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La dolce vita di Fraka: Storia di Arnaldo Fraccaroli, cronista del Corriere della Sera
La dolce vita di Fraka: Storia di Arnaldo Fraccaroli, cronista del Corriere della Sera
La dolce vita di Fraka: Storia di Arnaldo Fraccaroli, cronista del Corriere della Sera
E-book620 pagine8 ore

La dolce vita di Fraka: Storia di Arnaldo Fraccaroli, cronista del Corriere della Sera

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Fraka inventore della dolce vita, cronista che sapeva fotografare con le parole, filosofo, poeta, commediografo, umorista e curioso delle donne. Questo è stato il veronese Arnaldo Fraccaroli (Villa Bartolomea 1882-Milano 1956), per quasi 50 anni inviato del Corriere della Sera.
Grazie alla sua versatilità, Fraka – così amava anche firmarsi – produsse migliaia di articoli d’ogni genere e oltre cento tra romanzi, libri di viaggi, novelle, saggi, lavori teatrali e biografie (tre sull’amico Puccini).

Aveva prima di tutto  classe da vendere e una capacità straordinaria di passare dal reportage di guerra alla commedia brillante.
Inventò inoltre l’espressione “dolce vita”, così titolando una sua opera.
Fu inotre, durante il primo conflitto mondiale, uno dei migliori corrispondenti dal fronte.
Rese celebre la frase “meglio vivere un’ora da leone che cent’anni da pecora” e per il suo comportamento in battaglia ottenne una croce e una medaglia al valor militare.
È stato uno dei primi cronisti a volare su dirigibili e aeroplani e a visitare Hollywood. Scoprì e fece conoscere l’America degli “anni ruggenti” e il jazz.
Dal 1920 al 1940, girò tutti i continenti, svelando agli italiani il mondo e le novità del secolo.

Gianpietro Olivetto, nato nel 1950 a Lonigo (VI), vive a Sacrofano (Roma). Giornalista professionista. Già caporedattore Rai. Inviato, caposervizio e vaticanista a Il Mattino di Napoli (per 15 anni) e a L’Informazione.
Ha seguito grandi fatti di cronaca e una quarantina di viaggi di Giovanni Paolo II. Redattore a L’Eco di Padova, Il Diario, Il Gazzettino, Il Giornale di Vicenza.
Dal 1996 al 2014 in Rai: cronista alla struttura per il Giubileo del 2000; conduttore dei giornali radio della notte, dell’alba e del pomeriggio/sera; redattore capo a Gr Parlamento.
Collaboratore per anni del settimanale Oggi.

Prefazione di Gian Antonio Stella
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788899332600
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    Anteprima del libro

    La dolce vita di Fraka - Gianpietro Olivetto

    Sera

    - I -

    UN’INFANZIA, TRA POVERTÀ E SOGNI, NELL’ITALIA UMBERTINA

    Il paese d’origine e il contesto storico

    Arnaldo Fraccarollo (solo più tardi, ai primi del ’900, quando inizierà la carriera giornalistica, si farà chiamare e si firmerà Fraccaroli) nasce il 26 aprile 1882, terzo mercoledì dopo Pasqua, nel giorno dei santi Cleto e Marcellino.

    Il 1882 è l’anno della morte di Giuseppe Garibaldi, della triplice alleanza tra Germania, Austria/Ungheria e Italia e della riforma del voto, voluta dal IV governo Depretis, che porta la base elettorale, solo maschile, dal 2 al 7% della popolazione. Ma a Fondovilla, frazione di Villa Bartolomea – minuscolo paese, posto sul fianco destro dell’Adige, sperduto nella campagna della Bassa, egualmente distante da Verona, Mantova e Rovigo – di questi avvenimenti non arriva nemmeno l’eco. Arnaldo nasce, quando già fa buio, in una modesta e spoglia abitazione vicino alla stazione ferroviaria, da Antonio, detto Busola, e Angela Zancopè, che il padre, vedovo di Rosa Cavarzere, ha sposato in seconde nozze. Ad aiutare Angela nel parto è una vicina comare. E Antonio è felice perché è arrivato un maschio.

    A Villa si coltivano ortaggi e piante da frutto, barbabietole, frumento e patate, mais, soia e tabacco, ma soprattutto il riso, il vialone nano, lavorato nell’opificio La Pila, l’impianto con mulino per la pilatura del cereale, che da 150 anni si erge lungo uno dei tanti canali di scolo, il Cagliara. Legnago, la città di Antonio Salieri, il rivale ossessionato di Mozart, è a pochi chilometri.

