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I personaggi che hanno fatto grande il Medioevo
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E-book336 pagine5 ore

I personaggi che hanno fatto grande il Medioevo

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Info su questo ebook

Streghe e santi, papi ed eretici, scienziati e conquistatori, tutti i protagonisti dell'età medievale

Buoni e cattivi, santi e streghe, cristiani ed eretici: il mondo medievale è fatto di estremi opposti. Così come opposte e diversissime sono le opinioni degli storici sul periodo buio, violento e retrogrado delle crociate e della caccia alle streghe, che molti ormai riconoscono come un’epoca ricca di cambiamenti e innovazioni in campo culturale, scientifico e letterario. Eventi storici di grande portata, provocati da personaggi più o meno noti ma comunque emblematici, che qui troverete divisi a seconda del loro mondo di appartenenza: Occidente, Oriente e Immaginario.
Nel Medioevo vissero papi e condottieri spregiudicati, come Guglielmo il Conquistatore, papa Urbano II, Gengis Khan. Pochi stinchi di santi tra loro - d’altra parte lo sappiamo che non era periodo per anime gentili - ma vi fu anche chi fece della conoscenza il suo scopo di vita: Leonardo Fibonacci, Federico II, Johannes Gutenberg, Francesco Bacone, Avicenna. E poi c’è il Medioevo della fantasia, quello popolato da cavalieri, draghi e principesse: il mondo di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda, di Perceval e del sacro Graal, di Morgana la fata cattiva e di san Giorgio, spauracchio di terribili draghi. Attraverso i ritratti degli straordinari personaggi di allora, questo libro ci consegna uno stupendo affresco di un’epoca affascinante e, a ben vedere, non così lontana quanto si crede.

Da “I cavalieri della tavola rotonda” a Carlo Magno, ogni pagina è una leggenda.

Tra i personaggi:

• Carlo Magno, l’imperatore che voleva scrivere
• Urbano II, il papa che (non) bandì la prima crociata
• Rodrigo Dìaz de Vivar, El Cid della reconquista
• Matilde di Canossa, la grancontessa che amava troppo
• Enrico Dandolo, il novantenne che fece di Venezia un impero
• Riccardo Cuor di Leone, l’uomo nero
• Federico II di Svevia, il crociato scomunicato
• Ruggero Bacone, il frate che credeva nella scienza
• Dante Alighieri, un “volgare” poeta
• Johannes Gutenberg, l’uomo che ha fatto ricca Kate Rowling
• Maometto, il carovaniere che fondò l’Islam
• Avicenna, il filosofo che non capiva Aristotele
• Saladino, il cavaliere musulmano
• Re Artù, il vendicatore bretone
• Perceval, il cavaliere dello spirito
• Vlad III Dràculea, il sanguinario principe di Valacchia


Maria Leonarda Leone
è nata a Roma nel 1978. Laureata in Archeologia medievale alla facoltà di Lettere classiche dell’Università di Pisa, ha abbandonato presto l’archeologia sul campo per dedicarsi completamente alla scrittura. Giornalista professionista, ha collaborato con quotidiani e riviste, tra cui «la Repubblica» e «Medioevo». Attualmente lavora come free-lance per i periodici «Focus Storia», «Biografie», «Focus» e «Focus Extra». Con la Newton Compton ha pubblicato anche 101 donne che hanno fatto grandi 101 uomini e I personaggi che hanno fatto grande il Medioevo.
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2014
ISBN9788854176270
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    Anteprima del libro

    I personaggi che hanno fatto grande il Medioevo - Maria Leonarda Leone

    294

    Prima edizione ebook: novembre 2014

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7627-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Maria Leonarda Leone

    I personaggi che hanno

    fatto grande il Medioevo

    Newton Compton editori

    A Domenico,

    che si è fatto piacere pure il Medioevo

    Introduzione

    Studiosi, sognatori, megalomani, innocenti, coraggiosi, spietati, uomini (molti) e donne (poche): sono i grandi, non sempre arcinoti, personaggi di cui il Medioevo non poteva fare a meno. A rischio di diventare quello che tutti gli storici pro-classicismo sostengono che sia: un periodo buio, lungo quasi mille anni, per convenzione iniziato nel 476 – anno della deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente – e finito nel 1492, con lo sbarco di Cristoforo Colombo in Ame­rica.

