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Gli uccelli della tempesta: Un romanzo nel '74
Gli uccelli della tempesta: Un romanzo nel '74
Gli uccelli della tempesta: Un romanzo nel '74
E-book282 pagine4 ore

Gli uccelli della tempesta: Un romanzo nel '74

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Enrico, il liceale del 68 innamorato della rivoluzione e di Annamaria, la ragazza più bella del mondo, dopo sei anni a Milano nel 1974 torna a Roma. E’ solo, lei lo ha lasciato, ma è un militante, oltre che un giovane storico all’università, e ha dei doveri. Ritrova i vecchi compagni di liceo e insieme a loro gli altri dell’Organizzazione, Hans il tirolese e Peppe il romano, e le ragazze, Rita e Silvia e Giulia, che stanno con moltissime altre facendo nascere un nuovo movimento, il femminismo. Quello è l’anno delle bombe, nella piazza di Brescia e sul treno Italicus, di un ennesimo colpo di stato, di sparatorie della polizia, di complotti di cui Italo il nazista parlerà con Enrico in un confuso tentativo di riavvicinarsi ai suoi ex compagni di liceo. Ma Enrico e i suoi amici non vogliono perdere quel che hanno afferrato nel 68, la felicità della ribellione e del sentirsi liberi, la sensazione di poter andare oltre. Sperano che il muro si incrini quando il referendum sul divorzio sconfigge la Dc, quando in Portogallo crolla la dittatura, quando gli occupanti di case di San Basilio, a Roma, resistono allo sgombero. I ragazzi sono in bilico. Ed Enrico si innamora di nuovo, anche se il futuro è pieno di nubi tempestose.

Pierluigi Sullo è stato redattore del Quotidiano dei lavoratori tra il 1974 e il 1976. Ha lavorato al manifesto dal 1977 per ventidue anni, fino a diventarne vicedirettore (con Luigi Pintor come direttore). Per dodici anni, dal 1998, ha diretto il settimanale Carta, di cui era co-fondatore. Ha pubblicato, oltre a raccolte di saggi e libri collettivi, come “Calendario della fine del mondo” (Intramoenia, 2011, con Anna Pizzo e Anna Pacilli) e “No Tav d’Italia” (Intramoenia, 2013, con Anna Pizzo), un libro sul terremoto in Irpinia del 1980, “La casa di Rocco” (Edizioni Lavoro), “Guerre minime” (Intramoenia, 2002), su un giovane marocchino annegato ai Murazzi di Torino con le manette ai polsi, e un saggio sulla fine della modernità, “Postfuturo” (Carta / Intramoenia, 2009). Nel 2018, il suo primo romanzo, “La rivoluzione dei piccoli pianeti. Un romanzo nel 68” (Lastaria).
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2020
ISBN9788899706814
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    Gli uccelli della tempesta - Pierluigi Sullo

    pianeta")

    Pi-no-pi-nel-li

    Si rideva per vendetta, nel teatro vecchio foderato di confezioni da dodici delle uova che servono per l’acustica, e di fronte a qualche centinaio di sedie da cinema strette e corte e a precipizio verso il fondo, di legno macchiato, sul palco Dario Fo si contorceva e sogghignava imitando la posizione che Feltrinelli avrebbe dovuto assumere, poco tempo fa, per essere smembrato a quel modo dalle bombe che secondo loro stava mettendo sul traliccio, lassù in cima, guerrigliero e terrorista, e sembrava un numero da circo, la gamba di qua e il braccio di là e vi pare possibile, e i compagni seduti sulle sedie rispondevano a tono, una risata e un ooooh incredulo, laggiù nel quartiere lontano verso cui si erano trascinati a forza di volontà.

