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Lorenzo il Magnifico
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E-book754 pagine11 ore

Lorenzo il Magnifico

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Info su questo ebook

La vita geniale e travolgente di Lorenzo de’ Medici

Lorenzo de’ Medici incarna lo spirito del Rinascimento italiano

Noto per i suoi prodigiosi talenti, la personalità magnetica e la raffinatezza politica, Lorenzo de’ Medici fu al tempo stesso un grande statista, un poeta rinomato e un leggendario mecenate. Seppe circondarsi dei più grandi artisti a lui contemporanei, tra cui Leonardo, Botticelli, Poliziano e Michelangelo. Riuscì a trasformare Firenze nella capitale della cultura d’Europa, ma anche al culmine del suo trionfo non mancarono le contraddizioni: le ineguagliabili vette artistiche e lo squallore dei palazzi affollati; gli eccessi pagani e le prediche di Savonarola; la perfezione ultraterrena della Primavera di Botticelli e il realismo grintoso di Machiavelli nel suo Principe. Incoerenze esemplari sono tramandate anche nella sua vita e nel suo carattere. Un ritratto vivido, colorato e appassionante di un’era caratterizzata da intrighi, fervore religioso e artistico, legata indissolubilmente al nome del Magnifico.

I fasti e gli orrori del principato di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico

«Una meravigliosa lettura per gli amanti della storia e dell’arte del Rinascimento.»
The Boston Globe

«Questo libro ci trasporta nella Firenze del XV secolo. Il risultato è un racconto appassionante dei fasti e della brutale violenza dell’epoca.»
Seattle Times

«La biografia di una città, oltre che quella di un uomo. Il libro riesce a catturare un momento storico con straordinaria chiarezza.»
The Spectator
Miles J. Unger
Si occupa di arte, libri e cultura nelle colonne del «The Economist», ma collabora con il «New York Times» ed è stato editor di «Art New England». La sua grande passione per l’arte l’ha portato a vivere cinque anni a Firenze, sulle tracce delle grandi figure rinascimentali che ama. Attualmente vive a Boston.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822725240
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    Anteprima del libro

    Lorenzo il Magnifico - Miles J. Unger

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    In copertina: Agnolo Bronzino, Ritratto di Lorenzo de’ Medici,

    olio su tela, ~1555/1565, Uffizi, Firenze

    Titolo originale: Magnifico

    Copyright © 2008 by Miles J. Unger

    First published by Simon & Schuster, Inc.

    All rights reserved, including the right to reproduce

    this book or portions thereof in any form whatsoever

    Traduzione dall’inglese di Emanuele Boccianti e Federica Gianotti Tabarin

    Prima edizione ebook: ottobre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2524-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elttronica a cura di Corpotre, Roma

    Miles J. Unger

    Lorenzo il Magnifico

    La vita geniale e travolgente

    di Lorenzo de’ Medici

    marchio.tif
    Newton Compton editori

    Indice

    I. La strada da Careggi

    II. Ritratto di famiglia

    III. Maestro di cerimonie

    IV. La speranza della città

    V. Il paradiso del diavolo

    VI. I giochi della fortuna

    VII. Signore della giostra

    VIII. Un matrimonio e un funerale

    IX. Maestro di bottega

    X. Una vittoria grassa

    XI. Tranquillità domestica

    XII. L’ombra di Roma

    XIII. Sotto il segno di Marte

    XIV. Congiura

    XV. Omicidio nella cattedrale

    XVI. Il pavimento insanguinato

    XVII. Gambetto napoletano

    XVIII. L’ombra si dissolve

    XIX. Il giardino e il frutteto

    XX. Il cardinale e il predicatore

    Epilogo. Lo spirito nell’anello

    Nota sul governo cittadino nella Firenze di Lorenzo

    Albero genealogico

    Bibliografia

    Tavole fuori testo

    Alla memoria di mia madre, Bernate,

    il cui spirito d’avventura è celato in questo libro

    340223.jpg340266.jpg

    I. La strada da Careggi

    È necessario ora che tu sia un uomo e non un ragazzo; 

    sii un uomo nelle parole, nei fatti e nelle maniere.

    Piero de’ Medici a Lorenzo, 11 maggio 1465

    Nella tarda mattinata del 27 agosto 1466 un piccolo gruppo di cavalieri lasciò villa Medici a Careggi e prese la strada per Firenze. Era un viaggio di quasi cinque chilometri dalla villa alle mura della città, lungo un tragitto tortuoso che scendeva tra le colline che si ergevano a nord sopra Firenze. La via era costeggiata da scuri cipressi e odorose siepi di alloro, che fornivano una gradita protezione dal caldo estivo. Di tanto in tanto, tra gli alberi, i cavalieri coglievano uno scorcio dell’Arno che scintillava argenteo alla luce del sole.

    In qualsiasi altro giorno quello sarebbe stato un rilassante viaggio di un’ora o poco più, con la pesante aria agostana che consigliava un’andatura rilassata e le bellezze della campagna toscana che ispiravano risate e chiacchiere tra i giovani cavalieri. «A mio avviso non c’è regione più dolce o piacevole, in Italia o nell’Europa tutta, di quella in cui si trova Firenze», scrisse un visitatore veneziano, «perché Firenze è situata in una pianura circondata da ogni parte da colline e montagne… E le colline sono fertili, coltivate, gradevoli, e hanno tutte bei palazzi sontuosi costruiti senza badare a spese, che sfoggiano ogni tipo di raffinatezze: giardini, boschi, fontane, laghetti con i pesci, piscine e molto altro ancora, in paesaggi che sembrano dipinti»¹.

    Quel giorno però l’umore generale era nero. Gli uomini si guardavano nervosamente intorno, tormentando con le dita i pomoli delle spade. I nodosi ulivi, vecchi di secoli con le loro foglie d’argento, abbracciavano le terrazze scavate sui pendii, e le vigne disposte su file parallele rilucevano di grappoli viola dando alle colline un’ordinata geometria, degna di un affresco di Fra’ Angelico.

    In testa al gruppo c’era un giovane uomo che cavalcava con la disinvolta grazia di un cavaliere nato. Aveva un aspetto distinto, anche se a prima vista non risultava particolarmente attraente. Sopra una corporatura atletica, ossuta e longilinea, c’era un viso tagliato con l’ascia. Il naso era appiattito e storto come se in passato si fosse rotto, e gli conferiva un che da lottatore di strada; la mandibola prominente, che faceva sì che il labbro inferiore sporgesse in maniera minacciosa, non mitigava in alcun modo quest’impressione. Sotto sopracciglia folte dardeggiavano occhi neri che ispiravano più furbizia animalesca che non fine intelligenza. Sulle spalle ricadevano i capelli neri con la scriminatura al centro, fornendo una severa cornice a quei lineamenti irregolari. Perfino un caro amico, Niccolò Valori, fu costretto ad ammettere che la natura fosse stata matrigna con lui in quanto ad aspetto fisico², ma che per quanto riguardava le qualità interiori si era comportata da vera madre amorevole, e sebbene il suo viso non fosse gradevole, egli possedeva una tale dignità da incutere rispetto³.

    Questo volto sgraziato apparteneva a Lorenzo, figlio diciassettenne ed erede di Piero de’ Medici. Sin dalla morte del nonno di Lorenzo, Cosimo, due anni prima, Piero aveva preso le redini del vasto impero bancario dei Medici, posizione che l’aveva reso uno degli uomini più ricchi d’Europa. Ma non era soltanto la ricchezza a rendere il nome dei Medici famoso in tutto il continente. Malgrado non possedessero alcun titolo nobiliare, da chi non era avvezzo agli intrighi della politica locale erano considerati monarchi di fatto dell’indipendente Repubblica di Firenze. La quale, benché piccola paragonata ai grandi Stati d’Europa, sbalordiva il mondo civilizzato per la magnificenza della sua arte e la vitalità della sua vita intellettuale⁴. Non essendo lontane le loro origini popolari, i Medici non badavano a spese per abbellire la città con la speranza che almeno un po’ della sua eleganza desse lustro anche alla sua più illustre famiglia.

