Relazioni degli ambasciatori veneti da Mantova
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Info su questo ebook
Raccolte in questo volume solo otto relazioni di ambasciatori del calibro di Bernardo Navagero o Francesco Contarini, che accompagnano il declino di Mantova, già tra le capitali indiscusse del Rinascimento, nell'arco di un secolo (dal 1540 al 1638) che si conclude con due eventi catastrofici in rapida successione: l'estinzione del ramo principale dei Gonzaga nel 1627 e il sacco della città ad opera dei lanzichenecchi nel 1630.
A cura di Daniele Lucchini.
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Anteprima del libro
Relazioni degli ambasciatori veneti da Mantova - AA. VV.
Lucchini
Colophon
Finisterrae 25
Titolo originale dell'opera: Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato. Vol. 1. Ferrara. Mantova. Monferrato
Prima pubblicazione: Bari, 1912
Prima edizione Finisterrae: 2010
In copertina: Andrea Mantegna
Camera degli sposi, 1465-74 (particolare)
© 2010 Finisterrae di Daniele Lucchini, Mantova
www.librifinisterrae.com
Tutti i diritti riservati
ISBN 9781312187399
Epigrafe
Né creda mai alcuno stato potere pigliare partiti securi, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubii; perché si truova questo nell'ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro; ma la prudenzia consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti, e pigliare il men tristo per buono.
Niccolò Machiavelli, Il principe
Prefazione
È d'obbligo lasciare ad Eugenio Albèri, curatore di una delle prime edizioni delle relazioni degli ambasciatori veneti al senato della Serenissima, aprire la presentazione di questo volume.
« […] Mirabile a considerarsi, e debito il proclamarlo come solenne testimonianza d'italiana sapienza, che mentre giaceva ancora l'Europa nell'infanzia della nuova civiltà, fin dall'anno 1268, la Repubblica di Venezia stabilisse con apposita legge, più volte confermata ed ampliata, che tutti gli ambasciatori, che da lei si spedivano ai diversi potentati del mondo, compiuta la legazione, riferissero in iscritto i successi della medesima, non solo ad istruzione di chi doveva succedere in quel medesimo ufficio, ma a norma del governo in tutte le circostanze che la perpetua vicissitudine dei casi umani fosse per arrecare.
È conforme alla natura delle cose l'imaginare che queste Relazioni fossero da prima distese con minore ampiezza di discorso e di intendimento, si addentrassero meno di quel che accadde in progresso in tutti i particolari del paese dal quale ritornavano gli Ambasciatori, e che solo a poco a poco giungessero a quello sviluppo, a quel compito prospetto di tutte le condizioni dello stato, che vediamo aver esse conseguito nel secolo XVI, nel quale veramente abbracciarono tutte le parti che alla perfetta conoscenza dei moltiplici interessi di una nazione si richiedevano. Avvegnaché incominciando dalla descrizione del territorio, dei prodotti naturali ed artificiali, dei commerci interni ed esterni, delle inclinazioni e costumi degli abitanti, delle credenze religiose, della legislazione e della cultura intellettuale, passino alla considerazione delle forze militari di offesa e difesa, e delle entrate e spese del regno, per terminare coll'accurata informazione della persona e del carattere del sovrano, delle origini della famiglia e dello stato, delle attinenze di parentado, della qualità dei ministri, e finalmente delle intelligenze che correvano fra il potentato in discorso e tutti gli altri del mondo.
La qualità degli uomini che la Repubblica adoperava in uffici di così grande importanza, e la gelosa custodia in cui erano tenute le Relazioni negli archivi secreti dello Stato, tantoché pare che gli stessi ambasciatori avessero divieto di ritenerne copia presso di sé, ci danno il più sicuro criterio della veracità ed indipendenza delle informazioni in esse contenute. Elettori d'altronde ed eligibili alla suprema dignità dello stato, i veneti senatori sentirono per lungo tempo troppo altamente di sé medesimi e della repubblica, perché la devozione o il timore potessero in loro soggiogare od offuscar l'intelletto. Le Relazioni insomma, alle quali si riferisce il nostro discorso, son la parola di uomini consumati nell'esercizio dei pubblici negozi, di uomini che non a pompa ma a porte chiuse, e per sola reciproca istruzione, si ripetevano scambievolmente quel che avevano veduto ed osservato sulla gran scena del mondo, di uomini pei quali la conoscenza degl'interessi universali e un vero amore di patria erano a un tempo istituto e tradizione.