    Enrico era stato incaricato, vai in quel seminterrato in via Festa del Perdono, proprio davanti all’atrio piccolo della Statale, prendi i biglietti per tutti, lì c’è la Comune, e trovò Vincenzo, ragazzo pallido e timido che dava una mano al collettivo del teatro e lui l’aveva già visto, lo schivo, a una riunione della cellula della Statale ma qui lui era della Comune e vendeva i biglietti, ne prese una decina, sarebbero andati al teatro, il solo che Dario Fo aveva trovato al margine di Milano, Quarto Oggiaro, c’era un divieto su di lui, nessuna sala disponibile in città, e andarci era come disobbedire, noi resistiamo andando a vedere come l’anarchico era caduto, pardon, era stato spinto fuori della finestra della questura, qualche anno prima, anzi molti anni prima, perché sul palco si raccontava di Andrea Salsedo, l’improbabile e cocciuto anarchico di Pantelleria, amico di Sacco e Vanzetti, anche lui precipitato giù da un piano altissimo, siamo a New York, dove tutti i piani sono altissimi, era il quattordicesimo e non il quarto, si era suicidato, forse, o aveva voluto mettere in imbarazzo il commissario e il brigadiere, fino all’ultimo inaffidabile sovversivo, o era stata una caduta accidentale, si era messo a cavalcioni della finestra, chissà, immaginava di volar via come sulla scopa della strega e di galleggiare nel cielo come la nuvola di una rivoluzione, e invece sua moglie Licia cinquant’anni dopo New York aveva aperto la porta a uno sconosciuto, un giornalista che disse balbettando «signora, deve essere successo qualcosa a suo marito, in questura», non aveva la forza di dire suo marito è spiaccicato nel cortile di via Fatebenefratelli, e lei era andata a telefonare al commissario con la morte nel cuore, come si dice, e quando lo lesse su un giornale, dell’anarchico precipitato, Enrico fu colpito dal ricordo a tradimento del babbo di Franco, il compagno del liceo che si era cocciutamente spento da sé dopo che suo padre era morto bruciato creando l’oscurità che aveva infine inghiottito il figlio e in quell’occasione un uomo aveva gridato verso la finestra della madre «signora, signora, una disgrazia», come un soprassalto di pena che rimbalzasse da una moglie all’altra, la mia signora del minatore in Belgio o quella di un muratore che era precipitato nel vuoto, o un incendio o una cattura di polizia.

    E però intanto sul palco si era materializzato il traffico, i va e vieni e la piccola folla che era stata in quella stanza, ma a Milano e non a New York, e Dario Fo sapeva mostrare ciascuno dei poliziotti come lui stesso fosse tutte le persone, però la ressa si era di colpo diradata, io non c’ero e io ero uscito, io ero alla scrivania e mi ero distratto e con un balzo felino l’anarchico… e quando finalmente dal palco fu nominato, una sillaba alla volta, Pi-no-pi-nel-li, la sala ebbe un respiro istantaneo e profondo, come se ciascuno dei compagni, dei ragazzi che erano seduti lì dopo aver attraversato una deserta periferia popolata di palazzoni e capannoni e case vecchie come quella che teneva in grembo il teatro, il sospiro fu come trattenere un singhiozzo, perché Pi-no-pi-nel-li erano loro stessi, quasi fossero scampati e ogni ricordo risvegliasse il dolore, l’ansia e forse la paura che non si poteva nominare, e fu in quell’istante, in quell’esatto momento, che l’occhio destro di Enrico fece clic come l’obiettivo di una reflex ma senza rumore, e fissò un singolo fotogramma, uno solo tra milioni di altri, la mano di Annamaria, seduta al suo fianco, si posava sulla mano di Michele, l’operaio ricciuto e fraterno seduto accanto a lei, un unico fermo-immagine in un film lunghissimo, che vuoi che importi. E non voleva dire niente, tutti erano troppo impegnati a trattenere un singhiozzo che avrebbe provocato un piccolo dolore in fondo alla gola e per evitarlo uno gridò, alto e chiaro: «La strage è…», e un coro di centinaia, potente, i suoni rimbalzavano grazie alle confezioni delle uova, rispose «… di Stato», e si ripeté un paio di volte: «La strage è di Stato».

    E a Enrico vennero in mente tutti i funerali, assorbì la sua commozione e il disorientamento, la sua incapacità di capire le morti e nel tempo aveva osservato gli altri spiegarle, chi era cattolico e osservava il cielo e chi credeva nella giustizia del proletariato che avrebbe salvato i defunti dall’oblio, vide nella memoria le quattordici bare che uscivano una alla volta dal Duomo, sotto un cielo color del piombo e in un freddo mortale, tra due cortei congelati di folla scura e muta, un silenzio senza rimedio per le povere spoglie della Banca dell’Agricoltura, e ascoltò i duecentomila passi di Clark’s marroni che producendo un rumore profondo sul selciato di pietra reggevano centomila loden verdi, in Corso d’Italia, dietro un’unica grande bandiera rossa e una sola bara, che conteneva lo studente della Bocconi ammazzato da una pallottola accidentale quando il poliziotto con la pistola in mano inciampò e a caso il suo dito si contrasse e la pallottola colpì la schiena in fuga di Roberto, e il funerale di Feltrinelli, assediato dalle truppe dell’ordine armate, così che per arrivare nel piazzale del Cimitero Monumentale bisognava chiedere permesso e passare di sbieco tra i grossi cappotti incolori schierati e i caschi, per raggiungere una folla silenziosa e compatta che aspettava ferma non si sa cosa, schiacciata dal cielo basso e inutile, finché qualcuno ebbe il coraggio di fischiare un motivo, l’Internazionale, e altri subito si unirono, e divenne un concerto grosso fatto di fischi, compagni avanti il gran partito ma senza parole.