    Niente vie di mezzo per l’epoca di mezzo. Un mondo, quello medievale, fatto di estremi opposti: buoni e cattivi, poverissimi e ricchissimi, santi e streghe, fedeli e infedeli, cristiani ed eretici, ignoranti e scienziati. Proprio come estrema è la definizione che ne hanno dato gli umanisti: di periodo confuso, pecoreccio e immobile, in contrapposizione alla perfezione della presunta età dell’oro, l’età classica tornata a rifiorire con il Rinascimento.

    Eppure – ormai è ampiamente riconosciuto – il Medioevo fu un’epoca ricca di cambiamenti: la nascita della religione islamica, lo sviluppo del sistema feudale, la riforma della scuola, la traduzione dei testi arabi e la diffusione di conoscenze mediche e scientifiche, la vittoria della lingua volgare sul latino, la circolazione dei libri resa sempre più ampia e rapida grazie all’invenzione della stampa. E, perché no, anche l’inizio di un filone fantastico che ha segnato il nostro immaginario per secoli, con cavalieri senza macchia, draghi, fate e oscuri vampiri. Senza dimenticare le brutte pieghe della Storia di questo periodo, lasciate dal rovente ferro da stiro della guerra, dell’avidità e dell’ignoranza: le crociate contro i musulmani e i processi alle streghe, la nascita e il crollo di grandi imperi, la decadenza della Chiesa e i tentativi per risollevarla.

    Eventi storici di grande portata, provocati da personaggi più o meno noti ma comunque emblematici, che qui troverete divisi a seconda del loro mondo di appartenenza: Occidente, Oriente e Immaginario, approdi di un viaggio ideale alla scoperta di questo singolare periodo.

    Pochi stinchi di santo tra loro, ma d’altra parte lo sappiamo che il Medioevo non fu periodo per anime gentili: perciò tra il profeta Maometto e santa Caterina da Siena, tra Ruggero Bacone e Johannes Gutenberg, tra san Francesco e Perceval, non mancano violenti condottieri e uomini di religione tutt’altro che pii, come Guglielmo il Conquistatore, che soggiogò l’Inghilterra, papa Urbano II, che secondo la tradizione indisse la prima crociata contro gli infedeli, el Cid Campeador, che fermò l’avanzata musulmana nella penisola iberica, e Gengis Khan, che diede vita all’immenso impero mongolo. E ancora Enrico Dandolo, il doge che a novant’anni suonati conquistò Costantinopoli.

    Ma non tutti i medievali facevano della guerra il loro unico scopo di vita: ecco quindi la povera Benvenuta Benincasa, guaritrice di Modena, che inaugurò la triste storia dei processi alle streghe, Leonardo Pisano, detto Fibonacci, che introdusse in Europa i numeri arabi, l’imperatore Federico II, che fece della sua corte un esempio di integrazione culturale e un primo tentativo di Stato laico, Avicenna, che contribuì allo sviluppo della filosofia cristiana.

    E se anche ci hanno abituato a quelle traumatiche raffigurazioni di crani aperti a martellate, salassi con le sanguisughe e appestati con ferri roventi infilati nei bubboni, ci furono pure dei veri medici, capaci – vedi Albucasi – di usare gli antenati dei moderni strumenti chirurgici.

    Come dimenticare poi quei personaggi fantastici, ma spesso molto reali, padroni del Medioevo della nostra fantasia? Tra gli altri non mancano all’appello Re Artù e i suoi cavalieri, san Giorgio col terribile drago e il crudele Vlad III Dràculea, sanguinario principe di Valacchia che ispirò a Bram Stoker il suo famoso conte vampiro.

    Un viaggio lungo ventotto biografie, per poi accorgerci, alla fine, che a ben vedere il Medioevo è molto più vicino alla nostra epoca di quanto non si creda.

    MARIA LEONARDA LEONE

    Parte prima

    L’Occidente

    Carlo Martello

    È stato il maggiordomo!