E veramente non si riscontra in cosiffatte scritture favore o disfavore sistematico verso di alcuno, non avventati giudizi, non istudiata ricercatezza di stile; sibbene attenta e spassionata osservazione dei fatti, la misura della lode e del biasimo derivata con stretta deduzione da quelli, amore della chiarezza più assai che di una pericolosa eleganza. Vediamo il senno di consumati negoziatori non subordinare i fatti alle idee, o, per il vizio contrario, trascurar l'importanza dei generali principi, ma agli uni ed alle altre assegnare la parte che si conviene nelle vicende delle nazioni. E non di rado ci accade di veder fatto gran caso di tal leggiero incidente, che fu la causa o l'occasione, dagli storici non avvertita, di qualche grande successo, e di trovare appena considerate altre cose, che o fallaci tradizioni o il pregiudizio dei dotti hanno tenute sino ad oggi in onore. Né il continuo succedersi delle ambascierie nuoceva alla varietà dei referti e dei giudizi; imperocché,
oltre l'arte peculiare ai veneti ambasciatori di osservar sempre gli oggetti sotto nuovi e diversi punti di vista, le cose de' principi e stati umani (dice appunto uno di loro) andandosi di giorno in giorno in diversi modi mutando, ogni Relazione ciò almeno abbia di nuovo, che l'intercorso tempo era venuto arrecando così rispetto alle cose che alle persone.
Bene è da deplorare che l'incendio del palazzo ducale, avvenuto nel 1577, il quale distrusse alcune sale della cancelleria, ci abbia irreparabilmente privati delle Relazioni precedenti al sedicesimo secolo, dalla quale epoca soltanto incomincia la serie di quelle che sono a noi pervenute […].
Il gran numero e l'esimia qualità dei diplomatici veneziani darebbe luogo a un giusto sentimento di meraviglia, quante volte non si avesse presente la natura stessa del governo al quale appartenevano. I veneti patrizi, alle cui mani esclusivamente era affidato tutto il maneggio dei pubblici negozi, avevan posto all'età di venticinque anni in Senato, dove appunto riferivano gli ambasciatori, e dove di buon ora non solo apprendevano la cognizione, ma contraevano l'abitudine dei grandi affari di stato, e non di rado seguitavano a proprie spese gl'inviati della Repubblica presso le varie corti; talché quando a loro volta erano eletti all'ufficio di ambasciatore non eran nuove per loro le attribuzioni, le costumanze e le difficoltà stesse del grado, onde in loro il novizzo non appariva, e fino dai primi passi si vedevan procedere del pari coi più astuti e consumati negoziatori delle altre nazioni. La sapienza del senato educava gli ambasciatori, e questi a lor volta mantenevano ed arricchivano il patrimonio dei loro institutori.
[…] Mediante la cognizione e l'uso più generale di codeste scritture s'infuse un nuovo spirito, una vita nuova nella moderna istoriografia. Molte false interpretazioni, molti motivi reconditi, molte particolarità non abbastanza apprezzate, e che servono a qualificare individui ed avvenimenti, collo studio di queste vennero corretti, schiariti, illustrati, e posti nella vera e propria luce. Con queste sole Relazioni non si potrà scrivere la storia, non trovandosi in esse una esposizione ordinata degli avvenimenti politici, e meno ancora il racconto delle imprese militari, quantunque vi si accenni sovente; ma per la conoscenza delle persone e delle circostanze sono pressocché innarrivabili. Nell'aprire i volumi che le contengono si crederebbe di entrare in una quadreria ove tutto viva e ci parli.