    Villa Bartolomea, distesa nel verde ai piedi dell’argine pensile del fiume, ha origine remote. Fu abitata da paleoveneti, etruschi e romani. Qui passava il tracciato della strada consolare Aemilia/Altinate. Nell’alto medioevo vi arrivarono i monaci benedettini che iniziarono una vasta opera di bonifica, proseguita con i Sambonifacio, signori di Villa per ben cinque secoli, e divenuta efficace in epoca moderna. Il borgo e il territorio circostante, posti nelle grandi valli veronesi e stretti tra i fiumi Adige e Tartaro, erano infatti soggetti a frequentissime inondazioni, che per secoli li rendevano, in ampie zone, paludosi.

    Terra acquitrinosa e avara, di nebbia e di fatiche. Condizioni che dovrebbero indurre a malinconia, ma che invece – grazie, si dice, all’aria frizzante che arriva sin qui, diretta, dal lontano Monte Baldo – rendono la gente che vi nasce allegra e dolcemente folle. Villa Bartolomea è l’emblema di una realtà regionale di grande povertà; tra il 1876 e il 1900, un milione e quattrocento mila veneti – pari al 25% della popolazione – sono costretti a emigrare per non morire di fame. Savoja, Savoja, intanto noaltri andemo via... Porca troia, il ritornello sconsolato e più recitato di quei tempi.

    Sul finire dell’Ottocento, dopo un processo di unificazione durato oltre dieci anni, l’Italia è un Paese agricolo (la popolazione rurale è più del 68%) dalle differenze sociali molto profonde e con una grande disparità tra Nord e Sud. Il regno di Umberto (1878/1900) vede al governo soprattutto la sinistra storica. È un periodo di grandi entusiasmi per le novità scientifiche e tecnologiche, ma anche un momento storico drammatico, in cui lo scontro sociale assume toni sempre più violenti. La classe operaia si organizza e trova riferimento nel neonato Partito socialista. In tutt’Italia si succedono gli scioperi. I braccianti protestano contro agrari e latifondisti. Tumulti per il caro vita scoppiano, tra maggio e giugno del 1898, anche a Milano, dove il secolo si chiude nel sangue: il generale Fiorenzo Bava Beccaris pone la città in stato d’assedio e usa i cannoni contro la folla che chiede lavoro e giusta mercede e che protesta contro l’aumento del prezzo del pane. Bilancio: oltre cento morti e 400 feriti.

    Di questa situazione poco o nulla arriva alla gente comune. Il Paese è largamente semianalfabeta; nel 1875 sono ancora 17 milioni i connazionali che non sanno né leggere né scrivere, il 63% degli abitanti. Gli elettori raggiungono appena il 2%. E pochissimi seguono i giornali: la tiratura complessiva dei vari fogli che si pubblicano non supera il mezzo milione. Quando sta per finire l’Ottocento, i quotidiani sono un centinaio, in gran parte emanazione delle elités e dei poteri forti. I maggiori sono: Il Secolo, di orientamento radicale, nato nel 1866 e il più venduto (120 mila copie), Il Corriere della Sera, organo moderato e liberale, fondato nel 1876 da Eugenio Torelli Viollier, La Tribuna, Il Messaggero, Il Gazzettino, La Stampa, Il Giornale di Sicilia, Il Mattino di Napoli, La Gazzetta del Popolo, Il Resto del Carlino, il Roma.

    Il mondo dell’informazione si sta comunque aprendo a una nuova stagione. Grazie soprattutto al telegrafo e all’evoluzione di questo strumento, che consente la trasmissione, praticamente diretta, delle informazioni; in sostanza si pubblica e si rende noto oggi, quanto accaduto ieri.

