma quelle non erano conosciute da nessuno ed eseguite con la massima segretezza.

    I sensi traviati di Lorenzo si erano ben presto stancati della calma bellezza bionda della giovane sposa «trop belle que le marié», troppo pura ed innocente per poter soddisfare al suo incessante bisogno di sensazioni sempre più acri. La candida opulenza della carne di Maddalena, che la maternità spandeva in ampie rotondità, non rappresentava più alcun stimolo per i suoi nervi esausti. Era quindi ben presto tornato alle donne del suo paese, brune, nervose, passionali, rese sperimentate nelle arti dell’amore dalla licenziosa letteratura del Boccaccio e dell’Aretino. Era infatti diventato l’amante di Bartolomea di Nazi, moglie di Donato Benci e segretamente si recava a cavallo nella villa che ella abitava fuori della città, per rientrare poi solo all’alba, spossato di fatica. Quelle notti invernali erano particolarmente gelide e piovose. Le febbri si succedevano con maggior frequenza e Leone da Spoleto, suo medico, consigliò un cambiamento d’aria; così il malato fu trasportato nella villa di Sassetti.

    L’inverno trascorse triste e monotono, poi, col primo raggio della primavera, sui colli fiesolani, negli orti e nei giardini, la grande orchestra della natura elevò al cielo le dolci note del suo canto d’amore. Gigli e viole, mandorli e peschi stendevano

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