    Enrico distolse lo sguardo da se stesso, sul palco la morte accidentale accadeva, ma una spina si era ficcata nel suo occhio destro. Ora la mano di Annamaria era tornata in grembo, né la mano sinistra della ragazza cercò la sua, come se lei volesse dire che ora faccio da me, non sto cercando nulla, nessuno, nemmeno te, il giovane sbilenco e ora baffuto, i capelli come un’esplosione depressa, gli occhi obliqui e le mani lunghe e magre, il ragazzo di cui mi sono innamorata e che vive con me dalle parti di Porta Genova, io studio medicina, del lavoro per la precisione, ed ecco perché Michele, l’operaio della fabbrica che tengo sotto osservazione e casamatta del movimento dei consigli di fabbrica, e Enrico studia filosofia, più precisamente storia, perché ha uno zio che ha combattuto in Spagna nelle brigate internazionali e lui lo ammira tanto da voler diventare uno scienziato della storia in grado di ristabilire, o almeno puntellare, la verità sulla guerra civile spagnola e sulla resistenza nelle montagne e lo schifo del nazifascismo, perché, le aveva confessato, ho un grave peccato di famiglia da scontare, e raccontò della pistola che aveva trovato in casa dei suoi, dell’origine dell’arma, che era fascista, della proprietà dubbia del negozio di tessuti di suo padre, che probabilmente era stato un collaborazionista e aveva approfittato da sciacallo della scomparsa del vero padrone del negozio, l’ebreo Piperno finito ad Auschwitz, e cazzo, tocca a me diradare la nebbia, rischiarare ogni zona oscura, perciò studio storia, e anche questo è fare la rivoluzione almeno come dare volantini davanti alle fabbriche, organizzare una manifestazione o diffondere la verità sulla strage di Stato, così le disse e Annamaria annuiva, prima di baciarlo lievemente, dato che lui sembrava talvolta un ustionato da toccare con molta attenzione.

    I funerali, pensava Enrico mentre uscivano dalla sala e andavano a cercare la 500 di Giovanni, il compagno e amico, il segretario della cellula della Statale, attento alla strada attraverso i suoi occhialini tondi di metallo quasi da Gramsci, e tornare a Milano città e centro grigia e ferrosa. E la mano, pensava, lei ha posato la mano sulla mano di Michele, così rudemente bello, i riccioli disordinati, i modi diretti e quasi un po’ allegri, l’avanguardia di fabbrica a un cui cenno le linee si fermano, l’uomo in tuta che pareva perfino elegante e si schierava davanti al picchetto e con un modo di sfida e ironico insieme contrattava con il funzionario della questura parlandogli in dialetto per mettere in difficoltà il poliziotto meridionale, ma sì, dottore, non vorrà mica picchiare queste brave persone, e un po’ rideva, perché se anche gli uomini con la testa incassata nel casco avessero alzato i manganelli avrebbero avuto torto loro, senza dubbio, e non avrebbero ottenuto nulla perché i crumiri, viste le bandiere rosse sulla cancellata, se n’erano discretamente andati sulle loro biciclette scassate, oggi non si lavora ma domani chissà, magari evitiamo pure di respirare schifezze anche se un giorno solo, o ci aumentano la paga, non si sa, e gettavano un’occhiata di sbieco a Michele, che non era molto alto ma lo sembrava, la schiena dritta e la testa eretta, e guardavano, gli aspiranti crumiri che andavano via, gli amici di Michele, gli studenti con le camicie strette e le ragazze, specie quella bionda che non si poteva dire bella, né bellissima, perché a chi la vedeva la prima volta sembrava una Madonna del nord, il viso pieno di senso ma discreto, gli occhi azzurri che tendevano alla modestia per ammorbidire la fierezza, e pedalando i crumiri pensavano che fortunato, quello che se la scopa.