    La famiglia e l’infanzia

    I genitori di Arnaldo sono poveri artigiani. Il papà, che trasmette al figlio la passione per la musica e il melodramma, vende, in casa, pane, grappini, bianchetti (bicchieri di vino) e brasadèle (ciambelline dolci e dure) e, quando può, li commercia nei mercati dei paesi limitrofi, che raggiunge su di una bicicletta, attrezzata con una rudimentale cassetta-contenitore. Assieme alla moglie, gestisce un negozietto, a metà tra drogheria e osteria. Di professione è liquorista-caffettiere. I clienti sono braccianti e contadini che lavorano nelle valli, e gli addetti all’alzaia, operai che si recano, la mattina presto, sugli argini del fiume Adige, per trainare, con delle funi, controcorrente, barconi e chiatte. Antonio Fraccarollo ha cinque figli ancora viventi, tre dalla prima moglie (Luigi, Gaetano e Maria, nati rispettivamente nel 1857, nel 1861 e nel 1862), due dalla seconda (Rosa Alice o Rosina, del 1873, e Arnaldo). Altri sette bambini, nati sia da Rosa Cavarzere sia da Angela Zancopè, sono morti subito dopo il parto, a qualche settimana o mese di distanza o, come nel caso dei piccoli Maria Teresa Anna, Pietro e Giovanna, quando avevano rispettivamente due, tre e dieci anni. Decessi prematuri, dovuti a una condizione di povertà, malnutrizione e ignoranza, alla mancanza di medicine e a uno stato igienico-sanitario estremamente precario.

    Dopo una disastrosa inondazione dell’Adige, cui fa seguito, sempre nel 1886, un’epidemia di colera, l’agricoltura locale va in crisi e l’attività dei Fraccarollo ne risente pesantemente. Sono anni di fame, sacrifici e privazioni. Mattina, mezzogiorno e sera si mangia polenta, condita, a volte con le cipolle, a volte con le patate. Ogni tanto un po’ di minestra. Quasi mai la carne. E la pellagra la fa da padrona. Gli abitanti di Villa abitano in casolari collegati da viottoli fangosi e impraticabili e sono obbligati alla miseria. L’inverno è freddo e sempre nuvoloso. In estate si è preda di un caldo infernale e delle zanzare. Così il padre decide di lasciare Villa e di emigrare a Lonigo, per cercar fortuna, avvicinandosi a Gaetano, figlio della prima moglie, impiegato come capo fornaio nell’avviato negozio di pane e pasta dei fratelli Rossettini. Nella piccola città vicentina da qualche anno si è trasferito, per lavoro, anche l’altro fratello, Luigi. Arriva dunque l’occasione per riunire tutta la famiglia e per cercare di sfuggire alla fame e alla disperazione.

    L’arrivo a Lonigo e la passione per il teatro

    È il settembre del 1887. I Fraccarollo – che perdono una consonante e diventano Fraccarolo per un banale errore di registrazione all’anagrafe leonicena – vivono in una casa operaia presa in affitto, al civico 34, quasi a metà di via Molino Soppresso, poi via Fabio Filzi. Un’abitazione assai modesta a tre piani (quattro piccole stanze, collegate da una scala in legno) che si distingue, all’esterno, in facciata, per un bordo decorativo, una sorta di greca. Il 25 febbraio 1889, a 63 anni, il padre Antonio muore. Arnaldo, che non ne ha ancora fatti sette, si lega, in maniera profonda e quasi morbosa, alla madre cinquantenne, nei confronti della quale mostrerà un affetto particolare (in alto a sinistra di ogni articolo, in molti appunti e sul frontespizio di tutti i suoi libri scriverà, in maniera abbreviata, la frase Evviva la Mamma benedetta, sempre!, seguita dalla data). La famiglia è in grande difficoltà. Angela Zancopè si inventa un lavoro, mettendo a frutto le sue doti di cucitrice e di pratica donna di casa. Con la figlia Maria presta servizio a domicilio nelle famiglie agiate del vicinato come rammendatrice e stiratrice e poi vende, a piano terra e sull’uscio dell’abitazione di via Molino Soppresso, i prodotti del piccolo orto che sta sul retro dell’edificio. A tutti provvede comunque il fratello Gaetano, che fa il pasticciere e il fornaio nel negozio gestito da Giobatta Rossettini, in via Garibaldi. Luigi, l’altro fratellastro, più anziano, si trasferisce invece, dopo qualche tempo, a Milano, dove troverà lavoro prima da impiegato, poi come ispettore assicurativo.

    Arnaldo vive con le sorelle Maria e Rosa Alice. Ama recitare e, sin da bambino, d’inverno, nella cucina, vicino alla stufa a legna, dà spettacolo per la sua cerchia di amici, con un teatrino di burattini composto d’una dozzina di personaggi, tra cui spiccano la Siora Rosaura, Arlecchino e Facanapa o Fraccanapa. Manovra con grande abilità i burattini. Inventa storie e battute, cambiando il tono di voce, di fronte a una piccola platea di ragazzini. A primavera avanzata, d’estate e nelle belle serate d’autunno, Arnaldo allestisce lo spettacolo davanti all’abitazione, schiena al muro, le gambe divaricate, il teatrino tra le mani.

