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La vita segreta del Medioevo
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E-book551 pagine8 ore

La vita segreta del Medioevo

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Info su questo ebook

Tutto quello che volevate sapere sul millennio più buio della storia

Come si viveva davvero mille anni fa?

“Età oscura” e “millennio della superstizione” sono solo due delle tante definizioni date, nel tempo, al Medioevo.
Ma questo periodo storico fu davvero “buio” come si è ormai cristallizzato nell’immaginario collettivo? In realtà, la maggior parte degli studiosi del Nuovo Millennio afferma che quel periodo della storia dell’umanità contenga già, in embrione, molti degli aspetti determinanti dell’Europa moderna. Questo libro, lasciando sullo sfondo le grandi vicende militari, gli scontri epocali tra Impero e Papato, i nomi e le date che hanno fatto la Storia e che si trovano sui manuali, cerca di cogliere gli aspetti più insoliti e curiosi dell’epoca: cosa si mangiava, come ci si vestiva, come si impiegava il tempo libero, come si faceva l’amore... Mille anni di storia, dalla caduta dell’impero romano d’occidente (476) alla scoperta dell’America (1492), che hanno plasmato una delle civiltà più ricche, affascinanti e contraddittorie di tutti i tempi.

Come hanno vissuto realmente i nostri antenati?
Frutto di lunghe ricerche, finalmente questo libro ci fa sentire realmente come se ci trovassimo catapultati nel Medioevo.
Sapere cosa mangiavano, come si vestivano, quali erano le passioni degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto, per comprendere meglio uno dei passaggi più importanti della storia della nostra civiltà.

Tra gli argomenti:

• la donna, l’uomo, il bimbo e l’anziano
• in camera da letto
• vestirsi e abbigliarsi
• il viaggio
• la scrittura
• in cucina e a tavola
• paure e terrori
• le malattie
• usanze particolari
• feste e folklore, angeli e santi
• tabù e pogrom
• i reietti
• in chiesa
• contro la Chiesa (l’eresia)
• la morte


Elena Percivaldi
nata nel 1973, è medievista e scrittrice. Ha scritto I Celti. Un popolo e una civiltà d’Europa; I Lombardi che fecero l’impresa. La lega e il Barbarossa tra storia e leggenda. Ha curato e tradotto La Navigazione di S. Brandano, vincitore del Premio Italia Medievale 2009. Collabora con alcune tra le principali riviste di settore come «Medioevo» e ha scritto per la rivista «Civiltà».
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854153288
La vita segreta del Medioevo

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    Anteprima del libro

    La vita segreta del Medioevo - Elena Percivaldi

    99

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l., 

    Roma 

    ISBN 978-88-541-5328-8

    www.newtoncompton.com

    Elena Percivaldi

    La vita segreta del Medioevo

    Come si viveva davvero mille anni fa?

    logonc

    Newton Compton editori

    Ai miei piccoli, Riccardo e Jacopo

    La storia è un grande presente,

    e mai solamente un passato.

    Émile-Auguste Chartier,

    detto Alain (1868-1951)

    Introduzione

    Pochi periodi storici sono stati vittime, nel corso del tempo, di tanti luoghi comuni come il Medioevo. Sul suo conto se ne sono dette di tutti i colori: età oscura, secoli bui, millennio della superstizione e dell’oscurantismo, e via dicendo. Ma fu veramente così oppure si tratta di un colossale pregiudizio?

    Tutto incominciò tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento con l’Umanesimo, nuova corrente filosofica e letteraria che, come dice la parola stessa, intese per la prima volta dopo l’età classica riportare l’uomo al centro del cosmo restituendogli quella dignità che sembrava aver perso. Ovviamente, a finire sul banco degli imputati furono i secoli di predominio di un cattolicesimo che aveva teorizzato una società chiusa, rigida, divisa in tre classi (i famosi oratores, bellatores, laboratores) e informata da un sistema filosofico e religioso in cui tutto, anche l’incommensurabile, era definito e spiegabile ricorrendo comunque alla supremazia della fede sui dubbi della ragione.

    L’odio per il Medioevo come età barbara esplose poi con l’Illuminismo settecentesco: i philosophes, ridando dignità alla ragione svincolata dalla fede, bollarono come retrogradi e antiprogressisti i secoli precedenti inventandosi anche termini dispregiativi che in seguito sono rientrati nell’uso comune. Un esempio per tutti: la parola gotico indica l’arte prodotta nei secoli centrali del Medioevo, che fu accusata dai padri del Neoclassicismo e dell’arte utile alla ragione di essere brutta e deforme, barbara e irrazionale. Non a caso, il termine deriva dal popolo germanico dei goti, che saccheggiò Roma e causò il crollo dell’impero romano.

    Oggi, se pur si accetta ancora la definizione di Medioevo come Età di Mezzo e dunque di transizione tra il mondo antico e quello moderno, non si è più disposti ad accettarne il corollario dispregiativo e denigratorio che lo vuole un periodo di regressione della civiltà, dell’arte e del pensiero della storia d’Europa. La maggior parte degli studiosi, al contrario, considera oggi il Medioevo come la base della nascita dell’Europa moderna, un’Europa di popoli autonomi e politicamente definiti, ma al tempo stesso ben consci di appartenere a un’entità politico-culturale, religiosa e sociale più ampia, che aveva come denominatore comune lo stesso sistema di valori e gli stessi fondamenti religiosi. Basti dire che il termine stesso europeenses (europei) nacque nell’VIII secolo, in pieno Alto Medioevo, per definire le truppe franche che alla guida di Carlo Martello sconfissero gli arabi nella celebre battaglia di Poitiers (732): un chiaro segno di un’identità che andava nascendo e configurandosi in contrapposizione a un’altra, considerata aliena e apportatrice di un mondo e di valori opposti.