    La vittoria di Poitiers, a esempio, fu il coronamento

    fortunato di una strategia errata.

    Andrea Frediani,

    I grandi condottieri che hanno cambiato la storia

    In quel mite pomeriggio d’ottobre del 732, ’Abd al-Rahmān, governatore del territorio che i musulmani chiamavano al-Andalus, la regione iberica al confine con la Gallia meridionale, osservava palesemente preoccupato l’esercito franco in assetto di guerra, schierato a breve distanza dall’accampamento. Ormai si fronteggiavano da dieci giorni, studiandosi a vicenda, mentre i suoi uomini si davano da fare per mettere al sicuro nella vicina Poitiers l’enorme bottino accumulato durante mesi di razzie. Lo spostamento stava richiedendo più tempo del previsto: chissà per quanto ancora i franchi se ne sarebbero rimasti lì fermi ad aspettare. Meglio precederli, se non vogliamo che siano loro a coglierci di sorpresa, si disse il generale omayyade. In fondo, pochi mesi prima, aveva già battuto con facilità il duca d’Aquitania Oddone, a Bordeaux: cambiava poco se, insieme al vecchio nemico, adesso erano schierati anche i trentamila uomini del maggiordomo di palazzo del regno franco, Carlo Martello. Così ordinò ai generali di tenersi pronti per l’indomani.

    Gli avversari si scontrarono nei pressi di Moussais-la-Bataille: al grido di Allāh akbar, Dio è il più grande, migliaia di veloci cavalieri arabi si gettarono sui franchi, che, ben armati, serrarono le fila. A ogni assalto, si infransero contro un muro di ferro, irto di lance: la fanteria nemica non si scomponeva e rimaneva ferma al proprio posto, così immobile da sembrare – dicono le fonti – congelata. Quando poi si passò al combattimento corpo a corpo, armati com’erano i cristiani non ebbero difficoltà ad avere la meglio, mentre Oddone tentava di aggirare il nemico per prenderlo alle spalle e raggiungere l’accampamento dov’era depositato il bottino. Verso le quattro del pomeriggio i musulmani, intenti a combattere, cominciarono a sentire le urla provenienti dalla retroguardia. Molti di loro abbandonarono il campo per aiutare i compagni in difficoltà, ma fu lo sbaglio più grande: il fronte si indebolì ulteriormente e lo stesso ’Abd al-Rahmān cadde. Non appena la notizia si diffuse fra le truppe, i saraceni si ritirarono. Carlo non li inseguì, ben conscio dell’esiguità dei suoi uomini.

    Secondo i cronisti dell’epoca, quella di Poitiers fu una battaglia campale, con migliaia di morti e conseguenze importantissime per tutte le forze schierate in campo, simbolo più alto dello scontro, in Europa, tra cristiani e infedeli. In realtà invece non fu troppo diversa né più eroica di tante altre battaglie del Medioevo: quel combattimento, che a voler essere precisi finì più che altro in un pareggio, pur frenando l’ininterrotta avanzata islamica nelle terre cristiane non fermò le scorrerie saracene in Gallia e neppure nel resto d’Europa. Tanto che, tornati all’attacco nel 735, i musulmani presero Avignone e Arles, costringendo numerosi signori della Borgogna a scendere a patti con loro, mentre Carlo riuscì a cacciarli dalla valle del Rodano solo l’anno successivo.

    Eppure, per quanto anche uno come sant’Isidoro, nella sua cronaca, non avesse dato alcuna sfumatura religiosa a quello scontro – definendo i franchi uomini del Nord e non cristiani – la battaglia di Poitiers finì per diventare il momento topico nella vita del maggiordomo franco, sancendo il suo ruolo di difensore della cristianità. Con grande giovamento di tutti i suoi discendenti pipinidi. A differenza dei longobardi, neoconvertiti ancora oscillanti tra arianesimo e cristianesimo, i membri di questa dinastia apparvero infatti agli occhi del papa i protettori ideali della fede e del pontefice. Perciò il capo della Chiesa li riconobbe guida del popolo franco, alla faccia dei re fannulloni che ancora sedevano sul trono e che, tempo una generazione, sarebbero stati deposti dal figlio di Carlo, Pipino il Breve.