    Nel 1891 il fratello maggiore Gaetano si sposa e porta in casa Fraccarolo la giovane moglie, Regina Lovo. Il ragazzino si affeziona alla zia, anche lei ottima cucitrice, e con il suo aiuto realizza altri burattini e organizza, a fianco della cucina, in una stanza che serve da ripostiglio, una piccola sala-spettacoli, con tanto di posti a pagamento (15 centesimi a sedia) e un palchetto, dal quale, con aria da severo capocomico, intrattiene gli amici, attratti dalla sua arguzia, dalla simpatia, dalla vivacità di espressione e dalla capacità d’inventiva.

    Arnaldo è un adolescente esuberante, intelligente, cui piace, naturalmente, giocare e che vive con entusiasmo la sua età. Tenta i primi esperimenti di nuoto, con i compagni d’avventura, nel Guà, il fiume che, con ansa sinuosa, attraversa la cittadina, abitualmente tranquillo, ma veemente, a primavera, per lo sgelo in montagna. Passeggia sui vicini monti Berici. Ama la sua città, adagiata sui colli e dall’aria nobile, per via dell’impronta scenografica, delle strade e dei portici, di palazzi e piazze collocati in maniera da creare fondali e ideali quinte, delle ville (c’è ne una, nella frazione di Bagnolo, firmata dal grande Andrea Palladio), del Teatro e dell’ippodromo: il Circo o Circolo, sorto nel 1868, due anni dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia.

    A scuola nella città dell’antica Fiera dei Cavalli

    Sul finire dell’800 Lonigo vive uno dei suoi periodi migliori. È una città – il titolo gli è stato attribuito nel 1833 dall’imperatore austriaco Francesco I – di oltre 10 mila abitanti, fiorente, ricca di attività commerciali, artigianali e imprenditoriali, vivace culturalmente e anche bella. Collocata com’è tra i colli e la sterminata pianura padana, con la Rocca Pisana, la villa in stile palladiano realizzata da Vincenzo Scamozzi, che la domina dall’alto. Vi sono diverse filande per la lavorazione della seta (in quel periodo, in Italia, la maggior industria esportatrice), cotonifici e fabbriche meccaniche e per la lavorazione della canapa. Vi si tengono quattro fiere all’anno e tre mercati settimanali.

    La fiera più importante è quella dei cavalli o della Madonna, in primavera, nata nel lontano 1486 sulla scia di un miracolo, tra le più antiche e rinomate d’Europa, la migliore del Regno, scrive Il Sole di Milano il 17 aprile 1897. Questa fiera trae origine dalla tradizione popolare e religiosa. Si tramanda infatti che il 30 aprile del 1486, due ciabattini veronesi rubarono 50 scudi d’oro a un loro compagno di viaggio, che subito dopo uccisero. Compiuto il delitto, si nascosero nella chiesetta campestre di S. Pietro Lamentese, nella frazione di Pavarano, sulla strada che da Lonigo porta a Verona, allo scopo di dividersi il bottino. Qui, uno dei due, col pugnale, sfregiò l’immagine della Madonna dipinta su di un tabernacolo, che pareva osservarli. Ed ecco il miracolo: la Vergine – raccontano le cronache dell’epoca – si riparò l’occhio ferito con la sinistra mano, mentre l’altra piegossi sulla ferita del petto. Ancor oggi si possono, se pur a fatica, scorgere le tracce, sempre più labili, delle macchie di sangue che indussero a parlare di evento prodigioso e soprannaturale.

    Sul luogo sorsero un santuario e un monastero e per oltre tre secoli, nel piazzale antistante la basilica, si ritrovarono i fedeli che giungevano anche dalle più lontane contrade per venerare la Madonna del Miracolo. L’appuntamento perse gradualmente il carattere religioso, divenendo sempre più occasione di incontri, affari e contrattazioni e tramutandosi in un grande appuntamento economico.