    Tornarono a casa, nel letto che lei si sforzava di non lasciare sfatto, la sua buona educazione e le abitudini di famiglia numerosa la obbligavano a tirar su e lisciare le lenzuola e perfino a cambiarle spesso anche se non venivano stirate, perché chi ne ha il tempo? Andare in visita da Dario Fo era un sollievo, tutto sommato, gliele ha dette chiare, a quegli assassini, e noi abbiamo riso, anche se con angoscia, ma un po’ di cenere vola via dall’anima, così. Enrico si girò verso Annamaria, era febbraio, faceva freddo, sentivano il bisogno di scaldarsi l’uno con l’altra ma senza fare l’amore, il giorno dopo avevano un mucchio di cose da fare, e presto, Enrico un seminario di storia contemporanea, sulla repubblica di Salò, e lei una lezione di anatomia, il terrore di ogni studente di medicina, ma si abbracciarono, e parve loro sincero, farlo, se lo dicevano in silenzio, solo una fronte appoggiata a una fronte, e le mani sui fianchi nella confusione di lana e fustagno dei pigiami pesanti, ormai uno stile di vita, e vedevano con la memoria il Naviglio grande, poco più in là, fumare di freddo. Enrico stava per assopirsi e di colpo rivide il fotogramma, la mano di lei sulla mano di Michele, ed ebbe il presentimento, l’annuncio oscuro dell’inconscio, che quella sarebbe stata una nuova fine, e si addormentò.

    Italo

    Il telefono produceva una eco nella stanza quasi vuota, un salotto popolato solo di un vecchio divano di velluto verdemarcio, ispido da non potercisi sedere con le gambe nude, e il televisore-francobollo che Peppe aveva portato da casa dei suoi, quando se n’era andato sbattendo la porta e gridando qualcosa di insultante al padre e soprattutto al fratello più grande, con una borsa di magliette sporche che teneva con la mano destra e il televisore sotto l’altro braccio. Lo aveva raccontato gesticolando, Peppe aveva quasi sempre la bocca aperta, rideva e si meravigliava, gridava ed esclamava, scuoteva i riccioli lunghi e la sua faccia diventava simpatica, gli occhi un po’ orientali, sogghignava e imitava la faccia paonazza di suo padre, capitano di artiglieria di carriera che non sparava un colpo di cannone da anni perché, si sa, l’esercito italiano è una massa di cialtroni inutili che tiene in ostaggio migliaia di sfortunati ragazzi, anche se suo fratello Cesare era poi andato di leva nei paracadutisti della Folgore, a Pisa, e ora tornava a casa in licenza vestito come un guerriero in tuta mimetica, la mascella d’ordinanza e le mani pronte a colpire, e saputo che Peppe era quel che era aveva cercato di picchiarlo, si erano affrontati come i galli dei combattimenti e un giorno che erano a pranzo, la madre in piedi a rifornire la tavola e il padre in divisa ma inerte, Cesare gli aveva urlato, pensa te, non voglio comunisti in casa mia, e Peppe aveva afferrato la forchetta come un coltello e gliel’aveva piantata sulla mano, e stava ben diritta, la forchetta, e forse aveva spezzato un osso o due, il fratello paracadutista lo aveva fissato più che altro incredulo, e Peppe aveva detto così la smetti di farti le seghe pensando al duce, si era alzato e se n’era andato. Ora era un funzionario dell’organizzazione, molto occupato a convocare cortei e simili.

    Peppe viveva con Enrico e altri di passaggio nell’appartamento del settimo piano, dalle parti dell’università, che l’organizzazione aveva preso in affitto come foresteria, ma certo non l’avevano arredato, e si dormiva su materassi appoggiati per terra o su reti residue quasi sfondate in mezzo, e ciascuno si era fabbricato tavoli con i cavalletti e si era comprato scaffali da due soldi per i pochi libri esuli dalle case di famiglia, una caffettiera elettrica che Enrico una volta dimenticò di riempire di acqua e si fuse come un orologio in un quadro di Salvador Dalì.