    Per capire la complessa situazione, è necessario fare un passo indietro nei secoli.

    I franchi erano una popolazione barbarica che si era insediata nell’Europa occidentale tra il IV e il V secolo: intorno all’inizio del VII secolo, governati dagli inetti re merovingi, finirono per trovarsi impantanati in una grave crisi. Non era solo colpa dell’inefficienza dei sovrani, ma anche del crescente potere dell’aristocrazia latifondista e del crollo dei commerci nel Mediterraneo causato dall’espansione della potenza araba. Che i fannulloni non fossero in grado o che proprio non volessero affrontare la situazione, poco cambia: il risultato fu che, a partire dalla seconda metà di quel travagliato secolo, i maggiordomi di palazzo (dal latino maior domus) cominciarono ad assumersi le responsabilità e il potere che in teoria appartenevano al re, finendo per farne le veci.

    Non dovete immaginarli nei panni di quei fedeli e imperturbabili capi della servitù, che con impeccabile aplomb britannico si preoccupano di mandare avanti la casa: nella gerarchia franca il maggiordomo di palazzo era il capo dell’amministrazione dei territori del regno e del fisco. Veri sovrani di fatto – ma non di nome – i maggiordomi decidevano autonomamente le assegnazioni di terre e benefici e controllavano direttamente territori vastissimi. Carlo Martello era uno di loro.

    A parte l’irriverente testo di Fabrizio De André sulle prodezze tutt’altro che militari del condottiero franco adescato da una prostituta al ritorno da Poitiers, sull’audace maggiordomo le notizie scarseggiano. Era figlio di Pipino II, maggiordomo di palazzo di tutti i regni franchi e nobile proprietario terriero dell’Austrasia, un territorio compreso tra i fiumi Mosa e Meno, che comprendeva la striscia nordorientale della Francia attuale, quella occidentale della Germania e parte dei Paesi Bassi. Al mondo lo aveva messo Alpaïde de Bruyères, la seconda moglie di Pipino – secondo alcuni si trattava di una sua concubina – intorno al 690, a Herstal, nella provincia di Liegi (odierno Belgio). Fu il primo della famiglia a portare il nome Carlo, che significa coraggioso, mentre il soprannome Martello, che verosimilmente veniva da Martel, piccolo Marte, e rispecchiava il suo carattere battagliero, secondo la tradizione gli venne dato dai cronisti cristiani per eguagliarlo a Giuda Maccabeo, importante condottiero dell’Antico Testamento. Era comunque un epiteto azzeccato, e il ragazzo lo dimostrò presto.

    All’inizio dell’VIII secolo, suo padre riuscì a imporsi anche sulla Neustria – che si estendeva nel Nord-ovest della Francia, tra i fiumi Loira e Mosa – unificando il regno franco, ma nel 714, non appena morì, i nobili ne approfittarono per tornare alla loro autonomia. L’Austrasia cadde allora nelle mani della prima moglie di Pipino, Plectrude, che si proclamò reggente del regno di Neustria e Austrasia per conto del nipotino di sei anni, Teodobaldo, erede del suo defunto figlio Gremoaldo. Per eliminare la concorrenza, l’arzilla nonnina fece imprigionare Carlo, l’unico rimasto a poter seriamente ambire al ruolo paterno di maggiordomo d’Austrasia, con l’accusa di aver ucciso il fratellastro pochi mesi prima. Solo che Plectrude non aveva fatto i conti col maschilismo franco: non potendo accettare che una donna li comandasse, i neustri si ribellarono e nominarono maggiordomo Ragenfrido, il vero assassino di Gremoaldo.