[…] Malgrado le precauzioni e i divieti, ai quali abbiamo accennato, con cui cercò la Repubblica di tenere secreti questi documenti, la fama della loro importanza incominciò, sulla metà del sedicesimo secolo, a divulgarsi per guisa, che la curiosità dei principi e degli uomini politici fu stimolata a procurarsene la cognizione; e qual si fossero i mezzi da loro adoperati al conseguimento di questo fine, certa cosa è che ben presto cominciarono a correr copie d'alcuni appunto fra i più rimarchevoli, che resero in breve universale l'ammirazione per questi monumenti della sapienza politica dei Veneziani […] ».¹
Mantova nelle relazioni
Le relazioni qui proposte coprono esattamente un secolo di storia mantovana, dal 1540 al 1638, vale a dire dalla morte di Federico II Gonzaga a quella di Carlo I di Gonzaga-Nevers. Si tratta di un periodo per molti versi cruciale: da un lato ancora segnato dagli sfarzi e dagli splendori artistici con cui la famiglia regnante impreziosisce la corte e la città, dall'altro caratterizzato dal declino irreversibile del ducato, il quale passa anche attraverso due momenti estremamente tragici, quali l'estinzione del ramo principale della dinastia nel 1627 e il sacco della città nel 1630.
Può far impressione leggere come gli ambasciatori veneziani colgano i segnali anche minimi di questo declino: già a partire dal 1540, ad esempio, Bernardo Navagero è in grado di individuare con una lucidità quasi cinica, nel momento di massima espansione politica e territoriale del ducato, come proprio l'acquisizione del Monferrato non potrà che portar danno. E pochi decenni dopo Francesco Contarini (1588) e Francesco Morosini (1608) indicano proprio nel macrocefalismo e nel superbo fulgore della corte, anche quello artistico che a tutt'oggi il mondo ammira, una delle principali cause del dissesto finanziario e conseguente indebolimento dello stato.
D'altro canto è pur vero, ragionando con il senno del poi, che da un centro come Mantova, la quale aveva raggiunto il proprio apice di floridezza e cultura - fu una delle capitali indiscusse del Rinascimento - tra la metà del Quattrocento e quella del Cinquecento, ci si doveva attendere prima o poi la parabola discendente. Quanto colpisce, a guardare senza la lungimiranza degli inviati della Serenissima, è tuttavia la rapidità di tale parabola: Vincenzo I, che regna dal 1587 al 1612, possiede la più imponente e invidiata collezione d'arte d'Europa, è a capo di uno degli stati a maggior importanza strategica sullo scacchiere continentale ed ha ben tre eredi maschi a garantire la dinastia; in soli diciannove anni è tutto finito. Come ricordato poco sopra infatti, nel 1627 il ramo principale del casato si estingue, nel 1630 Mantova è messa al sacco e nel 1631, con l'insediamento del ramo cadetto dei Gonzaga-Nevers, il ducato diventa un vuoto burattino nelle mani del re di Francia, restandolo sino alla sua fine nel 1708.
Non essendo però la storia mantovana l'oggetto delle presenti note, si rimanda alla bibliografia in fondo al volume chi volesse approfondire le proprie conoscenze sull'argomento.
Due parole su questa edizione
Come per molti altri corpus di fonti, è soprattutto nell'Ottocento che ci si preoccupa di raccogliere e pubblicare quanto reperibile. Per le relazioni degli ambasciatori veneti, le collezioni più notevoli sono quelle del già menzionato Eugenio Albèri e di Arnaldo Segarizzi riportate in bibliografia. Il testo riprodotto nel presente volume è preso dall'edizione di Segarizzi, uscita la prima volta nel 1912.
Non si è ritenuto di accompagnare le relazioni con note esplicative, se non per accennare all'occasione delle singole ambascerie, al fine di non distrarre il lettore dal sapore dei testi; per comodità si è tuttavia accluso fuori testo un sintetico albero genealogico dei regnanti citati. Per il resto, come già detto, si è scelto invece di rimandare ai volumi citati in bibliografia per gli eventuali approfondimenti storici.