    Ma il telefono sì, quello c’era, vedi mai, una convocazione straordinaria e urgente. Perciò lo squillo fece sobbalzare Enrico, che era adagiato inerte sul divano e non pensava a nulla, quasi una astrazione da guru indiano, o allievo di guru, era tutta salute, non pensare a niente, gli capitava da quando era venuto via da Milano, molti mesi prima, era venuto via da Annamaria, che si sarebbe subito messa con Michele, l’operaio d’avanguardia, e lui non aveva avuto la forza di star lì a guardare, quindi aveva chiesto al suo docente, ormai si era laureato in storia con una tesi su Emilio Lussu, se per caso un suo collega professore aveva bisogno di un assistente a Roma. A Roma? Beh, io vengo da lì, sa com’è… E il posto si era trovato, pochissimi soldi ma un lavoro pressante, gli esami, le lezioni e i seminari, come nuotare nel mare agitato dell’università di Roma, una colata di lava in via di lento raffreddamento, forse, però c’era un mucchio di gente interessante, a patto di evitare la mensa di via De Lollis, una vera merda, e mangiare invece da Garibaldi, a San Lorenzo, i robusti bucatini scotti all’amatriciana, ma poi chi se ne frega, il tempo era rubato a riunioni ininterrotte, e cortei, soprattutto, viaggi in periferia a incontrare aspiranti militanti o la notte a scortare famiglie che occupavano palazzi vuoti, camion colmi di mobili brutti di formica, uomini grossi abilissimi a far saltare le cerniere delle porte corazzate dei palazzi finto-lusso dalle parti di Porta Portese, per esempio, o palazzoni a San Basilio, strade nemmeno asfaltate, inutile servizio d’ordine con le fasce rosse al braccio di ragazzi magri come Enrico ma risoluti, fosse venuta la polizia. Che infatti arrivava, i familiari cappottoni pesanti e caschi grigi, gli scudi scheggiati da tante battaglie, si mettevano in fila sulla strada e aspettavano qualcosa mentre le famiglie organizzavano il trasloco con ordine, i materassi per primi, i bambini per la mano e Enrico imparava, osservava, ne discuteva con la sua cellula.

    Il telefono squillava, dev’essere il solito coglione, pensò pigramente. Per un qualche disguido di cavi o centraline, da qualche mese il loro numero si era sovrapposto o intrecciato a quello del ministero dell’Aeronautica, qualche strada più in là, e non c’era stato ancora verso di convincere la SIP a rimediare. Perciò lui e Peppe e i compagni di passaggio, come Mimmo, lo spiritoso napoletano che si era fermato qualche tempo per oscuri scopi militanti, sentivano alzando la cornetta una voce perentoria e marziale: «Mi passi il generale Ciconte, subito!», oppure: «Sono il colonnello Squitieri, voglio la sala operativa!», e ogni volta un punto esclamativo, che palle. E in principio loro rispondevano, garbati: «Guardi che c’è un errore…», ma l’uniforme al telefono non li lasciava mai parlare, anzi: «Caporale non fare il fesso, guarda che ti sbatto in Sardegna!», e minacce del genere. Il colonnello sbagliare il numero di telefono? Non può essere. Perciò, dopo un po’ Enrico e Peppe e Mimmo e gli altri si stancarono, e fu il napoletano il primo a rispondere, alzando la voce e altrettanto marziale: «Il generale Ciconte è al cesso con le sue riviste porno!», o «dalla sala operativa hanno detto di mandarla affanculo!», e più elegante «abbiamo costituito il soviet del ministero e lei è stato degradato, se viene qui la arrestiamo e la fuciliamo!», e giù la cornetta. Bizzarro a dirsi, il colonnello o il generale non richiamavano mai, forse avevano un altro numero da mettere sugli attenti, ma certo qualche caporale era finito in Sardegna, a far la guardia a un rottame di aereo e a guardare con nostalgia il mare celestino e fresco tra gli scogli.

    Lentamente, cercando nella testa una frase insultante o sarcastica, Enrico si alzò dal divano e andò al telefono, alzò la cornetta e sentì solo una voce che diceva: «Pronto?». Che strano, la voce non gli pareva ignota. Esitò. La voce ripeté, ma senza urgenza, anzi pacatamente: «Pronto?».

    «Pronto», rispose finalmente Enrico, diffidente.

    «Sei Enrico?», chiese la voce.

    «Mi hai scoperto», rispose senza riflettere, non valeva scherzare con chissà chi.