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    Villa Medici a Careggi (Miles Unger).

    Era stato Cosimo a sfruttare la sua fortuna apparentemente inesauribile per ottenere una posizione di autorità senza precedenti in città. Sulla sua tomba nella chiesa di famiglia di San Lorenzo furono incise le parole Pater Patriae, padre della patria, attribuite a lui da una popolazione riconoscente per la sua saggia guida e il generoso patrocinio delle istituzioni civiche e religiose della città. Cosimo aveva dominato i consigli di governo con la forza della sua personalità e con la disponibilità ad aprire le sue casse quando la repubblica era a corto di liquidi. I fiorentini, come gli americani di oggi, avevano un salutare rispetto per il denaro, e sembravano ritenere che chi mostrava talento nell’accumulare ricchezze dovesse possedere anche altre virtù meno visibili. Cosimo raramente aveva ricoperto alti incarichi politici, preferendo lasciare ad altri il piacere della vita sfarzosa a Palazzo della Signoria, fintanto che le decisioni importanti rimanevano a lui⁵. Per un certo periodo la riconoscenza dei fiorentini nei suoi confronti fece ottenere al figlio Piero l’alleanza della maggior parte dei cittadini, e fino all’insorgere di problemi in tempi più recenti l’opinione generale fu che tale eminente posizione in seno al reggimento, il regime che di fatto governava Firenze indipendentemente da chi occupasse il palazzo, sarebbe un giorno stata ereditata dal giovane uomo che adesso guidava la sua piccola banda lungo la strada per Firenze.

    Ma quella mattina d’agosto il destino dei Medici e del loro potere sembrava in equilibrio sulla lama di un coltello. L’antica costituzione della repubblica, attraverso cui il governo era stato ampiamente condiviso con i facoltosi cittadini borghesi, era stata messa in pericolo dall’ascesa al potere di questa singola famiglia⁶. Le tattiche spregiudicate messe da loro in atto per assicurarsi e mantenere il potere avevano provocato risentimenti, dal momento che famiglie un tempo fiere si erano viste ridotte a poco più di servitori alla corte dei Medici.

    Ora però un gruppo di uomini ricchi e influenti vedevano una possibilità di contrattaccare. Le varie fazioni che normalmente rendevano tanto vivace la politica fiorentina si erano armate segretamente per mesi. Voci di eserciti stranieri in marcia – uno per ogni fronte dello scontro – amplificavano la paranoia generale fino a dare l’impressione che il minimo incidente potesse innescare una deflagrazione generale.

    Da una parte c’erano i lealisti medicei, la fazione del Piano (così chiamata dal luogo in cui sorgeva il Palazzo de’ Medici, un terreno pianeggiante sulla sponda settentrionale dell’Arno), favorevoli al sistema vigente che a detta loro aveva portato decenni di pace e prosperità. Dall’altra c’era la fazione del Poggio, con al centro il palazzo di Luca Pitti sul colle a sud, che faceva notare come il predominio dei Medici fosse stato comprato a spese della tradizionale libertà del popolo. Le figure di maggior spicco nella ribellione erano ex membri della cerchia ristretta di Cosimo, il cui zelo democratico, non molto evidente fino a quel momento, era stato rinfocolato dall’umiliante prospettiva di dover prendere ordini dal figlio di lui. Pochi di loro in realtà avevano solide credenziali di riformisti. La maggior parte era stata connivente con Cosimo e il suo sistematico indebolimento delle istituzioni repubblicane, ma adesso avevano adottato come motto il grido Popolo e Libertà!.

    Il malcontento per le tendenze dispotiche del governo non era l’unico fattore ad aggravare la crisi corrente. La debolezza percepita del cinquantenne Piero contribuiva ad accrescere un sentimento generale secondo cui il regime non era solo corrotto ma, cosa forse anche peggiore, andava allo sbando. Già prima della morte di Cosimo nel 1464, l’influente Agnolo Acciaiuoli, ora uno dei leader del Poggio, si lamentava che Piero e Cosimo si fossero trasformati in «uomini freddi, che malattie e vecchiaia hanno fatto diventare talmente codardi al punto che evitano qualsiasi cosa possa causar loro guaio o preoccupazione»⁷. I cittadini di Firenze, dirà l’impietoso Niccolò Machiavelli qualche anno più tardi, «in Piero suo figliuolo non confidavano molto, perché, non ostante che fusse uomo buono, non di meno giudicavano… essere ancora lui infermo e nuovo nello stato»⁸.

    Anche molti dei sostenitori di Piero condividevano questa fosca valutazione. Sin dalla sua giovinezza Piero (passato alla storia come Piero il Gottoso), era stato tormentato da quest’infermità di famiglia, che lo rendeva per lunghi periodi di fatto un prigioniero dentro la sua stessa casa. Era una condizione che lo affliggeva non solo nel suo corpo, ma anche nel carattere. L’architetto Filarete scrisse nel suo ritratto biografico del patriarca dei Medici che i malati di gotta in genere sono intolleranti al dolore, risultando quindi piuttosto acidi e bruschi nei modi, invece Piero lo tollerava con la massima pazienza possibile⁹. A Piero mancava anche la capacità del padre di legare con la gente, l’umorismo verace che aveva reso Cosimo caro agli elementi più umili della città (una volta, mosso dall’intento di riformare la dissoluta morale cittadina, Piero chiese a Cosimo di emanare una legge che proibisse ai preti il gioco d’azzardo, ma il padre con il suo spirito pragmatico rispose: «Prima falli smettere di usare dadi truccati»¹⁰). Al contrario, Piero era un esteta e un erudito che non desiderava nulla più di ritirarsi nel suo studio, dove contemplare la sua raffinata collezione di busti, manoscritti antichi e pietre rare¹¹.

    I cittadini si lamentavano che la politica si fosse annidata nella riservatezza di Palazzo Medici su via Larga, invece che in aperti dibattiti nel Palazzo dei Priori, dato che l’infermo Piero era spesso costretto a incontrarsi coi suoi fidati luogotenenti in casa sua o nella stanza da letto. Un uomo così riservato e quieto difficilmente poteva piacere ai pragmatici mercanti di Firenze, che affrontavano la politica con lo stesso vivace spirito con cui entravano nei mercati cittadini, impazienti di comprare e vendere, discutere e negoziare, possibilmente ottenere un vantaggio, ma comunque fare affari e stringere mani, dopo trattative estenuanti benché soddisfacenti per entrambe le parti. Sia nel Palazzo dei Priori sia nel Mercato Vecchio, nel cuore della città, le relazioni di fiducia sviluppatesi da incontri faccia a faccia erano più importanti delle ideologie astratte. Piero era un uomo profondamente riservato, in un mondo che più di ogni altra cosa dava valore al vibrante botta e risposta all’angolo della strada.

    Il suo miglior ritratto contemporaneo è il fine busto di marmo scolpito da Mino da Fiesole¹². L’opera mostra un uomo di bell’aspetto con i corti capelli da patrizio romano antico e occhi riflessivi e attenti. Ma qualcosa di combattivo nel mento pronunciato, una caratteristica trasmessa al figlio primogenito, suggerisce una forza interiore che i suoi contemporanei non sospettavano.

    Una descrizione più approfondita emerge dalle lettere private di Piero, che mostrano un uomo coscienzioso e profondamente attaccato alla famiglia, sempre crucciato per via del loro futuro incerto. Era un marito amorevole e devoto per Lucrezia Tornabuoni, discendente di una delle più antiche casate di Firenze, e la loro corrispondenza rivela un legame insolitamente stretto. Scrisse Lucrezia a Piero in una lettera da Roma che ogni giorno le sembrava un anno quando era lontana da lui¹³; il marito dal canto suo le confessava di aspettare il suo ritorno con infinita brama¹⁴.