Daniele Lucchini
giugno 2010
Relazione del clarissimo messer Bernardo Navagero, ritornato di ambasciatore di Mantova, I540²
Questa mia relazione sarà conforme, serenissimo Principe, alla legazione, la qual, sendo stata di pochi di, ricerca ch'io mi debba spedire in poche parole. Il che tanto più lo debbo fare quanto che, misurando le mie forze, da nessuna cosa conosco poter tanto piacere quanto che da questa parte della brevità; la qual sarà però senza lasciar nessuna di quelle cose ch'io estimo degne della cognizione della Serenità Vostra, perché credo ch'importa grandemente, e più assai di quel che molti stimano, intender particolarmente le forze de' principi, per piccioli e mediocri che siano. E perciò, non ripetendo altramente l'officio per il qual la Serenità Vostra mi ha mandato, che fu di dolermi, del qual ho scritto copiosamente, dirò l'entrate e spese di questi signori, di quanta gente da piè e da cavallo si possano valere. Considererò poi le condizioni e qualità particolari del reverendissimo cardinale e della signora duchessa, che ora si ritrovano al governo di quel Stato, non omettendo, in questa parte della duchessa, dire quel più che ho potuto intendere del suo stato di Monferrà, concludendo questa parte con la speranza che si può aver del signor duca, il quale ora si trova di otto anni. Dirò poi quel ch'aspetta con desiderio la Serenità Vostra e questo eccellentissimo senato circa la risoluzione delli banditi ed alcune altre cose che Sua Signoria reverendissima mi commise, nel partire, ch'io dovessi dire alla Serenità Vostra.
Mantova ha d'entrata 90 in 100.000 ducati. Il dazio del sale rende da 28 in 30.000 scudi, il qual, per esser il principal fondamento della sua entrata, è diligentemente osservato, e son poste alli contrabandieri di questo dazio quasi le medesime pene con le quali son puniti quelli che macchinano contro il signore. Il dazio della macina: 12 in 13.000; il dazio delle porte dell'entrata e uscita: 10.000; il dazio del li contratti di beni stabili, compre e vendite: 4.000; la lana: 2.000; il vino: 3.000; il passo de' fiumi, il dazio de' castelli di fuori, le becherie, le tanse de' contadini, le possessioni proprie ascendono alla somma, e' ho detto, di 90 in 100.000 ducati.
Le spese solevano esser al tempo del duca morto molto grandi, perché Sua Eccellenza spendeva assai nelle stalle, assai nelle fabbriche e molto in tener gran corte, che ascendeva al numero di 800 e più bocche, con diverse provvisioni a molti di loro. Ora sono minuite in gran parte, si perché non si attende con quella cura e diligenza alle stalle, e si perché il signor cardinale ha ridotto la spesa della corte in 350 bocche ed ha levato molte provvisioni superflue a uomini poco utili. Talché, spendendo solamente nelle cose necessarie, che sono gli ufficiali di giustizia ed altri ministri, ed altre spese ordinarie da 30 in 35.000 ducati al più l'anno, è da credere che in poco tempo sia per accumular una gran somma di danari: li quali, essendo quel prudente e savio signore che egli è, il cardinale conosce poter dare e a lui, mentre si troverà in questo governo, e al duca suo nipote, quando succederà, molta reputazione. Benché un giorno, cavalcando, Sua Signoria reverendissima mi disse che per necessità era astretta a liberarsi da molte spese, per averli lasciato il signor suo fratello molti carghi di debiti, a' quali tutti voleva sodisfare; e per aver lasciato tre altri figlioli: il signor Guglielmo ed il signor Lodovico, alli quali lasciava che fossero comprati 8.000 ducati d'entrata per uno (4.000 da essere scomputati nel signor Guglielmo secondogenito ogni volta ch'egli avesse de' beni ecclesiastici); e alla signora Isabella, sua figliola, 25.000 per sua dote, oltre quello che suol dare il Stato di Monferrà nel matrimonio delle figliole delli loro marchesi e, quando non lo potessero dare, ch'ella si accrescesse fino alla somma di 50.000: e perché la signora duchessa è gravida, se di questo parto nasce maschio, avesse il medesimo legato che hanno gli altri; se femmina, fosse alla medesima condizione che la signora Isabella. Oltre molti altri legati a molti altri suoi servidori, fra' quali uno al signor Alessandro, suo figliolo naturale con la Boschetta, di 1.500 scudi all'anno d'entrata. Per queste cose, mi disse Sua Signoria reverendissima, conosceva esser necessarissimo usar molta parsimonia per poter lasciare il Stato intiero e qualche somma di danari al signor duca suo nipote, perché vedeva che a comprar tanta somma d'entrata bisognava gran somma di danari.