    In Austrasia, nel frattempo, i nobili aiutarono Carlo a evadere: all’età di venticinque anni il giovane uomo assunse il comando degli eserciti dei grandi signori feudali austrasiani. Per prima cosa rivolse le sue forze contro i frisoni che minacciavano i confini franchi, ma non fu un esordio brillante: venne infatti sconfitto e fu costretto a ripiegare nelle Ardenne. Andò meglio però contro i neustri: batté una colonna dei loro soldati nel 716 e l’anno dopo li respinse fino a Parigi. Poté così dedicarsi all’Austrasia, dove riuscì finalmente ad assumere la carica di maggiordomo di palazzo, a impossessarsi dei territori di suo padre e a porre sul trono un nuovo re fantoccio merovingio, per dare almeno una parvenza di ufficialità a tutte le sue azioni (all’epoca non era ancora diventato il paladino del papa).

    In nome del sovrano si occupò della difesa del regno dai barbari – sassoni e frisoni – che lo minacciavano, poi saldò il conto in sospeso con la Neustria: i nobili della regione franca avevano portato dalla propria parte anche il duca d’Aquitania, Oddone, ma Carlo, dopo averlo sconfitto a Soissons nel 719, divenne maggiordomo di palazzo anche della terra che il padre aveva domato a suo tempo. Brillante esempio di nepotismo, assegnò i posti chiave del regno a parenti e vescovi a lui fedeli per potersi dedicare con la necessaria tranquillità a nuove imprese. Martello infatti non smise mai di dedicarsi alla guerra contro i nemici esterni, cioè le tribù germaniche dei frisoni, dei sassoni, degli alamanni e dei baiuvari, stanziati al di là del Reno sul confine con la Gallia.

    Queste popolazioni non dovevano sopportare solo le sue armi, ma anche la smania di conversione religiosa impostagli dal ruolo di difensore della cristianità ottenuto a Poitiers. L’evangelizzazione non fu sempre condotta in modo cristiano: quando, a esempio, i frisoni si rivoltarono all’insistenza degli insopportabili abati franchi, Carlo invase i loro territori, uccise a tradimento il capo dei ribelli ed eliminò ogni forma di paganesimo latente con distruzioni e devastazioni. L’anno successivo, il 735, riuscì a impadronirsi anche dell’Aquitania; quindi, preso evidentemente dall’euforia, decise di spingersi oltre, nella valle del Rodano e nella Provenza, dove si scontrò di nuovo con gli arabi. Anche se non riuscì a conquistare tutte le città che avrebbe voluto, lasciò un brutto ricordo del suo passaggio: per privare gli arabi di qualsiasi punto d’appoggio fece infatti terra bruciata, distruggendo il territorio e molti centri abitati del Midi (il Sud della Francia). Tra le altre, subirono la sua ira Agde, Nîmes, Béziers e Maguelonne. Nel 738 tornò in questa zona e nella Borgogna, marciando direttamente su Lione: pur continuando a essere solo un maggiordomo – non potendosi fregiare di diritto del titolo di sovrano, che suo figlio Pipino il Breve avrebbe invece ottenuto nel 751 – aveva ormai portato tutti i territori franchi sotto la propria autorità. Ma come aveva fatto, da solo, a tenere unito e sotto controllo quel frastagliato regno? Con una grande idea, che era anche il classico uovo di Colombo: dando in gestione le terre, pezzo per pezzo, a cavalieri fidati.

    A differenza dei deboli sovrani merovingi, che donavano le loro terre ai propri sostenitori perdendo così definitivamente sia i possedimenti sia il potere su quegli uomini, Carlo concedeva in usufrutto i terreni ai suoi cavalieri solo per la durata del servizio nell’esercito. Quelle proprietà a tempo determinato servivano ai prodi combattenti per far fronte alle ingenti spese d’equipaggiamento e al mantenimento del cavallo. Armatura, destriero e scudieri pare infatti che costassero il reddito di trenta o quaranta ettari di terra, che Carlo concedeva volentieri, visto che dal benessere dei cavalieri dipendeva tutta la sua forza bellica.