    Questo libro vuole lasciare sullo sfondo, per una volta, i grandi fatti militari e gli scontri epocali tra impero e papato, le guerre e i grandi movimenti di popolo, i nomi e le date che hanno fatto la storia e che si trovano sui manuali. Fedele a una linea più divulgativa, ha l’ambizione di portare gli uomini e le donne del Medioevo alla portata di tutti noi, uomini del Duemila, mostrando gli aspetti meno noti ma sicuramente più interessanti della loro vita. Cosa mangiavano? Come si vestivano? Come si divertivano? In cosa credevano? Come facevano l’amore? Che rapporto avevano con la morte? Quali le loro paure e i loro terrori, al di là del fatidico e abusatissimo concetto del Millenarismo? È proprio vero che la loro religiosità era onnipresente e bigotta e rivestiva, a prescindere, ogni momento della giornata?

    Il periodo è lungo – mille anni, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente (476) alla scoperta dell’America (1492). Ma proprio per questo è stato tutt’altro che monolitico. Forse nessun periodo storico è stato anzi così vario, contraddittorio, ricco e affascinante – pur con i suoi momenti oscuri e oscurantisti – di questo. Il Medioevo è una fucina di suggestioni di ogni sorta, capaci di colpire l’immaginario e, magari, restare nella memoria collettiva. Come la celebre descrizione, opera del cronista Rodolfo il Glabro (l’autore peraltro della famosa espressione «Sembrava che il mondo si scuotesse, spogliandosi della sua vecchiaia e rivestendosi di un bianco mantello di chiese»), degli orrori scatenati dalla carestia del 1003: quando non ci furono più animali da mangiare, gli uomini, spinti dai morsi terribili della fame, si arrangiano con carogne e radici e arrivano al cannibalismo («I viandanti venivano aggrediti da gente più robusta di loro e i loro corpi, fatti a pezzi, erano cotti sul fuoco e divorati»), all’infanticidio e alla necrofagia, disseppellendo i morti e cibandosi delle loro carni. Oppure, il famoso episodio in cui Alboino, re dei longobardi, costrinse la moglie Rosmunda a bere in una coppa ricavata dal cranio del padre, che aveva appena sconfitto e ucciso. Ancora, la grande crociata scatenata dalla Chiesa nel 1306-7 contro fra Dolcino da Novara e i suoi seguaci, che – considerati eretici – furono uccisi sul rogo dopo indicibili torture. E poi, tutti i miti e le leggende sorte intorno ai templari e collegati con il Graal e la Sacra Sindone...

    Questo saggio si propone di restituire ai suoi protagonisti carne, ossa e sangue. Mostrando che i nostri antenati, pur così lontani nel tempo, non erano poi così diversi da noi.

    Quanto l’interesse per l’epoca sia sentito lo dimostrano anche le tante sagre e rievocazioni storiche dedicate al Medioevo che fioriscono in tutto il Paese sempre più numerose e coinvolgono migliaia di figuranti, di gruppi storici e di spettatori. La storia, si dice, la fa spesso la gente comune. Aggiungiamo che la gente comune decide anche cosa è interessante e cosa no. Non sempre ha ragione, a volte si fa guidare dalle mode. Ma nel caso del Medioevo c’è qualcosa di più. C’è l’intuizione che esso rappresenti, nel bene e nel male, la fucina delle nostre identità e che sia lì che si debba andare per scoprire le vere ragioni di tanti fenomeni che ci riguardano, oggi, da vicino. Riportare in vita il Medioevo, con le sue storie segrete e nei suoi aspetti poco noti e più curiosi, e stabilire un filo di connessione con il passato remoto, è l’umile scopo di questo lavoro.

    1

    La donna, il bimbo, l’anziano

    La vita media della donna era di circa trentasei anni. Si sposava prestissimo, tra i dodici e i quindici, partoriva molti figli (di cui buona parte morivano in tenera età) e solo il 39% arrivava ai quarant’anni (contro il 57% degli uomini). Angelo del focolare, in genere sottomessa agli uomini (padre, marito, fratello che fosse) e a Dio (dentro o fuori dal convento), aveva scarsa autonomia e subiva per giunta gli strali di una cultura diffusa che la indicava come sentina di ogni peccato, tentatrice e causa di perdizione¹. Nel periodo in cui i regni romano-barbarici si assestano fino a diventare presenze stabili, le donne, però, giocano un ruolo di primissimo piano: sono loro, infatti, che convincono i mariti ancora pagani a convertirsi al cristianesimo. Sono, cioè, il veicolo della normalizzazione tramite la quale i barbari cessano di essere tali e diventano finalmente eredi, in tutto e per tutto, di quell’antica civiltà romana che li affascina, li strega e finisce lentamente – anche se non del tutto – per inglobarli. Due esempi per tutti: Clotilde, che nel 496 convertì il re dei franchi Clodoveo; Edelberga, che nel VII secolo fece lo stesso col re di Northumbria Edwin. Se altolocata, la donna del Mille o sposava un parigrado oppure finiva in convento; se di bassa estrazione sociale, passava la vita a generare figli e a lavorare. Ma in questo quadro apparentemente sconfortante emergono figure contraddittorie e apparentemente fuori dai canoni: Ildegarda di Bingen, Christine de Pizan, Giovanna d’Arco, Matilde di Canossa, Caterina da Siena... Tutto sommato, però, sono eccezioni a conferma della regola generale che vuole la femmina, nel Medioevo, essere prima di tutto moglie e madre. E a proposito di figli, a lungo si è sostenuto che l’Età di Mezzo non possedesse il concetto – che si vuole tutto moderno – dell’infanzia come età a sé con caratteristiche proprie. Ma il cliché, grazie a nuovi studi e a ritrovamenti archeologici, è stato largamente smontato.