Le città e castelle del Mantovano sono molte; le quali se io volessi commemorar, saria più tosto una vana ed ambiziosa ostentazione di memoria che cosa utile o dilettevole alla Serenità Vostra. Basta che di tutti questi suoi luoghi, compresa la città di Mantova, può cavare fino a 300 uomini d'arme, tutti gentiluomini e buoni cittadini, 500 cavalli leggieri e da circa 7.000 fanti, non lasciando però il Stato sfornito di quanti potria far bisogno in una occasione. Nella monizione si ritrovano 118 pezzi d'artigliaria tra grossa e piccola, da offesa e difesa. E benché queste forze ch'io ho detto siano di qualche momento, pure, serenissimo Principe, io giudico che si debbano stimare questi signori di Mantova non meno per la commodità del sito che per qualunque altra condizione, avendo prima una città molto forte e per natura e per arte: per natura, essendo difesa dal lago per molte sue parti; per arte, da una grossa muraglia e gagliardi bastioni ove ne ha bisogno: situata in luogo che, come amica, è atta a soccorrere tutta la Lombardia e tutto lo Stato della Vostra Serenità, e come nemica molto atta ad offenderlo, perché da Verona è discosta miglia 20; da Legnago miglia 25; da Brescia, da Parma, da Reggio e da Modena in 40; da Cremona, da Milano e da Padova in 60; da Vicenza, da Ferrara in 50. Talché il signor Prospero Colonna, che fu quel gran capitano che sa la Serenità Vostra, quando che papa Leone fece lega con l'imperatore di cacciare francesi d'Italia, suase anco Sua Santità che facesse capitan generale della Chiesa il signor marchese di Mantova, ch'era in quel tempo molto giovine, né aveva dato molto gran conto di lui, non per altro se non per potersi valere del suo Stato in quella occasione. Il qual suo disegno li riusci mirabilmente, perché, con le spalle e favore del Stato di Mantova, ebbe delle vettovaglie, sostenne l'impeto de' francesi e finalmente li cacciò, come sa meglio di me la Serenità Vostra e illustrissimo senato. Né voglio restar di dire in questo proposito quello che, essendo io in Mantova, ho inteso per bona via e per bocca di chi si ritrovò presente: che era venuto uomo a posta con lettere di credenza per offerir al duca, ch'è putto di otto anni, una figliola del re de' romani; a che fine e con qual disegno, io lo lascio al sapientissimo giudizio della Vostra Serenità. Alla qual proposta il reverendissimo cardinale tolse tempo di rispondere, dicendo di volerlo comunicar con la signora duchessa; poi si risolse di non voler altrimenti parlare di maritar suo nipote per ora, essendo dell'età che gli è e potendo in questo mezzo occorrere molti accidenti.
Veduto brevemente l'entrate e spese di Mantova, le genti da piedi e da cavallo delle quali quel Stato se ne può valere, e considerate quelle poche cose che ho giudicato necessarie intorno al sito di quella città, dirò ora brevemente le condizioni del reverendissimo cardinale e della signora duchessa, che si ritrovano al governo di quel Stato e sono per continuar dodici anni continui, perché per testamento sono lasciati tutori essi due e il signor don Ferrante per terzo fino che il duca pervenga all'età di 20 anni.
Questo reverendissimo cardinale, serenissimo Principe, è della famiglia e del nascimento che sa Vostra Serenità. Si ritrova ora d'anni 35, proporzionatissimo di corpo, grande di statura, di colore tra il bianco ed il rosso. Ha nella faccia una certa dolcezza congionta con una infinita e mirabil gravità; dal che nasce che al primo aspetto ognuno se li affeziona,