    Eppure, per quanto venga definito il padre del feudalesimo, quello che Martello concedeva non era propriamente un feudum, ma un beneficium, cioè un donativo di terre lavorate da braccianti in cambio di prestazioni militari. Il vassallo – dal celtico gwass, servo o compagno d’armi – si impegnava a giurare fedeltà al suo signore durante una specifica cerimonia: «Berardo di Montdidier davanti a Carlo è venuto / ai suoi piedi si inginocchia, suo uomo è divenuto; / l’imperatore lo bacia, in piedi l’ha rialzato / con una bianca insegna i suoi feudi gli ha dato». Descriveva così una investitura del IX secolo il famoso poeta e giullare francese Jean Bodel di Arras, nella sua Chanson des Saisnes. Il vassallo riceveva tre simboli del beneficium: una zolla di terra, ovvero il beneficio terreno, una lancia, ovvero il beneficio militare, e il vessillo del re, ovvero il beneficio temporale. Da quel momento era tenuto a difendere e assistere il suo signore, che a sua volta si impegnava a rispettare gli obblighi previsti.

    Un paio di secoli dopo, le cose erano già cambiate: innanzitutto la concessione del feudum era diventata ereditaria. Con un’unica condizione da rispettare: che l’erede del vassallo fosse una persona – possibilmente non di sesso femminile – gradita al signore e che pagasse una tassa di successione. Questi nuovi compagni d’armi erano ancora tenuti a prestare giuramento di fedeltà in caso di guerra, ma dovevano garantire anche delle prestazioni speciali che col tempo si fecero sempre più esose. Se all’inizio si trattava esclusivamente di un numero di cavalieri proporzionale alla grandezza del territorio concesso, col tempo finì per includere una serie di corvée decisamente umilianti per chi poco tempo prima costituiva il nerbo insostituibile dell’esercito: si andava dal servizio di guardia al castello a quello di scorta e a ogni più diversa forma di assistenza.

    A un certo punto però i signori si chiesero: Perché farci aiutare, se invece, chiedendo denaro, potremmo comprarci ciò di cui abbiamo bisogno?. Così il vassallo si trovò costretto a sborsare un sussidio finanziario: un anno di rendita più quattro contributi destinati al riscatto del signore nel caso in cui fosse stato fatto prigioniero, all’investitura a cavaliere del primogenito, alla dote della figlia maggiore e alle crociate.

    Neanche a dirlo, oltre al sussidio abbondavano clausole e richieste insolite, che variavano a seconda delle fantasie signorili: uno come il vescovo di Parigi, a esempio, era capace di pretendere dai suoi grandi vassalli di essere portato in spalla durante la consacrazione.

    Tutto questo, comunque, era ancora di là da venire ai tempi di Carlo Martello. Che qualcosa di buono l’aveva fatto in ogni caso: alla sua morte, avvenuta nel 741 a Quierzy-sur-Oise, era riuscito a stringere legami commerciali con il mondo islamico rilanciando l’economia del regno, a dare ai franchi l’appoggio politico del pontefice e, ultimo ma non meno importante, a unificare un regno frastagliato associando la proprietà terriera al servizio politico e militare, evitando che, alla caduta dell’impero carolingio, l’Europa medievale finisse squartata in un’infausta divisione tra signorie indipendenti. Insomma, lasciò tutto in ordine, come solo un abile maggiordomo sa fare.

    Carlo Magno

    L’imperatore che voleva scrivere

    Carlo Magno non avrebbe mai varcato la soglia

    di San Pietro, nonostante fosse Natale, se avesse

    immaginato il tiro che il Papa si accingeva a giocargli.

    Eginardo, biografo di Carlo Magno

    Fu il padre della scuola pubblica, ma non sapeva scrivere. E anche in questo sta la sua grandezza, perché Magno non ci si diventa per caso. Grande in battaglia, fu un valoroso condottiero, che sconfisse longobardi, avari, baiuvari e sassoni, dando vita al Sacro romano impero; grande di carattere, magnanimo con i suoi nemici, tenace in guerra, pieno di iniziativa nell’amministrazione; grande intellettualmente, seppe aprirsi a culture diverse dalla propria e risvegliare l’Europa dal letargo in cui era piombata dopo la caduta dell’Impero romano. Principale protagonista dell’età carolingia, Carlo era figlio del re dei franchi Pipino il Breve e della regina Bertrada.