    Questione di «mundio»

    I germani demandavano alle donne l’educazione e la cura dei figli. Esse inoltre assistevano i feriti e accudivano i loro uomini e alcune di loro erano profetesse e sacerdotesse. La loro mansione principale, però, era quella di occuparsi dell’economia domestica, della tessitura e della prole. La donna germanica, e longobarda in particolare, secondo un’ottica che sarebbe rimasta preponderante per tutto il Medioevo, era sottoposta al mundio, ossia alla protezione, di un uomo: fino al matrimonio a detenerlo era il padre, poi passava al marito. Non poteva mai, in nessun caso essere selpmundia, ossia padrona di se stessa. Qualora non avesse parenti maschi, il mundio su di lei apparteneva al re. Qualcosa di simile esisteva anche nella Roma repubblicana: la donna era sottomessa infatti all’autorità (manus) di un uomo e con le nozze la patria potestas passava dal padre allo sposo, che acquisiva sulla moglie un potere analogo a quello esercitato sui figli e sugli schiavi. Questo tipo di matrimonio, detto cum manu, fu progressivamente sostituito da quello libero (sine manu), fondato unicamente sul consenso degli sposi. L’età minima per sposarsi era di dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini. E mentre nel matrimonio cum manu solo l’uomo poteva ripudiare la donna, il principio del consenso rendeva legittimo il divorzio consensuale e quello su iniziativa di uno dei due coniugi, cosa che avveniva senza bisogno dell’intervento dell’autorità pubblica. Con l’avvento del cristianesimo, alla legislazione romana si sovrappose una visione etico-religiosa della vita matrimoniale derivata dalla nuova morale. Il matrimonio² era considerato un male necessario per garantire la riproduzione e per tenere sotto controllo l’esuberanza sessuale (era, cioè, un remedium concupiscentiae): era unico, tra un uomo e una donna, e non poteva essere sciolto. Per quanto riguarda il principio del consenso, esso cadde nel dimenticatoio. Fu recuperato per la prima volta nell’866 (citato in un’epistola di papa Niccolò I), ma sarebbe tornato a essere materia condivisa solo nell’XI-XII secolo.

    Ma rieccoci alla donna. Nell’etica germanica, nessuno poteva attentare alla sua vita, né costringerla a fare ciò che non voleva o sottoporla a violenza, pena la perdita del mundio e il suo ritorno ai parenti con i propri beni. Il marito rappresentava la moglie in tribunale e ne amministrava i beni, anche se non poteva alienarli senza il suo consenso. Solo presso i visigoti le donne potevano disporre liberamente delle loro proprietà e, se non avevano figli, lasciarle a chi volevano. In tribunale potevano rappresentarsi da sole e testimoniare, e dopo i vent’anni occuparsi di persona del loro matrimonio. Ma si trattava di un’eccezione.

    Quando i barbari si stabilirono dentro i confini dell’impero dando vita a regni autonomi, mantennero le loro tradizioni ma le integrarono sempre più vistosamente con quelle romane ancora in vigore presso i popoli conquistati. Il risultato di questa integrazione sarebbe rimasto alla base dei contratti sociali per molti secoli, almeno fino al Mille. Le leggi disciplinavano gli aspetti della vita quotidiana, economica e sociale e determinavano anche il ruolo rivestito dalle varie categorie, rimarcando le differenze tra i sessi. La donna era oggetto di molte disposizioni che la tutelavano ma, nel contempo, tendevano a sottolineare la subalternità nei confronti dell’uomo, che esercitava su di essa una potestà molto forte. A cominciare dalle nozze. Era loro richiesto un regime di vita casto e se commettevano adulterio erano sepolte vive. Nell’età più arcaica il matrimonio avveniva in tre modi: o per acquisto della sposa da parte del marito, o per rapimento, o per consenso. Per sposarsi, dapprima si stabiliva un vero e proprio contratto tra il futuro marito e il padre della sposa. L’accordo fissava l’ammontare del faderfio (la dote, versata dal padre) e della meta (il prezzo del mundio, pagato dal marito per riscattarlo). Metà della meta sarebbe restata alla donna in caso di vedovanza. A questo punto si stabiliva la data delle nozze. La mattina dopo la prima notte, la sposa riceveva il morgingab (dono del mattino) dal marito per essere compensata della verginità perduta. Le nozze con una serva erano consentite, ma solo se prima la si liberava.

    Se nelle classi inferiori il matrimonio era sottoposto a pochi vincoli, e in genere le unioni avvenivano rispettando la volontà dei futuri coniugi, per l’aristocrazia e i ceti di governo a prevalere erano gli interessi politici e dinastici. I matrimoni, cioè, erano combinati dalle famiglie per stringere alleanze e salvaguardare (o ampliare) i propri patrimoni fondiari. C’è però un caso che merita di essere citato perché abbastanza fuori dal comune: quello che vide protagonista Teodolinda, futura regina dei longobardi. Di origine bavarese, fu scelta dal sovrano longobardo Autari come sposa per stipulare un’alleanza con il padre di lei, Garibaldo, in funzione antifranca. Narra Paolo Diacono che Autari, desideroso di vedere la promessa sposa, si recò travestito da ambasciatore in Baviera e chiese di poterla ammirare per riferirne le virtù al suo re. Era così bella che chiese a Garibaldo il permesso di ricevere dalla sua mano una tazza di vino, ma nel ridargliela le sfiorò di nascosto col dito la mano e fissandola si passò la destra sul naso e sul volto. Arrossendo violentemente, Teodolinda corse dalla nutrice: lei le spiegò che se egli non fosse stato il suo futuro sposo, non avrebbe mai osato toccarla a quel modo. Di certo, giovane e bello com’era, era degno del trono e di una moglie come lei. Il 5 maggio 589, a Verona, nel campo di Sardi, il matrimonio fu celebrato con sfarzo. Ma dopo solo un anno, Autari morì avvelenato e a Teodolinda fu concesso, caso raro per l’epoca, di scegliere da sé il secondo consorte. Ancora Diacono sostiene che ciò le fu permesso perché «piaceva molto» al suo popolo. Comunque sia, riuniti i suoi consiglieri, optò per Agilulfo, duca di Torino, potente guerriero turingio della stirpe di Anawas. «Era questi», narra Paolo Diacono, «un uomo forte e valoroso e sia di corpo che di animo adatto a governare il regno. Subito la regina gli mandò a dire di presentarsi a lei, ed ella stessa gli andò incontro nella cittadella di Lomello. Quando egli fu giunto, la regina, scambiata qualche parola, si fece servire del vino e, dopo aver bevuto per prima, offrì il resto da bere ad Agilulfo. Presa la coppa, egli baciò rispettosamente la mano alla regina ma lei, sorridendo mentre arrossiva, disse che non doveva baciarle la mano chi doveva baciarla sulla bocca. E così, innalzandolo al proprio bacio, gli annunciò le nozze e la dignità regia». La scelta fu molto felice. Al di là dei particolari romanzeschi risulta evidente che a salvare il regno dalle discordie interne e dai nemici, fornendo una rapida successione, fu il prestigio indiscusso della regina. Il suo comunque fu un caso piuttosto isolato e percepito come straordinario già allora. Per le altre donne, soprattutto se di rango, l’espressione di una propria volontà in merito era considerata un optional. Va rimarcato, però, che nelle leggi germaniche che a lungo costituirono la base dei patti sociali la donna non poteva essere maritata contro la sua volontà, altrimenti il patto era sciolto e il marito doveva pagare una multa di 900 solidi. Si trattava di divorzio? No. L’editto di Rotari non lo ammetteva ancora, e nemmeno il ripudio. Perché fosse lecito – dietro pagamento di una somma di denaro – si sarebbe dovuto attendere solo mezzo secolo, ossia le leggi di Grimoaldo. Ma anche in quel caso, a decretare la fine del rapporto poteva essere soltanto l’uomo.