    Piero fu anche un padre devoto, benché a volte autoritario soprattutto col figlio più grande, il quale non poteva lasciare la città senza essere inseguito da lettere piene di consigli non richiesti e critiche costruttive. Le lettere di Piero testimoniano a tratti l’orgoglio per le precoci capacità del figlio e il suo bisogno quasi ossessivo di interferire nei più piccoli dettagli del suo comportamento. Gli scrisse una volta mentre il giovane era a Milano per indicargli il comportamento da seguire e da tenere bene a mente; in poche parole gli spiegò che era necessario che diventasse un uomo nelle parole, nei fatti e nelle maniere¹⁵. Lorenzo quasi sempre accoglieva di buon grado la petulanza del padre, anche se talvolta la sua esasperazione era evidente, e a volte rispondeva in modo brusco alle sue continue richieste di informazioni¹⁶.

    I capi della rivolta attuale erano tutti figure di spicco del reggimento, e vedevano la morte di Cosimo come un’opportunità di soddisfare le loro personali ambizioni. Quelli come Agnolo Acciaiuoli, che insieme a Cosimo aveva sofferto l’esilio quando era entrato in conflitto con la famiglia Albizzi allora al governo, per poi ritornare trionfante insieme a lui nel 1434, sentivano che dopo trent’anni di leale servizio alla causa dei Medici il loro momento era giunto. «Sbigottissi Piero, vedendo il numero e la qualità de’ cittadini che gli erano contro», scrisse Machiavelli una sessantina d’anni dopo, «e consigliatosi con gli amici, deliberò ancora egli fare degli amici suoi una soscrizione; e dato di questa impresa la cura ad alcuno de’ più suoi fidati, trovò tanta varietà e instabilità negli animi de’ cittadini, che molti de’ soscritti contro di lui ancora in favore suo si soscrissono»¹⁷.

    Il resoconto di Machiavelli coglie un aspetto della confusione di quei giorni, in cui amici un tempo fidati erano ora sospettati di tradimento. Considerando il formidabile schieramento di individui che ora premevano per un cambiamento, uno scommettitore ci avrebbe pensato due volte prima di puntare qualche soldo sulla causa medicea. Tra essi figuravano cittadini eminenti e rispettati come Luca Pitti che, almeno nella sua testa, era il logico successore di Cosimo; l’abile oratore Niccolò Soderini; Agnolo Acciaiuoli, studioso e amico di Cosimo, le cui opinioni ponderate avevano gran peso tra i suoi concittadini e Dietisalvi Neroni, un abile politico che era un’istituzione nelle cerchie più alte del reggimento.

    In segreti incontri notturni dentro gli edifici sacri della città (la fazione del Piano preferiva il monastero della Crocetta, mentre i loro avversari del Poggio si riunivano nella chiesa della Pietà) gli uomini cominciarono a guardarsi alle spalle, sospettando che chiunque intorno a loro tramasse per rovesciare il governo costituzionale. In un miscuglio tipicamente fiorentino di sacro e profano, le ferventi preghiere alla Vergine erano spesso seguite da grida che esortavano alla rivolta e al caos.

    I Medici erano mal preparati, quasi da ogni punto di vista, allo scontro che si avvicinava. La cattiva salute di Piero aveva spinto Lorenzo in una posizione di responsabilità mentre i suoi coetanei stavano ancora completando gli studi o facevano apprendistato nell’impresa di famiglia. Aveva già servito come inviato di suo padre in missioni diplomatiche cruciali, tra cui il matrimonio del figlio di un re e un’udienza presso il papa appena eletto. Poche settimane prima era tornato da un viaggio all’estero per presentarsi a Ferrante, re di Napoli; un incontro nel quale il sovrano gli aveva rivolto molti complimenti, che Lorenzo riferì orgoglioso al padre¹⁸. L’importanza per i Medici di questi contatti con i grandi signori d’Europa è suggerita dalla smania di Piero di avere notizie sull’incontro. Il tutore e accompagnatore di Lorenzo, Gentile Becchi, scrisse un resoconto entusiasta del comportamento del giovane di fronte al re. Piero ammise di averlo letto tre volte, tanta era la contentezza e la soddisfazione provata¹⁹. I rapporti con i sovrani procurarono a questa famiglia di banchieri il prestigio tanto agognato, benché una tale ascesa sociale, se perseguita con troppo accanimento, poteva anche provocare le gelosie dei loro pari, che sentivano di essere stati lasciati indietro²⁰.

    La crisi incombente avrebbe richiesto a Lorenzo una serie di capacità di tipo differente rispetto a quelle che aveva di recente messo in pratica alle corti dei grandi signori. Piero, ormai prossimo al ritiro dalla vita politica, aveva bisogno che Lorenzo agisse come il volto pubblico del regime, il centro carismatico di una burocrazia altrimenti senza colore²¹. Nei preparativi per lo scontro imminente era spesso a Lorenzo, invece che al sofferente Piero, che gli uomini si rivolgevano per offrire la loro lealtà. Marco Parenti, un mercante di stoffe dai modesti mezzi, le cui memorie ci forniscono una testimonianza di prima mano degli eventi di quei mesi, racconta come le campagne si fossero andate armando nei giorni che precedettero la crisi di agosto. Egli parla di duemila cavalieri bolognesi leali al duca di Milano, segretamente investiti per essere a disposizione di Piero. I Serristori, signori con un gran seguito nel Valdarno, organizzarono con Lorenzo una grande spedizione di pesca sull’Arno e molte grandi feste, dove si raccolsero i paesani e i loro signori, i quali, volenterosi di mostrarsi servi leali di Piero, si incontrarono tra loro e giurarono fedeltà a Lorenzo. E così fu fatto in altri posti, con altri paesani e uomini che, se chiamati, sarebbero velocemente accorsi in armi²².

    Il fatto che coloro che si inginocchiavano fossero spesso rozzi paesani e il loro signore fosse il figlio di un banchiere dà alla faccenda un tipico sapore fiorentino, ma è chiaro che Lorenzo avesse già iniziato ad assumere alcuni dei tratti di un principe feudale.

    L’importanza di Lorenzo però era di fatto un segno di debolezza nel campo dei Medici. I fiorentini consideravano la gioventù una condizione sfortunata e ritenevano che questi giovani – termine che si utilizzava indistintamente per tutti i giovani uomini, compresi quelli sulla ventina ancora non soggiogati dal matrimonio – fossero, come l’intero genere femminile, essenzialmente irrazionali e in balia di istinti primordiali. Finora Lorenzo aveva dato ben pochi segni di essere migliore dei suoi pari, essendosi costruito una meritoria reputazione come persona stravagante. Per i leader della fazione del Poggio una dimostrazione di forza, ora che il padre era infermo e il figlio non era ancora adulto, sarebbe andata a loro vantaggio. Jacopo Acciaiuoli, figlio di Agnolo, che aveva assistito all’incontro tra re Ferrante e Lorenzo, commentò rivolto al padre come molti faticassero per far sì che i loro figli fossero conosciuti, quando avrebbero fatto meglio a sforzarsi per il fine opposto²³. Al di sotto della frecciata velenosa c’è un messaggio più significativo: che né il padre malato né lo strambo figlio costituissero una seria minaccia. I giorni successivi avrebbero messo alla prova questo suo giudizio.

    Effettivamente non c’era nulla nella biografia di Piero o di Lorenzo che incutesse paura in un avversario. Riferisce lo storico Francesco Guicciardini (1483-1540), di solito buon osservatore della natura umana, come Piero non possedesse la saggezza e le virtù del padre, pur essendo un uomo molto clemente e di buona indole²⁴. Un cuore gentile però non era necessariamente un vantaggio nello spietato mondo della politica fiorentina; durante i secoli di sanguinosi tumulti che sporcarono la storia della città di san Giovanni Battista, gli uomini vocati alla santità si facevano notare per la loro assenza.