    Dei suoi primi ventisei anni di vita si sa poco o niente: neppure il suo biografo, Eginardo, che diede al re l’appellativo di Magno, ha voluto raccontarci qualcosa. A fatica gli storici sono riusciti a individuare l’anno in cui morì, l’814, e da lì sono risaliti alla data di nascita: probabilmente era il 742, più precisamente il 2 aprile, se vogliamo prestar fede a un manoscritto dell’abbazia di Lorsch. Può darsi che all’epoca fosse normale non tramandare dati anagrafici – non tanto per la privacy quanto per la scarsa importanza che i franchi davano a queste informazioni – ma le malelingue preferiscono pensare che il motivo fosse un altro: secondo loro, quando Bertrada mise al mondo Carlo ancora non era sposata con Pipino: il loro matrimonio venne celebrato, pare, nel 749. Eginardo avrebbe perciò preferito cancellare il marchio di illegittimo dalla nascita del suo re.

    Per quanto non lo vedessero spesso, Carlo e suo fratello minore Carlomanno furono educati alla guerra e alla vita da cavaliere dal padre: il futuro imperatore si allenava intensamente, sicuro che la forza, la destrezza e il coraggio fossero indispensabili a un uomo virtuoso. Le sue giornate passavano tra esercizi fisici, battute di caccia, lunghe cavalcate e nuotate. In acqua se la cavava talmente bene che diversi anni dopo, quand’era già diventato imperatore, si fece costruire una piscina nella reggia di Aquisgrana (la capitale del regno franco, oggi Aachen, in Germania): vi invitava i suoi figli e gli ospiti, così che, a volte, si trovava a sguazzare là dentro con un centinaio di persone. Ma sicuramente da bambino i suoi sogni non si spingevano tanto in là.

    Il 24 settembre 768, suo padre, fondatore della dinastia carolingia e gran combattente, morì dopo aver diviso il regno tra entrambi i figli: Carlo, incoronato il 9 ottobre a Noyon, si trovò a governare sulla metà nordoccidentale dell’Aquitania, sulla Neustria – la parte più occidentale del regno franco, tra Aquitania e canale della Manica – e sulla confinante Austrasia, al tempo uno dei principali ducati franchi. A Carlomanno, incoronato a Soissons, toccò invece l’altra metà dell’Aquitania, il Sud e l’Oriente della Francia attuale e l’alta valle del Reno.

    I due non andarono mai d’accordo, nonostante i tentativi di Bertrada. Carlomanno era pavido e imbelle tanto quanto Carlo era coraggioso e ambizioso: cosa mai avrebbero potuto dirsi? Il carattere combattivo del Magno si rispecchiava anche nel suo aspetto fisico: alto circa un metro e novanta, era una specie di gigante per l’epoca, di «corporatura massiccia e robusta [...]. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, volto sereno e vivace». Così lo descrisse Eginardo, ma per quanto provasse a renderlo appetibile, Carlo non doveva essere una gran bellezza, col suo «collo grasso e troppo corto», la pancia sporgente e una vocetta stridula che non si sposava affatto con l’aspetto massiccio, sottolineato dal costume nazionale franco. Camicia e mutande di lino sotto una tunica di seta orlata e i pantaloni: Carlo amava vestirsi così e soltanto in due occasioni cedette alla moda romana, su richiesta del papa. Che ci volete fare? Al papa, Carlo proprio non sapeva dire no. E se c’era da guadagnarci qualcosa ancora meglio. Aveva imparato anche questo da suo padre.

    A dodici anni aveva infatti assistito all’incontro sul fiume Isère, nella Francia sudorientale, tra Pipino il Breve e papa Stefano II. Il pontefice aveva affrontato un viaggio lungo e faticoso per incontrare il re dei franchi e chiedergli protezione contro i longobardi. Questa popolazione germanica aveva invaso l’Italia quasi duecento anni prima; avuta la meglio sulle truppe bizantine era dilagata nella Pianurapadana, in Toscana, nell’Umbria meridionale e, più a sud, fino a Benevento; poi, una volta consolidato il regno, forte del potere raggiunto, aveva puntato al Centro Italia. All’epoca di papa Stefano II, il re Astolfo intendeva occupare Roma e farne la capitale del suo regno. Pipino l’avrebbe aiutato a difendere la città di san Pietro?