    Proprietà dell’uomo

    Fino ad allora, se il marito voleva liberarsi della moglie, non gli restava che ucciderla (la multa era alta, ben 1200 solidi) oppure accusarla di adulterio. Nel primo caso, la legge disciplinava meticolosamente anche il destino dei beni portati con sé dalla consorte all’atto delle nozze:

    Se un marito uccide la propria moglie senza che questa abbia colpe e non aveva meritato di essere messa a morte per legge [sic!], paghi una composizione di 1200 solidi metà ai parenti che l’hanno data in sposa e che ricevettero il corrispettivo del mundio e metà al re, cosicché sia costretto a farlo da un agente per conto del re e la suddetta pena sia composta. Se ha avuto un figlio dalla donna, i figli abbiano il morgingab e il faderfio della madre defunta; se non ha avuto un figlio da lei, i suoi beni tornino ai parenti che la diedero in sposa. Se non ci sono parenti, allora la composizione e i beni suddetti vadano alla corte del re (cap. 200).

    Nel caso dell’accusa di adulterio, invece, seguiva la più classica delle ordalie – ossia il giudizio di Dio – che consisteva in una prova da superare da parte dell’accusatore. Se questi perdeva, doveva pagare alla donna il suo guidrigildo (ossia il suo valore pecuniario, stabilito per legge). Se viceversa vinceva, acquisiva il diritto di ucciderla oppure di mutilarla. Le pene erano inferiori se commesse ai danni di un’aldia (cioè di una semilibera), di una liberta o di una serva. Quest’ultima aveva un valore minimo: basti pensare che se si percuoteva una schiava incinta causandole un aborto, si pagavano solo tre soldi, mentre se si tagliava la coda a un cavallo se ne pagavano addirittura sei!

    La pena della morte e della mutilazione in caso di adulterio fu abolita da Liutprando nel 731: per il marito che cogliesse la moglie in flagrante era previsto il solo diritto di punirla o di venderla. Dietro questo cambiamento di rotta, forse, non è sbagliato cogliere l’eco di un brutto episodio che aveva visto vittime, nel 702, proprio la sorella di Liutprando, Aurona, il fratello Sigiprando e la madre Teodorada. La causa scatenante non era stata una vendetta per questioni di letto, ma un regolamento di conti politico. Il duca di Asti Ansprando, padre del futuro re, era stato sconfitto e costretto alla fuga dall’altro pretendente al trono Ariperto II. Quest’ultimo, una volta padrone del campo, si era vendicato brutalmente sulle due donne facendo loro tagliare le orecchie e il naso e deturpandole per sempre³. L’operato di Liutprando fu mosso senz’altro dall’influsso che esercitava su di lui la morale cattolica, ma è possibile che dietro la sua decisione ci sia anche un – non sappiamo quanto consapevole – ricordo autobiografico del terribile fatto di sangue.

    Presso altre popolazioni germaniche era previsto invece il ripudio o divorzio consensuale ed era molto diffusa la pratica del concubinato. Accanto alla moglie legittima, cioè, i sovrani (ma non solo loro) tenevano altre donne di rango inferiore con cui procreavano tranquillamente. Carlo Magno ebbe quattro concubine, Ugo di Spoleto tra le tante ne scelse tre come favorite e si prodigò per sistemare la numerosa prole che generò con loro. Per tutto il Medioevo i bastardi non solo ricoprirono importanti cariche di potere, ma addirittura legarono il loro nome a imprese memorabili. Così, ad esempio, la dinastia dei Pipinidi che scalzò quella merovingia nel regno dei franchi; così anche il celebre Guglielmo, figlio del duca di Normandia Roberto e della concubina Arlette⁴, che nel 1066 ad Hastings conquistò l’Inghilterra. Guglielmo discendeva da una lunga schiera di illegittimi: il primo duca di Normandia, Rollone, aveva generato da Poppa (non dalla moglie Gisella!) Guglielmo di Lunga Spada; il bisnonno di Roberto era a sua volta padre di Riccardo I – nato dalla concubina Sprota – e nonno di Riccardo II, nato da Gonnor e non dalla nobile Emma. I nobili in genere si circondavano di concubine perché il matrimonio era concepito come una questione di politica familiare e non aveva nulla a che fare – salvo rari casi – con l’amore. Certo, poteva anche capitare che il rapporto si rivelasse un successo e che nella coppia sbocciasse un tenero e autentico sentimento. Ma la regola era l’indifferenza. I coniugi dormivano di solito in stanze separate e si univano solo (o quasi) per compiere il loro dovere e procreare in modo da garantire la continuazione della dinastia. E mentre gli uomini trovavano tranquillamente la soddisfazione dei loro piaceri altrove, le donne erano guardate a vista per evitare che si dessero ad amori fugaci.