    Nonostante la tensione crescente, il 27 agosto sorse in un’atmosfera di calma ingannevole. Le elezioni per la nuova Signoria dovevano tenersi il giorno successivo e i cittadini di Firenze, la grande maggioranza dei quali desiderava solo tornare a occuparsi delle proprie faccende quotidiane senza esser disturbati dai litigi dei loro signori, erano cautamente ottimisti sul fatto che i leader delle fazioni antagoniste si fossero ritratti dall’orlo del baratro. Solo il giorno prima Piero e la sua famiglia avevano lasciato Firenze diretti alla loro villa di Careggi, cosa che mai gli sarebbe passata per la testa, se avesse ritenuto imminente uno scontro. Se fossero precipitati gli eventi chiunque fosse rimasto al di là delle mura cittadine poteva ritrovarsi tagliato fuori in un attimo. Proprio un errore simile era quasi costato a Cosimo la sua vita, trent’anni prima. Approfittando della sua temporanea assenza dalla città, il governo presieduto al tempo dalla famiglia Albizzi decise di muovere contro il suo rivale troppo potente. Al ritorno a Firenze Cosimo fu arrestato, minacciato di morte e infine mandato in esilio. Difficilmente suo figlio avrebbe potuto dimenticare quella lezione, ovvero che allontanarsi dalla città in un momento di tensione poteva condurre alla disfatta.

    La cosa strana era che a persuadere il leader dei Medici a prendersi quella vacanza era stato Dietisalvi Neroni, uno dei capi della fazione del Poggio, promettendo che anche lui si sarebbe ritirato nella sua villa, diminuendo così le probabilità che si arrivasse a uno scontro violento tra i loro seguaci in armi²⁵. Era in apparenza un gesto da uomo politicamente responsabile, che consentiva al processo democratico di andare avanti senza interferenze.

    Il fatto che Piero avesse accettato suggerisce una malriposta fiducia che la situazione volgesse a suo vantaggio, e c’erano effettivamente dei segni che indicavano la ripresa della fortuna della fazione medicea, la quale aveva subito una battuta d’arresto durante l’inverno²⁶. Ma il fattore decisivo potrebbero essere state semplicemente le avverse condizioni di salute di Piero; pochi giorni prima un attacco di gotta lo aveva confinato a letto, rendendogli quasi impossibile dedicarsi a questioni importanti. Così, quando Neroni aveva offerto il suo ramo d’ulivo lui era stato ben contento di accettarlo.

    Piero non era riuscito a giudicare correttamente Neroni, la cui inclinazione per l’inganno era a quanto pare così forte da esser capace di mantenere relazioni cordiali anche con l’uomo che bramava di distruggere. Piero, non proprio un abile giudice d’uomini nei suoi momenti migliori e ora distratto dal dolore alle giunture, si concesse di farsi convincere dal gesto conciliatorio di Neroni. «Per celare meglio lo animo suo», spiega Machiavelli, «[Neroni] vicitava Piero spesso, e ragionavali della unione della città, e lo consigliava»²⁷. Benché Piero sapesse che il suo collega di un tempo aveva quantomeno flirtato con l’opposizione²⁸, Neroni fu capace di convincerlo di essere un uomo di buona volontà che poteva avere una moderata influenza sui suoi compagni riformisti.

    Machiavelli dipinge Neroni come uno stratega senza scrupoli disposto a distruggere il suo vecchio amico pur di fare ulteriormente carriera, ma nel suo caso, come in quello di tutti i leader della rivolta del 1466, è difficile districare motivazioni egoistiche da genuino idealismo. Neroni sembra effettivamente aver posseduto qualche inclinazione repubblicana, sebbene non sia chiaro se provenissero da posizioni di principio o dal pratico calcolo che avrebbe fatto più strada come campione del popolo che non come lacchè dei Medici. Essendo stato nel 1454 Gonfaloniere di Giustizia, ovvero capo del governo cittadino, egli era già un sostenitore della riforma democratica, e aveva conquistato, stando a una fonte del tempo, grande benevolenza tra il popolo²⁹. E nel 1465 aveva scritto al duca di Milano facendogli notare che la sua cittadinanza desiderava maggiore libertà e un governo più ampio, così come si addiceva a città repubblicane quali erano le loro³⁰.

    Ma più che altro Neroni prosperò come leale servitore del regime dei Medici. Non si sa quando le differenze ideologiche si combinarono con le ambizioni frustrate spingendolo a rivoltarsi contro i suoi precedenti alleati, ma già nel 1463 l’ambasciatore riferiva da Milano al suo superiore che Cosimo e i suoi uomini non avevano nemico più serio o più ambizioso di Dietisalvi Neroni³¹. Nonostante queste avvisaglie, al tempo della morte di Cosimo nel 1464, Neroni era ancora uno dei più stretti consiglieri di Piero.

    Il primo fronte d’attacco di Neroni, riporta Machiavelli, consisteva nell’architettare il collasso finanziario di Piero. Egli descrive come Piero si fosse rivolto a Neroni in cerca di consiglio dopo la morte di Cosimo, ma «[sic]come quello che più lo strigneva la propria ambizione che lo amore di Piero o gli antichi benifizi da Cosimo ricevuti», Neroni gli diede un consiglio, «ma sotto a quello era la sua rovina nascosa»³². Tale consiglio comprendeva la restituzione di tutti i prestiti concessi da Cosimo – spesso a condizioni favorevoli e più per convenienza politica che finanziaria – una mossa che provocò una serie di bancarotte e ingrossò la lista sempre più lunga dei nemici di Piero.

    Ma nonostante gli sforzi del suo rivale Piero riuscì a gestire la crisi finanziaria e nel 1466 Neroni cominciava a stancarsi delle mezze misure. Guicciardini dà a lui il ruolo decisivo nel tentato golpe, spiegando come fosse stato causato in gran parte dalla sua ambizione. Lo storico ci fa sapere che Neroni era molto astuto, molto ricco e tenuto in grande stima; ma non contento dell’alto status e della reputazione di cui godeva, si mise d’accordo con Agnolo Acciaiuoli, altro uomo di grande autorità, e pianificò come spodestare Piero de’ Medici³³.

    Mentre Piero e la sua famiglia si dirigevano a Careggi, Neroni e i suoi alleati si preparavano a prendere il governo con la forza.

    Per generazioni Careggi, coi suoi campi e le tranquille strade di campagna, era stato per la famiglia Medici un rifugio dagli affanni cittadini. Cosimo aveva comprato per il filosofo Marsilio Ficino una modesta fattoria a Montevecchio, poco distante, in modo che il suo amico potesse completare il lavoro della sua vita, la traduzione di Platone dal greco al latino. Scrisse una volta Cosimo a Ficino di essersi recato nella sua tenuta a Careggi, ma con l’intenzione di coltivare la mente e non il terreno, e con l’occasione esorta il filosofo ad andarlo a trovare il prima possibile, portando con sé il libro di Platone sul Bene Ultimo, non desiderando nulla più di sapere quale sia la via che conduce più sicuramente alla felicità³⁴. Anche Lorenzo apprezzava la compagnia del filosofo, e più tardi negli anni avrebbe tenuto a Careggi quei raduni informali di studiosi e poeti che gli storici nobilitarono con l’etichetta forse un po’ fuorviante di Accademia neoplatonica, poiché trovava l’aria di campagna uno stimolo ideale per le riflessioni profonde.

    Quel giorno però la villa di Careggi non forniva alcuna scappatoia dai problemi della città. La famiglia aveva appena cominciato a sistemarsi quando la pace del mattino venne infranta dall’arrivo di un cavaliere al cancello³⁵. Il messaggero, con il cavallo sfinito da ore di corsa sfrenata, i vestiti e la pelle anneriti dalla polvere, annunciò che lo mandava Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, con un messaggio urgente per il padrone di casa.

    Fu sufficiente la provenienza del messo per far suonare il campanello d’allarme. L’antica città universitaria di Bologna era situata strategicamente vicino ai valichi sugli Appennini, in modo da tenere d’occhio chiunque arrivasse dalla tumultuosa Romagna; da lì un esercito che fosse sceso sulla Toscana da nord sarebbe stato facilmente avvistato. Bentivoglio era solo uno dei tanti alleati dei Medici sparsi per tutta Italia e oltre, che tenevano occhi e orecchie aperti per qualsiasi brandello di informazione potesse tornare utile ai loro amici a Firenze.

    La lettera di quel mattino portava notizia che le spie di Bentivoglio nel paese di Fiumalbo avevano visto ottocento tra cavalieri e fanti, sotto la bandiera di Borso d’Este duca di Modena e marchese di Ferrara, che marciavano in direzione di Firenze. Per lo stupefatto Piero il loro obiettivo era chiaro: unirsi ai nemici dei Medici in città e rovesciarli.