    Dopo lunghe trattative, l’accordo fu suggellato nel 751, nell’antico santuario di Saint-Denis, vicino a Parigi, con una solenne cerimonia in cui il pontefice, ungendogli la fronte, con l’autorità di Dio consacrò Pipino re dei franchi e «patrizio», cioè protettore dei romani, legittimando tutta la sua discendenza, d’ora in poi l’unica ad avere il diritto di salire al trono franco. In cambio Pipino giurò solennemente che avrebbe difeso i territori del papa, come tutti i suoi successori. E così fece, anche se non ci riuscì in maniera definitiva. Ma adesso Carlo, consigliato da sua madre, si apprestava a venir meno a quel vecchio patto: in nome di una politica di pace, chiese di suggellare la ritrovata concordia con il re dei longobardi Desiderio sposandone la figlia. A nulla valsero le parole del pontefice, Stefano III, che gli ricordava – particolare non del tutto marginale – che aveva già una moglie di nome Imiltrude: Carlo fu irremovibile. Ma, dopo aver spedito la donna di troppo in convento, quando a corte arrivò la futura sposa si pentì subito della decisione: di lei non conosciamo nemmeno il nome, sappiamo solo che era pallida e grassoccia e che certo non colpì i sensi del futuro imperatore. I due si sposarono a Natale del 770: i primi di maggio dell’anno successivo il neomaritino partì per una spedizione in Aquitania, e al ritorno, in inverno, decise di ripudiarla, con la scusa, proposta dai medici di corte, che fosse troppo cagionevole per avere figli. Rimandò la ragazza da Desiderio e la sostituì con la piccola Ildegarda, dieci anni appena, estroversa e sempre di buon umore (seguita, alla sua morte, da altre due mogli e numerose concubine). Infine si premurò di tranquillizzare il papa, confermandogli che, in caso di bisogno, avrebbe potuto contare su di lui contro i longobardi.

    Doveva immaginare che il suo avversario non avesse preso bene il ritorno a casa della figlia: Desiderio, irritato, aveva infatti stretto amicizia con Carlomanno, ben conoscendo i pessimi rapporti col fratello maggiore. Non fece però in tempo a sfruttare la loro inimicizia, perché il suo alleato morì precocemente, nel 771. Carlo fu sveltissimo: riunì i nobili franchi e nella solita abbazia di Saint-Denis – dove nel 741 era stato sepolto suo nonno Carlo Martello – si fece proclamare successore del fratello e unico re dei franchi, lasciando la cognata e i nipoti a bocca asciutta. La vedova e gli orfani trovarono rifugio alla corte del re longobardo, che intimò al papa di riconoscerli come pretendenti al trono franco. Quando Adriano I si rifiutò, Desiderio marciò verso Roma e la strinse d’assedio.

    Dopo Pipino toccava a suo figlio rispondere al ruolo di protettore di Roma e fu la guerra. «Un elmo di ferro copriva la sua testa, maniche di ferro coprivano le sue braccia, una corazza di ferro gli proteggeva il petto e le larghe spalle, aveva una lancia di ferro nella mano sinistra, perché la destra non lasciava mai la sua invincibile spada», dice Eginardo. Era il 773 e, in capo a poco più di un anno, Carlo prese Pavia, dove si era asserragliata la famiglia reale, restituì al papa i territori che gli erano stati tolti, riconoscendo di fatto l’esistenza di uno Stato pontificio, e si sostituì al sovrano nemico, facendosi porre sul capo la corona – indovinate un po’ – di ferro, simbolo del dominio longobardo in Italia.

    Ma non si fermò qui: nel 778 decise di affrontare gli arabi dell’emirato spagnolo di Cordova, per difendere i confini aquitani dalla penetrazione musulmana. Assediò Saragozza, ma non riuscì ad avere la meglio. Anzi, sulla via del ritorno, a conclusione di una spedizione tanto sfortunata, chiuse in bellezza a Roncisvalle, dove le popolazioni basche massacrarono la retroguardia in ritirata, cogliendola di

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