    Un caso molto famoso da questo punto di vista, e dalle grandi implicazioni politico-culturali, fu quello di Eleonora d’Aquitania (1122-1204) anche perché diede molto scandalo. Nata a Bordeaux, crebbe nei fasti e nella raffinatezza di una corte dove le fu insegnato – caso raro per una donna! – a leggere e scrivere in latino, a suonare strumenti musicali, a far di conto, persino a cavalcare e andare a caccia. Forte di carattere, passionale e anticonformista, ebbe molti amanti – tra veri e presunti –, si sposò due volte, spinse i figli a ribellarsi al padre e si circondò di poeti e letterati che cantavano l’amor cortese anche in corde ben più prosaiche. Una donna, insomma, decisamente fuori dal comune in un’epoca in cui anche le regine, se non si dimostravano morigerate come le antiche matrone, rischiavano di finire i loro giorni tra le fredde celle di un convento. A otto anni si trovò erede, per la morte del fratello maggiore, di un territorio che si estendeva dalla contea di Poitou ai ducati d’Aquitania e Guascogna. E promessa sposa dal padre, in punto di morte, al futuro re di Francia Luigi VII. Il matrimonio fu celebrato il 25 luglio 1137. A Natale Eleonora e Luigi VII furono incoronati a Bourges: lei non aveva che quindici anni, lui solo due di più. L’unione fu infelice sin da subito: dopo otto anni di matrimonio senza figli nacque una bimba, Maria, e non il sospirato erede maschio. La frattura si consumò però in occasione della crociata che Bernardo di Chiaravalle predicava dopo la caduta di Edessa in mano agli infedeli: al raduno di Vézelay, nel 1147, Eleonora si presentò davanti alle truppe del marito e dell’imperatore Corrado III in groppa a un cavallo bianco e rivestita di una lucente armatura. Inopportuna fu ritenuta anche l’iniziativa, da lei promossa insieme a trecento nobildonne, di accompagnare l’esercito per assistere i feriti. Sorda a ogni critica, la regina si buttò nella missione trascinando con sé uno dei suoi trovatori favoriti, Jaufré Rudel, a farle da scorta. La spedizione fu un disastro e al termine il sinodo di Beaugency sancì, con l’assenso papale, l’annullamento del matrimonio tra i due per consanguineità di quarto grado, visto che entrambi discendevano dallo stesso antenato, Roberto II.

    Oltre alla separazione in sé per sé, a dare ancora più scandalo fu, se possibile, il fatto che Eleonora il 18 maggio 1152, cioè appena un mese e mezzo dopo l’annullamento, impalmò nientemeno che Enrico il Plantageneto: di undici anni più giovane, era destinato al trono d’Inghilterra col nome di Enrico II, dove sarebbe salito con la nuova consorte il 19 dicembre di due anni dopo. E visto che Eleonora restava in pieno possesso delle sue terre, l’unione produsse l’eccezionalità di una corona inglese dotata sul suolo francese di più territori di quanti ne avesse lo stesso re di Francia. Enrico a sua volta non era uno stinco di santo. Nonostante gli otto figli che Eleonora gli diede, tradiva la moglie ogni volta che poteva ed ebbe numerosa prole illegittima. Dal matrimonio nacquero Guglielmo, Enrico il Giovane, Matilda, Riccardo, Goffredo, Eleonora, Giovanna e Giovanni. Ma il re a tutti questi preferì sempre un altro Goffredo, avuto da una prostituta proprio mentre la consorte gli partoriva il primogenito. Ebbe addirittura il coraggio di riconoscerlo e di farlo allevare nella corte di Westminster, dimostrando quel temperamento arrogante e irrispettoso verso Eleonora che, alla lunga, avrebbe decretato la fine del loro rapporto.

    La corte d’amore

    Eleonora si era allontanata dal marito per lunghi periodi già varie volte. Durante uno di questi ne aveva approfittato per rinfocolare la sua antica passione per musica, poesia e letteratura. A Poitiers aveva dato vita a una corte che richiamava artisti e letterati da tutta la Francia e divenne celebre in tutta Europa. Questo scrigno di cultura ospitò non solo la definitiva residenza della regina e dei suoi figli Goffredo e Riccardo (il prediletto), ma anche rancori e congiure contro il sovrano inglese.

    Eleonora e la figlia Maria, anch’essa mecenate, si circondarono di poeti, musicisti, letterati e soprattutto di trovatori (o trovieri), poeti che cantavano in langue d’oc (occitano) l’amor cortese su dolci melodie, accompagnandosi con strumenti musicali a corda. Una passione che, probabilmente, aveva ereditato dal bisnonno Guglielmo (1071-1127), duca di Aquitania e Guascogna e conte di Poitiers, trovatore egli stesso: pare anzi che sia stato proprio lui il primo poeta a fare uso di una lingua volgare per comporre poemi di argomento profano, il che – come riconosciuto dallo stesso Dante, che conosceva il provenzale e apprezzava le canzoni d’amor cortese fino a poetare egli stesso obbedendo a quei canoni – lo rende il padre della poesia volgare europea.

    Di cosa trattava esattamente l’amor cortese? Era, si può dire, un modo elegante per ottenere un po’ di soddisfazione nel campo senza perdere la faccia. Il fine amour, o amore raffinato, fu inventato in Francia nel XII secolo e stabilì una sorta di modello che si diffuse ampiamente, grazie alla letteratura, anche altrove. In breve, la dama (dal latino domina, padrona), che di regola era la sposa di un signore, era corteggiata da un giovane che faceva parte dell’entourage del marito. Egli, innamorato, tentava di conquistarla sottomettendosi a lei come un vassallo e le giurava eterna fedeltà. La dama poteva decidere se corrispondere o meno (e in che misura) al suo amore: se accettava diventava a sua volta prigioniera perché, in questo tipo di vincolo ricalcato sulla base di quello feudale, a un dono ricevuto doveva corrisponderne uno in cambio. Il gioco, perché di ciò si trattava, era apparentemente retto dalla donna. Apparentemente, appunto. Perché in realtà il sistema era congegnato per rimarcare, ancora una volta, il dominio dell’uomo sull’altro sesso. In un mondo in cui la reputazione femminile era legata in tutto e per tutto alla sua condotta sessuale, anche il piccolo sospetto di tradimento nei confronti del marito – che era suo signore – poteva costarle il ripudio e la rovina. Il piacere, insomma, «culminava nello stesso desiderio. È qui che l’amor cortese rivela la sua vera natura onirica. L’amor cortese concedeva alla donna un potere sicuro. Ma tratteneva questo potere confinato all’interno di un campo ben definito, quello dell’immaginario e del gioco»⁵. Di più. Il sistema era funzionale al mantenimento dell’ordine e, anzi, a rimarcare nettamente il ruolo preponderante dell’uomo di estrazione nobile all’interno della società feudale. In altre parole l’uomo di corte, trattando le donne con raffinatezza e conquistandole – ché sempre prede erano! – con versi e modi gentili anziché con la violenza, legittimava la sua appartenenza al mondo aristocratico e rimarcava la sua differenza con il villano, caratterizzato invece dalla rozzezza e dall’inciviltà. Anche in questo caso di apparente forza, dunque, le donne si rivelavano per l’ennesima volta un oggetto funzionale agli uomini per distinguere i loro ruoli all’interno di una società tipicamente, e inesorabilmente, maschile.