    Anche se il messaggio di Bentivoglio non è sopravvissuto, il suo contenuto è riassunto in una lettera scritta quello stesso giorno da Nicodemo Trincadini, l’ambasciatore milanese a Firenze. In essa egli informa il suo signore, Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, che Piero aveva ricevuto lettere dal reggimento di Bologna e che i soldati del marchese di Ferrara erano già in movimento verso Firenze su invito dei nemici di Piero, con i cavalli e i cavalieri di Bartolomeo Colleoni³⁶.

    Per mesi i leader del Poggio erano stati in stretto contatto con Borso d’Este, un signore dell’Italia settentrionale i cui progetti di gloria dipendevano da un cambio di governo a Firenze. Nel novembre del 1465 l’ambasciatore milanese aveva riferito al suo signore che un agente di Borso, messer Jacopo Trotti, ogni giorno incontrava Luca Pitti, Agnolo Acciaiuoli e Dietisalvi Neroni³⁷. Dal momento che Piero era tenuto ben informato su queste macchinazioni da Trincadini, è singolare che si facesse attirare fuori città in un momento tanto critico.

    Se le motivazioni dei fiorentini ribelli erano un misto di idealismo e interesse personale, quelle di Borso d’Este non avevano ambiguità. Descritto da papa Pio ii nelle sue memorie come uomo di fisico aggraziato e altezza superiore alla media, con bei capelli e un viso gradevole, Borso d’Este era anche eloquente e garrulo e si ascoltava parlare come se volesse piacere più a se stesso che ai suoi interlocutori³⁸. Malgrado la sua eccessiva autostima, era ben poco diverso da tutti gli altri principi di minor conto che vendevano i loro servizi militari al miglior offerente, né il suo debole per i gioielli costosi, la sua arroganza e la sua falsità – altre caratteristiche annotate da Pio ii – lo facevano spiccare in mezzo ai suoi pari.

    Tecnicamente un vassallo del papa, Borso era sempre in cerca di modi per espandere i territori di famiglia a spese dei suoi vicini. Un importante passo della sua campagna era la rimozione dei Medici, strettamente legati al suo principale rivale a nord, la potente famiglia Sforza di Milano. A giugno il suo portavoce a Firenze aveva contattato Luca Pitti per suggerire la rimozione di Piero dalla città³⁹. Servirono quasi due mesi di trattative, ma alla fine di agosto i capi della fazione del Poggio avevano deciso di allearsi con l’avventuriero mercenario, invitando a «fare venire il marchese di Ferrara con le genti verso la città; e morto Piero, venire armati in Piazza, e fare che la Signoria fermassi uno stato secondo la volontà loro»⁴⁰.

    Piero aveva enormemente sottovalutato la risolutezza dei suoi nemici, ma adesso si mosse rapidamente per correggere la situazione. Per prima cosa spedì di corsa una lettera urgente a Galeazzo Sforza⁴¹, chiedendogli di inviare le sue truppe, un migliaio e mezzo delle quali erano di stanza a Imola, in Romagna, circa ottanta chilometri più a nord, per intercettare quelle di Borso. Disperatamente in cerca di amici più vicini a casa, Piero dettò una seconda lettera ai capi della città di Arezzo, pregandoli di inviargli quanti più uomini e il prima possibile⁴².

    Anche più importante era il compito di mobilitare le forze alleate ai Medici all’interno della città. Gli eserciti stranieri potevano porre il loro considerevole peso alle spalle di una fazione o dell’altra, ma vittoria e sconfitta sarebbero state determinate in gran parte da ciò che succedeva entro le mura cittadine. Lì i ribelli avevano maggiore vantaggio. Piero, dolorante al punto da potersi muovere solo su una lettiga, avrebbe impiegato ore per arrivare in città, tempo che gli insorti potevano usare per preparare il campo di battaglia e decidere le modalità dello scontro.

    Fu così che Lorenzo si trovò quel mattino agostano a tornare di corsa a Firenze, accompagnato solamente da pochi compagni giovani e inesperti quanto lui. La sua missione era di precedere il grosso del convoglio e alzare la bandiera medicea a Firenze, assicurandosi al contempo che le porte restassero in mani amiche abbastanza a lungo da permettere a Piero un rientro sicuro. Mentre il capo della famiglia si apprestava al suo lento e doloroso viaggio verso Firenze, il fato del reggimento dei Medici restava affidato nelle mani di un ragazzo di diciassette anni.

    Lorenzo tenne la guardia alta dal momento in cui lasciò il complesso fortificato di Careggi. La campagna che attraversava gli era familiare come le strade vicino al Palazzo de’ Medici in città, e le file di colline e i boschi cedui pieni di selvaggina, luogo di tante spedizioni di caccia, erano per lui una costante fonte di gioia. Quel giorno però il paesaggio che amava sembrava minaccioso. Ogni muretto di pietra e ogni capanno era un possibile nascondiglio, ogni macchia d’ombra un’occasione per un’imboscata.

    L’aria era pesante e immobile mentre i cavalieri avanzavano cauti lungo la strada serpeggiante. Piccole lucertole guizzavano via nel sottobosco e i falchi volavano alti in cielo. Giunto quasi alla fine del viaggio, con le mura della città visibili in lontananza di fronte a lui, Lorenzo fermò il gruppo. Davanti a loro c’era un piccolo villaggio di nome Sant’Antonio (o Sant’Ambrogio) del Vescovo. Poco più di qualche casa luccicante sotto il sole estivo, niente di minaccioso in quel paesaggio rustico. Eppure Lorenzo aveva motivo di essere diffidente. Il villaggio doveva il suo nome all’arcivescovo di Firenze, la cui residenza estiva era annessa a una piccola cappella del luogo. A quel tempo in carica era Giovanni Neroni, fratello di Dietisalvi (il suo sacerdozio gli sarà stato di ben poco conforto: durante il Rinascimento italiano la tonaca di un vescovo era quasi sempre il costume di un faccendiere politico con una daga infilata nella cintura, piuttosto che quello di un semplice uomo di Dio). Sapendo del tradimento di Neroni, Lorenzo era conscio che attraversare il villaggio, cosa normale nel suo tragitto dalla villa alla città, voleva dire andarsi proprio a infilare nella tana del leone.

    Fu allora che fece segno a uno dei suoi di restare indietro a una certa distanza, mentre lui e il resto della squadra continuavano sulla strada per Firenze. Quando i viaggiatori passarono accanto ai primi edifici del villaggio, da dietro le mura balzarono fuori uomini armati, che circondarono i cavalieri agitando minacciosamente le alabarde scintillanti al sole. Subito i cavalli indietreggiarono mentre Lorenzo e i suoi sguainavano le spade. Nascosti nell’ombra, altri assalitori caricavano le loro balestre. Nella confusione nessuno a quanto pare si accorse della figura solitaria che voltava la cavalcatura e tornava di gran carriera sui suoi passi.

    L’imboscata di Sant’Antonio del Vescovo resta uno dei più misteriosi episodi negli annali della storia fiorentina. È un puzzle che va ricomposto a partire da singoli frammenti, riempiendo gli spazi restanti con congetture, dal momento che nessun resoconto contemporaneo fornisce più di un breve e insoddisfacente accenno⁴³. Il racconto più dettagliato è quello di Niccolò Valori, che lo incluse nella sua biografia di Lorenzo, scritto una trentina d’anni più tardi. Ma anche questa narrazione solleva più domande di quelle a cui risponde. Secondo Valori fu grazie all’accorto giudizio di Lorenzo, ancorché giovane, che suo padre Piero ebbe salva la vita; sapendo che ad aspettarlo di ritorno da Careggi c’erano molti cospiratori che intendevano ucciderlo, Lorenzo mandò a dire a quelli che portavano il padre in lettiga (incapace com’era per via della gotta di viaggiare in altro modo) di non proseguire sul percorso solito e prendere invece una strada segreta e sicura per tornare in città. Percorrendo intanto la strada consueta, Lorenzo lasciava intendere che suo padre fosse proprio dietro di lui. Ingannando in tal modo i cospiratori, entrambi riuscirono a salvarsi⁴⁴.