    Dall’altra parte cadde una lunga esitazione. Finalmente la voce riprese: «Allora sei proprio tu», disse restituendo l’ironia. E aggiunse: «Sono Italo».

    «Italo chi?», chiese Enrico e avrebbe voluto aggiungere che razza di nome, ma in un istante frenetico rivide Italo Breda, il compagno di scuola liceale, vestito come un pagliaccio dalle zie sadiche, i capelli come chiodi biondi martellati sul cranio rotondo uno a uno, quello che si sedeva goffo, posava sul banco un libro, Mein Kampf, e diceva a tutti, cioè a nessuno: «Io sono nazista». Finché un giorno Franco il furibondo lo aggredì, gli diede un pugno e gli ruppe gli occhiali. Per via di un commento insultante sul Che Guevara, il cui corpo come un cristo era appena stato mostrato. E gli avevano mozzato le mani. Però l’ultima volta che lo aveva visto, Breda, all’esame di maturità, era vestito in modo più umano, benché avesse lividi sulla faccia, ma non era stato Franco a picchiarlo, non avrebbe potuto, era già sepolto da qualche parte. E ora eccolo qui, il nazista, insomma al telefono: «Che cosa vuoi?», gli chiese sgarbato. Coi fascisti non si parla, li si osserva solo per prendere la mira, eh.

    «Lo so cosa stai pensando, che coi fascisti eccetera», disse il telepatico Breda. «Ma io ti chiamo per farti un favore. Per farvi», aggiunse.

    «Bene, prima di tutto, dimmi come hai avuto questo numero di telefono dell’aeronautica militare», disse Enrico.

    Italo sembrò confuso: «L’aeronautica?», chiese, forse pensando a Italo Balbo, il suo omonimo eroe delle trasvolate atlantiche. «Non so niente di questo, però hai risposto tu».

    «Già». La conversazione stava prendendo una piega alla Ionesco, del tipo La cantatrice calva, ah, lei abita nel mio stesso letto, allora forse siamo marito e moglie, l’aveva letto per un esame qualche anno prima e aveva pensato: ecco la mia autentica visione del mondo, il caso come supremo regolatore della vita, ma era stato un piccolo pensiero fuggito via come una lucertola.

    «Bisogna che ci vediamo, disse Breda.

    «Questo è più difficile, e non mi hai detto come hai questo numero».

    Dalla cornetta venne un suono come uno sbuffo, ooooof, la voce disse: «Non è che dormiamo».

    Il noi impressionò Enrico. Dunque è un sondaggio a nome di chissà chi, qualche banda i cui aggettivi preferiti sono nero e nazionale. E io divento, se accetto di parlare, il terminale dell’organizzazione, e sì che questo telefono è negli elenchi di numeri utili in sede o nelle agende di pochi compagni, forse qualcuno collabora con i nazisti, chiunque siano i camerati di Italo Breda.

    «Bene, dovrò fare qualche sondaggio anche io».

    «Anche?».

    «Lascia perdere. Però devi darmi una ragione, per vederci, che non sia prendere un caffè e rievocare i bei tempi del liceo, quando tu facevi la parte dello scarafaggio».

    Italo rise, rise per davvero, forse la parte dello scarafaggio gli piaceva, e come avrebbe detto Mimmo il napoletano pure lo scarrafone è bello a mamma sua, e figuriamoci quanto piaceva a se stesso, lo scarafaggio. Così, doveva aver macinato ed espulso le sue turbe psichiche da adolescente squilibrato, ora era un bravo burocrate della squadraccia incaricato di stabilire un ponte con i nemici rossi, e cioè, per restare agli insetti, le zecche. Si fece serio e aggiunse: «Un pericolo imminente, sia per voi che per noi», disse rapido e glaciale.

    «Cos’è, una caricatura degli opposti estremismi?».

    Italo non rispose nemmeno, aspettò, il silenzio si prolungava, infine disse: «Vuoi parlarne con un tuo capo?».

    Enrico annuì, anche se nel telefono non si vedeva. «Dove ti trovo, nel caso?».

    «Ti richiamo io tra qualche giorno, ok?».

    Enrico posò la cornetta, pensando che era il caso di chiedere alla SIP un nuovo numero, per evitare generali, colonnelli e nazisti. Però la prima cosa che fece non fu di chiamare Edoardo, il segretario di federazione, il suo capo, come aveva detto Italo, ma Alberto, che era sul punto di diventare psichiatra con tutte le carte in regola, che

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