    Comunque sia, a Eleonora e alla sua raffinatezza dobbiamo un patrimonio culturale imponente elaborato da decine di poeti. Tra loro spicca la figura di Bernart de Ventadorn (1130-1200 ca.) che, innamorato come tutti della regina, dedicava a lei i suoi versi d’amore. La dama che fa soffrire ma che allo stesso tempo sembra concedere una speranza; l’amata che non presta attenzione o preferisce le lodi di altri, le malelingue, invidiose del joi d’amor e la donna, irraggiungibile, esaltata come l’essenza della perfezione e spesso celata dietro un appellativo fittizio, il senhal, sono tutti stilemi delle cansos (canzoni) dell’epoca, ma nascondono quasi sicuramente anche elementi biografici. Altri poeti attivi alla corte di Eleonora furono Benoît de Sainte-Maure, che scrisse il celebre Roman de Troie (Il romanzo di Troia) – sulle epiche vicende della città antica e dei suoi eroi –, Robert Wace e Arnaut Guilhem de Marsan, autore di un manuale del perfetto cavaliere. Maria di Champagne, invece, predilesse il grande trovatore Chrétien de Troyes (1135-1183), autore – oltre che di opere perdute – di cinque romanzi ispirati a leggende bretoni: Erec et Enide, Cligès, Lancelot ou le chevalier de la charrette, Yvain ou le chevalier au lion, Le Roman de Perceval ou le conte du Graal. Capolavori che diedero un impulso decisivo alla diffusione del mito di Re Artù, dei cavalieri della Tavola Rotonda e della ricerca del Graal in tutta Europa.

    Lontan dal mondo

    Uno status speciale era quello delle vedove. Sin dalle leggi germaniche potevano (editto di Rotari, cap. 182) scegliersi un nuovo marito purché fosse libero. Se invece decidevano di entrare in convento, non potevano farlo prima di un anno e portavano con sé un terzo dei beni se avevano figli, la metà se non ne avevano. Il tutto restava al monastero. Considerate indifese, in epoca feudale erano tra le categorie che il cavaliere avrebbe dovuto impegnarsi a difendere. E in effetti, per lungo tempo entrare in convento rappresentò un modo per salvarsi dalle violenze e mettersi al sicuro. È vero che addirittura barbari come il re dei goti Totila nel 546, assediando Roma, proibirono ai loro di stuprare le donne, e che la legge dei burgundi considerava la violenza sessuale e il rapimento come crimini molto gravi. Ma nei tempi travagliati e sempre più insicuri caratterizzati da continue guerre e scorrerie, nemmeno il chiostro era garanzia assoluta di una vita tranquilla, e le cronache riportano sovente episodi non solo di saccheggi e distruzioni di monasteri (con relativi stupri ai danni delle suore), ma anche di rapimenti di singole sorelle altolocate da parte degli sgherri di qualche signorotto che intendeva sposarle a tutti i costi. Al punto da spingere i regnanti a legiferare in merito: il franco Clotario II, ad esempio, nel 614 stabilì la condanna a morte per chi rapiva una donna. Certo fondare un convento – e magari ritirarvisi! – oltre a rendere una nobildonna estremamente rispettabile e di venerabile memoria per l’eternità rappresentava anche l’occasione per l’intero casato di ottenere enorme prestigio sociale. Ansa, moglie dell’ultimo re dei longobardi Desiderio, ad esempio, fondò i monasteri di Leno e Sirmione, e quello importantissimo di San Salvatore e Santa Giulia a Brescia e non fu certo l’unica.

    Nell’Alto Medioevo sono noti casi di sacerdoti donne o diaconesse⁶. In Bretagna, nel 511, alcuni vescovi vennero a sapere che i sacerdoti locali giravano per le campagne amministrando i sacramenti e distribuendo l’eucaristia accompagnati da alcune conhospitae. Probabilmente si trattava di vedove che, dopo aver preso i voti, erano state consacrate e partecipavano alla celebrazione delle messe. Ciò dovette spaventare il clero cittadino perché, nel 533, il sinodo di Orléans tolse alle donne la possibilità di accedere agli uffici religiosi; il successivo Concilio di Auxerre andò oltre e dichiarò che le donne erano per natura impure e quindi dovevano indossare il velo e astenersi dal toccare qualsiasi oggetto consacrato. Tuttavia, la documentazione è ricca di diaconesse – tale, ad esempio, era santa Radegonda – e donne con questo titolo sono presenti a Pavia, in Dalmazia, a Roma e altrove. Va aggiunto però che soprattutto in Francia la legislazione ecclesiastica era restrittiva contro le donne che frequentavano sacerdoti: imponeva, ad esempio, ai preti di astenersi dall’avere rapporti con loro, pena la perdita dell’incarico. Ma le disposizioni restavano largamente inattese, poiché non era affatto infrequente trovare concubine in casa di preti. Questi ospitavano, pare, anche prostitute e avevano da loro figli. Secondo Attone da Vercelli, alla fine del X secolo c’erano religiosi che per fare regali alle loro concubine – nominate addirittura eredi dei loro beni! – derubavano le chiese e tormentavano i poveri. Una condotta tutt’altro che da timorati di Dio.