    Francesco Guicciardini aggiunge qualche informazione in più, incluso il posto preciso in cui l’imboscata ebbe luogo. Scrive che quando Piero partì per Careggi, i suoi nemici decisero di ucciderlo sulla via del ritorno. Furono posti uomini armati a Sant’Antonio del Vescovo, che normalmente lui attraversava per tornare in città. Potevano servirsi di quel luogo perché l’arcivescovo di Firenze era il fratello di Dietisalvi⁴⁵. Un dato interessante è che Guicciardini ignora il ruolo di Lorenzo nella vicenda, e attribuisce il merito della loro fuga semplicemente alla buona sorte di Piero e dei Medici⁴⁶.

    Lorenzo stesso non fornì mai un completo racconto degli eventi di quel giorno, benché sia possibile che la versione di Valori sia basata sui suoi ricordi. I riferimenti all’imboscata vanno desunti dai suoi criptici commenti o dalle osservazioni egualmente sibilline dei suoi amici. Il silenzio di Lorenzo può essere spiegato con la sua riluttanza a parlare, o perfino ad ammettere l’esistenza, dei molti attentati compiuti contro la sua persona. Nel 1477, quando la sua vita parve nuovamente minacciata da assassini invisibili, egli liquidò un avvertimento proveniente dall’ambasciatore milanese commentando come nessuna congiura contro cui era stato messo in guardia si fosse mai rivelata vera, eccetto quella di Niccolò Soderini⁴⁷. Di conseguenza i traumatici eventi del 1466 appaiono nella corrispondenza di Lorenzo solo nel momento in cui una congiura ancora più pericolosa stava prendendo forma, e in gran parte per far luce sulle minacce correnti. Da quello stesso periodo giunge un’altra lettera suggestiva, scritta dall’amico e tutore di Lorenzo Gentile Becchi. Spronandolo a prendere sul serio le voci sulle minacce alla sua vita, avverte Lorenzo di non ascoltare il consiglio dei nuovi Dietisalvi, capaci di suggerirgli di andarsene a Careggi come accadde con il padre⁴⁸.

    Data la reticenza dello stesso Lorenzo, l’agguato di Sant’Antonio del Vescovo manterrà per sempre un elemento di mistero. Anche la storia raccontata da Valori contiene molti punti non chiari. Perché gli uomini che affrontarono Lorenzo non riuscirono a catturarlo? Perché presero per buona l’asserzione di Lorenzo che suo padre fosse proprio dietro l’angolo, senza quanto meno trattenerlo come ostaggio? Dai pochi accenni di Lorenzo è chiaro che sentiva di essere in pericolo lungo la strada da Careggi a Firenze, ma il racconto di Valori non si conclude con uno scontro violento. Invece, a dar peso alla ricostruzione dell’amico, Lorenzo sarebbe riuscito a confondere i suoi nemici facendo affidamento non sul valore marziale, ma sul pensiero agile e le sue doti di persuasione.

    Si potrebbe essere tentati di liquidare questa versione come non veritiera, se non fosse per il fatto che si conforma perfettamente con quanto sappiamo del personaggio di Lorenzo. Lo scontro a Sant’Antonio potrebbe essere stato forse la prima occasione in cui diede prova di saper schivare i pugnali dei nemici usando solamente la sua innata scaltrezza, ma di certo non sarebbe stata l’ultima. Più volte egli dimostrò una notevole abilità nel cavarsela a parole nelle situazioni più tese. Messo con le spalle al muro e con la vita appesa a un filo, Lorenzo dava il massimo nella sua capacità di convincere gli altri. Un dono che avrebbe esibito per tutta la vita – e che si sarebbe rivelato cruciale al momento di governare, garantendogli le simpatie di persone di ogni estrazione sociale – era il saper adattare il suo linguaggio alle circostanze, passando senza sforzo dagli epigrammi latini con gli studiosi alle volgarità con i manovali dentro una taverna. Il suo vocabolario colorito gli sarebbe tornato utile in questa occasione, ma le sue doti persuasive poco avrebbero ottenuto senza la confusione e i passi falsi che tendono a mandare all’aria anche i piani meglio congegnati.

    Dalla prospettiva fornita dai secoli in cui gli studiosi hanno potuto passare al setaccio le prove con tutta calma, il fatto che a Lorenzo fosse stato permesso di proseguire il viaggio indisturbato sembra un improbabile colpo di fortuna. Ma questo punto di vista distorce i fatti reali. Non c’è dubbio che la naturale astuzia di Lorenzo abbia avuto peso, ma così come ne ebbe la comprensibile perplessità di coloro che avevano ricevuto ordini di catturare suo padre, signore di Firenze, e si ritrovavano ora a dover prendere una decisione su due piedi, senza istruzioni da parte dei loro comandanti. Dopo una breve conversazione, nella quale Lorenzo sicuramente usò un tono lievemente scherzoso per metterli a loro agio, i soldati li lasciarono andare convinti che presto il vero bersaglio sarebbe finito dritto nelle loro mani.

    Mentre quelli aspettavano invano l’arrivo di Piero, Lorenzo e il resto del suo gruppo correvano alle mura della città. Passato l’ampio arco di porta a Faenza, Lorenzo si concesse di respirare più tranquillamente⁴⁹. Quella era terra dei Medici: i quartieri nella parte nordovest della città che secoli addietro si erano riuniti per entrare in guerra sotto l’antico stendardo del Leone Dorato. A ogni angolo volti familiari lo salutavano: mercanti di vino locale, fruttivendoli, pescivendoli e tagliapietre, tutti con un fiero attaccamento al rione in cui erano nati e una lealtà altrettanto fiera per la potente famiglia che viveva in mezzo a loro. Nel suo poemetto, Il simposio, Lorenzo lasciò una descrizione del suo quartiere e della sua gente che riflette una serena confidenza tra le persone umili e il signore della città:

    Ritornavo io verso la mia Fiorenza,

    per riveder la mia alma cittade,

    per la via ch’entra alla porta a Faenza;

    quando vidi calcate sí le strade

    di gente tanta, ch’io non ho ardire

    di poter ben contar la quantitade.

    Di molti il nome arei saputo dire

    perché d’alcuni avea qualche notizia…

    Conobbivi un, col qual grande amicizia

    tenuta avea gran tempo e da fantino

    lo conoscea insino da puerizia⁵⁰.

    Come consigliava il patrizio fiorentino Gino Capponi, la cosa più importante era restare uniti a vicini e consanguinei, aiutando gli amici sia dentro che fuori la città⁵¹. Per secoli gli antenati di Lorenzo avevano seguito questa saggezza fiorentina, sapendo che gli uomini e non le mura forniscono i bastioni più solidi in tempi di disordini civili. Sin dal momento della sua nascita, diciassette anni prima, il padre di Lorenzo aveva preparato il figlio proprio per una crisi come quella, tessendo attorno a lui un’intricata rete di obblighi reciproci, coltivando quelle relazioni tra benefattore e bisognoso, tra mecenate e sovvenzionato, con cui nella politica fiorentina si conquistava il potere. In periodi di instabilità l’abilità di Lorenzo nello sfruttare queste relazioni e nel fare appello alla lealtà dei suoi devoti cittadini – soprattutto vicini, amici e consanguinei, uniti tanto dall’interesse quanto dall’affetto – si sarebbe rivelata vitale per la sopravvivenza della sua famiglia.

    1 Brucker, Florence: The Golden Age, pp. 10-11.

    2 Valori, op. cit., pp. 30-31.

    3 I tratti sgraziati di Lorenzo erano proverbiali tra i fiorentini. Quando Machiavelli descrisse a un amico l’incontro con una prostituta particolarmente brutta, non gli venne in mente insulto migliore di paragonare il suo aspetto a quello di Lorenzo de’ Medici.