    Donne di penna

    Tornando alle donne, all’ombra del chiostro potevano accedere a ciò che in genere era precluso, almeno fino all’XI secolo e salvo rari casi, alle laiche: cioè alla cultura. Roswitha, badessa di Gandersheim (935-974 ca.), scrisse molto in latino, tra cui sette leggende drammatiche che vedono protagonisti santi, peccatori e demoni, sei commedie in versi ritmati – alla maniera delle antiche commedie latine, in particolare di Terenzio – e le Gesta Othonis, in cui narra la vita dell’imperatore Ottone I di Sassonia. Ildegarda di Bingen (1098-1179), santa e dottore della Chiesa, fu medico, botanico, musicista, artista, linguista, filosofa, poetessa e persino consigliera dell’imperatore Federico Barbarossa. Produsse innumerevoli opere che spaziano in ogni campo del sapere e inventò persino una nuova lingua. Herrada di Landsberg, badessa del monastero di Hohenburg in Alsazia (1125 ca.-1195), compose una vera e propria enciclopedia dello scibile, l’Hortus deliciarum, ricca di citazioni dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dagli scrittori medievali, ma anche di autori latini profani, ne musicò alcune parti e ne illustrò altre con preziose miniature. Purtroppo il manoscritto andò distrutto nel 1870 durante il rovinoso incendio della biblioteca di Strasburgo, che lo conservava. A metà tra vita laica e monacale può essere considerata invece Eloisa (morta nel 1164), nipote del canonico parigino Fulberto, che si distinse grazie alla sua dottrina al punto da attirarsi le lodi del grande abate di Cluny Pietro il Venerabile, che la definì ammirato «celebre per erudizione». Le sette arti liberali, quel trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) codificati dal filosofo latino Marziano Capella come sintesi di tutto il sapere, non avevano segreti per lei, così come il latino e, laddove era ormai quasi dimenticato da secoli, il greco e addirittura l’ebraico. Passò alla storia per il celebre carteggio che tenne, dopo la monacazione, col suo grande amore, il teologo Pietro Abelardo, suo precettore, che la sedusse e la mise incinta. Lui subì l’evirazione da parte dei parenti di lei per vendetta, Eloisa entrò in convento, i due sublimarono il loro affetto nell’amore per Dio. Ma quando il 16 maggio 1164, ventidue anni dopo la morte di Pietro, Eloisa lo raggiunse nel sepolcro, leggenda vuole che aperta la lastra, le braccia di lui si aprirono per avvolgere l’amata in un ultimo, eterno amplesso. Anche se si è discusso molto sull’autenticità dell’epistolario – per la mancanza di manoscritti anteriori alla fine del XIII secolo, ma anche per alcune incongruenze tra cui citazioni bibliche aggiornate in base a usi posteriori che suggerirebbero una stesura successiva alla morte dei due amanti o almeno una rielaborazione tarda – prevale ormai l’idea che il documento sia vero e che rappresenti una fonte straordinaria non solo per la conoscenza della vicenda, ma anche per l’interpretazione del modo di pensare medievale.

    La cultura era comunque appannaggio – raro ma documentato – anche di molte laiche. Non si può, ad esempio, parlare dell’educazione dei bambini medievali senza menzionare un celebre trattato scritto nel IX secolo: il Liber manualis scritto di Dhuoda (800-843 ca.). Era una nobile, forse figlia del duca di Guascogna: sposò il marchese Bernardo di Settimania e gli diede due figli, Guglielmo e Bernardo, e proprio al primo dedicò il manuale – un’opera molto dotta e ricca di citazioni che dimostra la vastità della cultura dell’autrice – allo scopo di insegnargli i princìpi della morale cristiana e il rispetto per i ruoli stabiliti da Dio. Parigi alla fine del Duecento produceva maestre e dirigenti di scuola in gran numero. Nel 1321 il duca Carlo di Calabria conferì addirittura la laurea in medicina a una certa Francesca, moglie di Matteo Romano: un’eccezione, certo, ma che dimostra – e lo si osserva nel capitolo dedicato alla sanità parlando di Trotula e delle donne salernitane – come il feeling tra le donne e la medicina fosse una costante anche nel Medioevo.

    Più tardi, Christine de Pizan (1362-1431, veneziana d’origine ma parigina d’adozione), impostò dopo la morte del marito e pur avendo figli una carriera da scrittrice di professione e addirittura di imprenditrice: gestiva infatti uno scriptorium che produceva esemplari di codici finemente miniati. Anche lei parla di amore nelle sue liriche, ma lo fa in un modo del tutto originale, al punto che la sua è stata interpretata come un’opera femminista ante litteram. Scrisse un poema su Giovanna d’Arco, versi, trattati ricchi di metafore in cui incoraggiava le donne a prendere coscienza di sé e soprattutto il Livre de la Cité des Dames, un’efficace risposta alla misoginia dilagante in molte opere contemporanee anche famose come il De claris mulieribus (Sulle donne famose) di Boccaccio o il Roman de la Rose. Qui presenta un utopistico luogo in cui si riconoscono e si esaltano le capacità e le peculiarità delle donne. Tra le altre cose, parla di uomini che prevaricano le donne solo in quanto maschi e non perché la natura li abbia creati più intelligenti di loro e si lamenta, non senza una certa ironia, di questa differenza non certo biologica ma culturale: «Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatto nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere».

    Le sante anoressiche

    Nel Medioevo, però, non erano tutte anticonformiste come Christine. Lo abbiamo visto: la maggior parte delle donne viveva sottomessa all’uomo – padre o marito che fosse – e probabilmente non si sognava nemmeno di sovvertire quell’ordine naturale delle cose che era stato stabilito – lo si sentiva ripetere ovunque – direttamente da Dio. Un modo per le donne di affermare il proprio ruolo sociale fu allora l’utilizzo della religione.

    L’esperienza mistica, in particolare, fu concepita come un mezzo per ottenere credibilità e uscire dal cliché della donna peccatrice e maligna, e anzi per diventare un esempio di santità. Per farlo, però, era necessario rinunciare completamente al proprio corpo, alle pulsioni e ai desideri. Una via per ottenere ciò era l’anoressia. Com’è noto, privarsi del cibo in maniera pressoché totale innesca nel corpo femminile varie conseguenze, la più eclatante delle quali è l’amenorrea, ossia la mancanza di mestruazioni, dovuta tra le altre cose al calo di peso. Il corpo femminile, cioè, perde sia realmente che simbolicamente la sua capacità fisiologica primaria, ossia quella di procreare (attraverso il sesso e quindi il peccato). Così purificata, la donna può dunque accedere al divino senza la zavorra che la condanna per natura alla perdizione. Inoltre, lo stato particolare di privazione induce visioni e iperattività corroborando la forza di volontà: non stupisce dunque che molte di queste ragazze fossero anche note per la loro volontà di ferro e le loro tendenze mistiche. Oltre a digiunare, sovente fino alla morte, praticavano pesanti penitenze e si flagellavano.

    La santa anoressia – come è stata battezzata – è un fenomeno che riguarda nel Medioevo (e anche oltre...) centinaia di donne. Un celebre studio di Rudolph Bell⁷ ha rivelato come esaminando le biografie di donne italiane vissute tra il 1206 e il 1934, in 261 erano presenti evidenti sintomi di anoressia. Di queste, un centinaio furono proclamate sante. A guardare i dati, sembrerebbe che nella zona tra Umbria e Marche si sia verificata, nei secoli centrali del Medioevo, una vera e propria epidemia: nel XIII secolo Bell ha censito 36 casi; 26 nel XIV; altrettanti nel XV; delle 42 sante italiane vissute nel XIII secolo la cui biografia è stata esaminata da Bell, ben 17 praticavano il digiuno. Quasi tutte vissero ad Assisi e dintorni.

    Rifiutavano tutti i cibi tranne l’Eucarestia; se per caso inghiottivano qualcosa, si provocavano il vomito in modo da espellerlo per essere degne di ricevere il corpo di Cristo, unico nutrimento per l’anima. Accentuando in questo modo il divario tra corpo e spirito. La più celebre è senz’altro Caterina da Siena (1347-1380)⁸. Figlia di un tintore, cresciuta in una famiglia numerosa (la madre ebbe ben venticinque gravidanze!), dopo la morte di una sorella – per le conseguenze del parto –viene destinata a sposarne il vedovo. Ma si rifiuta di farlo. Inizia anche il calvario dell’anoressia. A nulla valgono i tentativi, da parte del suo parroco, di convincerla a mangiare: sostiene di essere spinta da Dio a non farlo. Dopo mesi di liti, il padre acconsente a farle seguire la sua vocazione.

    Caterina si rinchiude nella sua piccola cella e inizia a flagellarsi, non si nutre e non dorme tra la rabbia e la disperazione della madre, che pur non potendo opporsi più di tanto conferma la sua incomprensione. Anche gli amici di famiglia, influenzati da Lapa, la ritengono matta o stregata alimentando i dubbi sulla sua identità. Caterina continua la sua battaglia per essere riconosciuta all’interno della famiglia. Anziché rinchiudersi in convento riesce a entrare, malgrado la sua giovane età, nell’Ordine delle Mantellate. È un ordine militante per cui può avere un suo ruolo nell’assistere i malati presso l’Ospedale di Santa Maria della Scala, pur restando in famiglia. Vi riesce attraverso uno stratagemma di morte apparente facendosi promettere l’ingresso nell’Ordine dei Priori Domenicani sul letto di morte. Il giorno dopo guarisce di colpo e si reca all’ospedale per assistere i bisognosi.

    Il digiuno, Eucarestia a parte, continua:

    Per non dare scandalo prendeva talvolta un poco d’insalata e un po’ di legumi crudi e di frutta e li masticava, poi si voltava per sputarli. E se per caso ne inghiottiva anche un solo minuzzolo, lo stomaco non le dava requie finché non l’avesse rigettato: e quei vomiti le davano tanta pena che le facevano gonfiare tutto il volto. In tali casi si appartava con una delle amiche e si stuzzicava la gola con uno stelo di finocchio o con una piuma d’oca, fino a che non si fosse sbarazzata di quanto avesse inghiottito. E questo chiamava «fare giustizia». «Andiamo a fare giustizia di questa miserrima peccatrice», soleva dire.

    Oltre a Caterina, santa e dottore della Chiesa, sono da annoverare tra le sante anoressiche Chiara d’Assisi (1193-1253), Umiliana de’ Cerchi (1219-1246), Margherita d’Oingt (1240-1310), Angela da Foligno (1248-1309), Margherita da Cortona (1247-1297) e molte altre.

    Spirito guerriero

    Se la vita delle sante anoressiche fu battagliera – e la battaglia era condotta in primis contro se stesse –, il Medioevo ha conosciuto anche donne in armi in un senso tutt’altro che metaforico.

    È cosa nota che, nel mondo celto-germanico, le donne a volte portassero le armi. Il caso più famoso è quello di Boudicca, regina della tribù celtica degli iceni, che nel 60 d.C. guidò i suoi in una memorabile rivolta contro i romani in Britannia non solo arringandoli grazie a potenti discorsi, ma combattendo in prima persona. Ecco come la descrive lo storico Cassio Dione⁹:

    Era una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Le chiome fulve le ricadevano in gran massa sui fianchi. Quanto all’abbigliamento, indossava invariabilmente una collana d’oro e una tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da uno spesso mantello fermato da una spilla. Mentre parlava, teneva stretta una lancia che contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardasse.Boudicca non fu la sola. Nella battaglia di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), combattuta nel 102 a.C. tra i romani di Caio Mario e la popolazione germanica degli ambroni – alleati dei teutoni e dei cimbri, che erano anch’essi germani ma fortemente celtizzati nei costumi – le donne combatterono armate di spade e asce, strappando le armi dalle mani dei nemici e infierendo su di loro con ferite e mutilazioni¹⁰. L’anno dopo, ai Campi Raudii nei pressi di Vercelli, le donne dei cimbri furono protagoniste di atti di eccezionale coraggio: vestite di nero, ferme sui carri sterminarono mariti,

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