    4La popolazione di Firenze raggiunse il picco di quasi centomila abitanti a metà del quattordicesimo secolo, ma dopo la Peste Nera del 1348 si ridusse a meno della metà. Nel quindicesimo secolo probabilmente non raggiunse mai i cinquantamila. I campi e gli spazi aperti che restarono entro le mura cittadine per tutto il periodo della vita di Lorenzo testimoniano il fatto che ci vollero secoli perché la popolazione tornasse ai livelli precedenti la pestilenza.

    5 La sede del governo fiorentino ebbe molti nomi. Palazzo della Signoria fa riferimento al ruolo del campidoglio come casa dell’istituzione governativa più importante, la Signoria, un consiglio di otto uomini che insieme al loro capo, il Gonfaloniere di Giustizia, costituivano il potere esecutivo dello Stato. Questi uomini, eletti ogni due mesi, erano anche chiamati i Priori; per tale motivo il campidoglio fu detto anche Palazzo dei Priori. E i fiorentini spesso si riferivano all’edificio chiamandolo semplicemente Palazzo Vecchio.

    6 Benché la democrazia fiorentina fosse più restrittiva rispetto a quelle odierne nel senso che negava il diritto di voto a molti dei suoi abitanti – tra cui i lavoratori non specializzati che costituivano la maggior parte della popolazione – per altri versi essa era più inclusiva. Coloro che avevano la piena cittadinanza, tra cui molti artigiani e bottegai, erano tenuti a partecipare alle attività di governo, sedendo in uno dei molti comitati e assemblee che si radunavano nel Palazzo dei Priori. I fiorentini non si accontentavano di votare ogni due anni, lasciando che fossero i loro rappresentanti eletti a prendere le decisioni per loro. Anche se un cittadino non figurava in nessun organo decisionale elettivo, poteva esser certo che tra i suoi amici e vicini ce ne fossero molti in posizioni tali da influenzare la sua vita nel bene o nel male. Una caratteristica del sistema politico che si era evoluta durante il Medioevo era l’affidamento sull’estrazione a sorte per le elezioni pubbliche. Venivano effettuati periodicamente scrutini per selezionare tutti i cittadini idonei a incarichi pubblici. I loro nomi erano quindi messi dentro delle borse ed estratti a sorte quando un incarico doveva essere ricoperto. Le cariche più importanti avevano durata breve, in modo che nessuno potesse accumulare troppo potere: nel caso del signore, di fatto il capo del governo cittadino, il termine era di soli due mesi. Era un sistema che garantiva che ogni cittadino avrebbe occupato differenti ruoli pubblici nel corso della sua vita. I Medici controllavano il sistema perlopiù tenendo d’occhio i nomi che finivano nelle borse elettorali e rimuovendo quelli che ritenevano non degni di fiducia (vedi anche la Nota sul governo cittadino nella Firenze di Lorenzo per approfondimenti, nonché i capitoli

    v

    e

    ix

    ).

    7 Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici.

    8 Machiavelli, Istorie fiorentine,

    vii, 5

    .

    9 Filarete, op. cit.,

    xxv

    .

    10Chamberlin, Everyday Life in Renaissance Times, p. 71.

    11Filarete, op. cit.,

    xxv

    .

    12Oggi nel Museo del Bargello di Firenze.

    13Ross, Lives of the Early Medici (da qui in poi Lives), p. 108.

    14Ivi, p. 119.

    15Ivi, p. 94.

    16Lorenzo de’ Medici (da qui in poi Lorenzo), Lettere,

    i

    , n. 7, p. 15.

    17Machiavelli, Istorie fiorentine,

    vii

    , 13.

    18Lorenzo, Lettere,

    i

    , n. 9, p. 19.

    19Trexler, Public Life in Renaissance Florence, p. 431.

    20Così, per esempio, i Medici esibivano con fierezza sul loro stemma il giglio, concesso dal re di Francia, mentre gli altri gareggiavano per il cavalierato e titoli nobiliari stranieri. È tipico dell’ambivalenza fiorentina nei confronti di questi titoli feudali il fatto che, mentre ai cavalieri era data particolare importanza nelle feste e nelle cerimonie cittadine, chiunque fosse stato etichettato come magnate era escluso dalla partecipazione al governo della città. La diffidenza nei confronti dell’aristocrazia ereditaria fu provocata da secoli di violenze perpetrate dalla nobiltà locale.

    21Trexler, Public Life in Renaissance Florence, p. 419 ss.

    22Parenti, Ricordi storici 1464-1467, p. 123.

    23Rochon, op. cit., p. 108.

    24Guicciardini, Storie fiorentine.

    25Phillips, op. cit., p. 246.

    26Machiavelli, Istorie fiorentine,

    vii

    .

    27Ibid.

    28Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici.

    29Ibid.

    30Ibid.

    31Ibid.

    32Machiavelli, Istorie fiorentine,

    vii

    ; Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici.

    33Guicciardini, Storie fiorentine.

    34Ficino, Le divine lettere,

    i.

    35I resoconti del tempo sono discordi sul momento in cui Piero e la sua famiglia arrivarono a Careggi; uno suggerisce che fossero giunti quel giorno stesso, benché ciò risulti improbabile. È più verosimile che si trattasse del giorno precedente.

    36Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici.

    37Ibid.

    38Pio

    ii,

    op. cit.

    39Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici.

    40Machiavelli, Istorie fiorentine,

    vii

    .

    41Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici.

    42Black, op. cit., pp. 217-34.

    43Andre Rochon è tra coloro che dubitano che Lorenzo abbia avuto un ruolo decisivo nella salvezza del padre (vedi La Jeunesse de Laurent de Medicis, specialmente pp. 82-84), sostenendo che sicuramente in questa versione dei fatti ci fosse la mano della propaganda medicea, la cui reticenza è peraltro comprensibile dal momento che la gloria di Lorenzo fu guadagnata a spese del padre.

    44Valori, op. cit., p. 31.

    45Guicciardini, Storie fiorentine. Parenti, che ritenne l’incidente un elaborato inganno, conferma che qualsiasi cosa accadde ebbe luogo a «Sto. Antonio del Vescovo». Phillips, op. cit., p. 192.

    46Nonostante le consistenti prove del tempo, alcuni storici hanno avuto la tendenza a sminuire o contraddire la versione ufficiale dei fatti del 27 agosto 1466. Il principale punto di discordanza è se, come asserirono i Medici, la fazione del Poggio avesse fatto precipitare la crisi chiamando le truppe di Borso d’Este e tentando di catturare Piero a Sant’Antonio del Vescovo, o se invece, come sostenuto dai loro avversari, l’intero evento fosse stato architettato dalla fazione del Piano, per poter schiacciare il movimento riformista. Una ricostruzione contemporanea della congiura ci viene fornita da un certo Iacopo di Niccolò di Cocco Donati, che in quel mese era membro della Signoria, il quale dichiarò che i cospiratori avevano pianificato di assassinare Piero a Careggi (Phillips, op. cit., p. 246). Per inciso, è il racconto di Donati a fornire il dettaglio fondamentale che Piero si fosse recato in villa dopo essersi accordato con Neroni. Il suo resoconto offre una decisiva conferma della versione dei Medici. Un’altra ricostruzione del tempo che sostiene la posizione dei Medici proviene dal diario del farmacista Luca Landucci, un uomo la cui testimonianza è ancor più credibile poiché non aveva alcun tornaconto politico (vedi Landucci, Diario fiorentino). Sono inoltre significative le lettere dell’ambasciatore milanese, che conferma i movimenti dell’esercito di Borso d’Este e la frenetica chiamata alle armi di Piero ad amici e vicini. La confessione del fratello di Dietisalvi, Francesco (due versioni della quale sono riportate ne La confessione di Francesco Neroni e la congiura antimedicea del 1466, in «Archivio Storico Italiano», 1968, p. 126), offre un’importante testimonianza sul coordinamento tra i leader del Poggio e Borso d’Este. La confessione di Francesco conferma anche i punti fondamentali della congiura, benché differisca su alcuni dettagli. Anche le memorie di Benedetto Dei tendono a corroborare la versione dei Medici (vedi la sua Cronica, specialmente 23v e 24r. Per la versione antagonista vedere i Ricordi storici di Marco Parenti. Parenti, benché ardente sostenitore del Poggio, non aveva accesso alla cerchia interna della fazione, che pianificò il golpe. Il suo parere secondo cui le accuse contro i capi del suo partito fossero false era basato più sulla speranza che sui fatti. I ricordi dello stesso Lorenzo sono significativi, anche se vaghi al limite del frustrante. Il successivo comportamento dei leader del Poggio indica che la congiura per assassinare Piero era del tutto coerente con i loro personaggi. È indicativo che i due grandi storici fiorentini, Machiavelli e Guicciardini, che scrissero pochi decenni dopo gli eventi, perlopiù accettassero la versione medicea. Rubinstein è senz’altro nel giusto quando scrive: «Fu probabilmente la paura il fattore decisivo per la crisi finale» (Il governo di Firenze sotto i Medici). Entrambe le fazioni avevano ammassato eserciti stranieri appena fuori dal territorio fiorentino, ciascuna ritenendo che servisse a prevenire un’invasione da parte dell’altra. In queste circostanze la pressione a muovere per primi rubando l’iniziativa all’esercito avversario doveva essere enorme.

    47Lorenzo, Lettere,

    ii

    , p. 413

    .

    48Ivi, p. 276.

    49La strada da Careggi poteva condurlo a porta San Gallo oppure a porta a Faenza, poco più a ovest. Ma era la seconda il naturale punto d’ingresso per chi veniva da Sant’Antonio del Vescovo. La porta a Faenza da tempo non esiste più, demolita insieme a gran parte delle mura del quattordicesimo secolo che un tempo cingevano Firenze a nord, ma la porta San Gallo ancora resiste, e oggi si trova al centro di una piazza trafficata.

    50Lorenzo, Beoni, o il Simposio.

    51D. Kent, The Rise of the Medici Faction, p. 17.

    II. Ritratto di famiglia

    Tale era la nostra grandezza che si usava dire ‘sei come uno dei Medici’, e tutti ci temevano; anche adesso quando un cittadino fa male o abusa di un altro, dicono e se lo avesse fatto a uno dei Medici che succederebbe?. La nostra famiglia è ancora potente in politica grazie a molti amici e molte ricchezze, che Dio ce li preservi entrambi. E a oggi, grazie a Dio, contiamo tra noi quasi cinquanta uomini.

    Filigno di Conte de’Medici, 1373

    Lorenzo nacque il 1° gennaio del 1449⁵², in un periodo in cui i Medici, guidati dal nonno Cosimo, erano saldamente ai vertici della politica fiorentina. La nascita di un erede maschio per il primogenito di Cosimo, Piero, era un evento che non si verificava in quella famiglia sin dalla conquista del potere di quindici anni prima, aprendo la prospettiva, rassicurante per alcuni e preoccupante per altri, di una vera e propria successione dinastica.

    Il suo ingresso sul palcoscenico pubblico ebbe luogo il quinto giorno dopo la nascita, col battesimo dinanzi all’altare di San Giovanni. Qui, nel più antico e sacro edificio cittadino, in cui generazioni di fiorentini avevano profuso ricchezze e talento artistico, Lorenzo compì quello che fu di fatto un debutto politico. Da quel momento sarebbe stato un personaggio pubblico, membro della comunità dei cittadini di Firenze e della più grande comunità dei credenti cristiani, ma al tempo stesso distinto dagli altri, legato a un destino particolare.

    Ad accompagnare il fiero padre dalla casa di famiglia sino al Battistero di San Giovanni quella fredda mattina di gennaio c’erano alcuni dei più illustri uomini della città⁵³. L’arcivescovo di Firenze stesso, il pio Antonino, caro amico di Cosimo, avrebbe fatto da padrino e officiato la cerimonia, aiutato nei suoi sacri doveri da Benedetto Schiattesi, Priore della chiesa medicea di San Lorenzo. Questo accordo rifletteva in termini ecclesiastici la statura politica della famiglia; l’arcivescovo rappresentava l’intera comunità cristiana della repubblica, mentre il Priore di San Lorenzo incarnava la speciale relazione dei Medici con il quartiere in cui risiedevano e che costituiva lo zoccolo duro del loro sostegno politico.

    La partecipazione degli illustri prelati onorava la famiglia, ma ricordava anche alla cittadinanza quanto in profondità fosse penetrato il denaro dei Medici nel tessuto di Firenze. Entrambi gli uomini erano infatti loro clienti. Anche Antonino, uomo largamente rispettato per la sua santità (fu in seguito canonizzato dal papa), era sul libro paga dei Medici; per molti anni Priore del monastero di San Marco, fu beneficiario della munificenza di Cosimo. Quando si lamentava che gli uomini sono avari con le elemosine e preferiscono spendere per cappelle, ornamenti superflui e sfarzi ecclesiastici piuttosto che per aiutare i poveri⁵⁴, si trattava forse di una sottile frecciata diretta al suo amico, che stava riempiendo la città di palazzi con lo stemma dei Medici? Per quanto riguardava Schiattesi, il suo debito con i Medici era anche più lampante. La chiesa di San Lorenzo, situata un isolato a ovest di Palazzo Medici su via Larga, dipendeva così tanto dal patrocinio mediceo da sembrare spesso poco più di un’appendice della residenza di famiglia. Le casate alleate, i Martelli, i Ginori, i della Stufa e, fino alla sua disgrazia, quella di Dietisalvi Neroni, avevano tutte costruito cappelle nella chiesa di San Lorenzo, in una sinergia tipicamente fiorentina tra politica e religione. Così come lo era il modo in cui i Medici usavano la chiesa per aumentare il loro prestigio attraverso il mecenatismo artistico. Assumendo Brunelleschi per progettare la vecchia sagrestia (dove fu sepolto il padre di Cosimo, Giovanni di Bicci) e Donatello per le sculture decorative, stavano trasformando la loro chiesa di quartiere in un monumento che rivaleggiava con la cattedrale stessa.

    A rappresentare l’autorità secolare in questa lieta occasione era l’intera Signoria uscente (nella quale Piero aveva appena servito) e gli Accoppiatori, i membri di una commissione speciale i cui traffici dietro le quinte con le liste elettorali erano vitali per mantenere il reggimento. Agnolo Acciaiuoli, Gonfaloniere di Giustizia uscente e decisamente anche lui uomo di fiducia di Cosimo, era lì per rendere omaggio e con lui c’erano molte personalità chiave del reggimento.

    Altro padrino (per procura) del piccolo Lorenzo era Federico da Montefeltro, governatore di Urbino. Anni dopo Federico avrebbe giocato un ruolo decisamente più sinistro nella vita di Lorenzo, ma in quest’occasione l’importanza dei suoi rappresentanti alla cerimonia era il messaggio ai compatrioti dei Medici che la famiglia poteva vantare potenti amici all’estero. Il prestigio ottenuto da questi tramite sodalizi con re, papi, conti e altri membri della nobiltà feudale fu fondamentale per il consolidamento dell’alleanza con i loro cittadini. Come commentò in seguito un acuto osservatore politico, senza la reputazione e la stima accordatagli dalle potenze italiane e dai signori delle altre città, Lorenzo il Magnifico non avrebbe avuto l’influenza che ebbe in patria⁵⁵.

    02.tif

    Firenze, Battistero di San Giovanni (Miles Unger).

    Il battesimo di Lorenzo fu la prima presentazione pubblica dell’erede dei Medici al popolo di Firenze. Che ci fosse un calcolo politico perfino dietro questo rito così sacro è evidente dal suo tempismo accuratamente studiato: Piero aveva allungato il consueto intervallo di tre giorni tra la nascita e il sacramento per aspettare un più propizio allineamento delle stelle, sfruttando il calendario per far coincidere il battesimo di Lorenzo con la ricorrenza dell’Epifania. Con una mossa astuta ma anche fortunata riuscì a legare la cerimonia al giorno del calendario religioso che più si identificava con il potere e il prestigio della famiglia fiorentina. Per generazioni i Medici erano stati associati con le celebrazioni dedicate ai magi. Spesso fastose processioni, pagate in gran parte dalle loro finanze, sfilavano per la città terminando al convento mediceo di San Marco, che ospitava un presepio.

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