    A questa fiera di fine marzo, spostata da inizi ’800 entro le mura cittadine, accorrono negozianti e commercianti di bestiame da ogni parte della penisola, e persino da Austria, Germania, Francia, Svizzera, Ungheria. La città allora si anima incredibilmente. E per un ragazzino diventa magica. Perché compaiono i giocolieri, i maghi, gli astrologi e i madonnari. Perché arrivano il circo equestre, le giostre di legno spinte a mano o tirate da un asinello e persino – come succede nel 1896 – la grandiosa giostra a vapore a cavalli galoppanti. Nei giorni della grande Fiera, in città vi sono migliaia di cavalli (tra gli 8 e i 10 mila; secondo alcuni studiosi di storia locale addirittura 25 mila), bovini di ogni razza e altri animali da mercato. Ed è presente la commissione militare del regio esercito, deputata all’acquisto dei quadrupedi per i reggimenti di cavalleria.

    Arnaldo frequenta le elementari pubbliche e la scuola secondaria tecnica – così come prevedevano le leggi Casati e Coppino – rivelando subito amore per lo studio, per la lettura e la scrittura, per la recitazione. A scuola predilige in particolare la compagnia di un ragazzo, che arriva da Venezia e che farà strada come compositore e violinista: Virgilio Ranzato, autore delle operette popolari Il Paese dei Campanelli e Cin Cin Là.

    A casa, ma anche in classe, nei ritagli di tempo, Fraccarolo scrive storie, inventate lì per lì, su fogli di carta, che poi conserva gelosamente in una valigetta. È forte in italiano. I suoi temi sono letti come modelli di stile e contenuto. La matematica invece non gli piace; ma lui si sforza e riesce a primeggiare anche in questa materia. Sogna di notte, come incubi, i teoremi di Pitagora o di Euclide e il professore che vuol farglieli entrare in zucca, tal Gaetano Gibelli. Il terribile insegnante capisce comunque il valore del ragazzo, ne diventa amico e ne sfrutta le doti, affidandogli la gestione del periodico, da lui diretto, Rivoluzione Scientifica. Di quel foglio, il piccolo Arnaldo è l’anima, svolgendo, al tempo stesso, le funzioni di segretario, redattore, impaginatore e correttore di bozze.

    «Bravo, bravo – gli dice invece un altro professore, Carlo Gonzato – scrivi commedie invece di studiare, vedrai cosa ti capita». Nel marzo del 1894 muore, all’improvviso, la sorella Rosa Alice, maestrina, poco più che ventenne. Il giovane si lega ancor di più alla madre, che lo seguirà, nel Veneto e poi in Lombardia, per il resto della sua vita.

    L’incontro con Renato Simoni e la collaborazione con L’Arena

    Fraccarolo non ha nemmeno 12 anni, quando, in un quaderno di scuola, abbozza riflessioni semiserie sull’esistenza e i suoi primi dialoghi teatrali. Riempie di annotazioni e di copioni decine di brogliacci e li invia, a più riprese, a Renato Simoni, critico de L’Arena, ventenne ma già cronista affermato, ricevendone attenzione e incoraggiamento. Dopo qualche settimana infatti, Simoni prende carta a penna e fa arrivare a Lonigo una lunga lettera (ben otto pagine) zeppa di consigli, che si conclude così: Dovete essere molto giovane. Ma la vena c’è. Non abbiate impazienze. Lavorate, lavorate, lavorate. Per il ragazzo è un invito a nozze.

    Arnaldo, entusiasta per l’aperta stima manifestatagli dal giornalista, intensifica la sua produzione e continua a spedirgli nuovi testi. È testardo e ambizioso, sicuro di sé come pochi, dotato di un’incredibile e bizzarra fantasia. Un giorno compie il grande passo e, di punto in bianco, invia all’Arena, all’attenzione di Simoni, una recensione relativa a uno spettacolo svoltosi al Teatro Comunale. Siamo agli inizi del 1895 e Arnaldo è poco più d’un bambino; pure se a vederlo – uno spilungone magro, alto come una pertica – appare di maggior età. Lo scritto, anche se non subito, viene comunque pubblicato. E il piccolo Fraccarolo si galvanizza. Invia altri articoli e firmandosi A. Rena (una banale trovata, ma che a lui sembra geniale) si inventa e diventa corrispondente da Lonigo e dal Basso Vicentino per il quotidiano veronese. A Simoni arrivano pezzi di vario genere, resoconti di cronaca soprattutto, e poi interviste e recensioni di avvenimenti culturali.

    Il ragazzo è attento e curioso, vivace e irrequieto, appassionato di quanto scrivono i giornali. Legge avidamente di tutto. A Lonigo frequenta la famiglia di Giuseppe Carlotto, gentiluomo di campagna che abita nella dependance della villa del Palladio, nella frazione di Bagnolo, dove amministra la vasta tenuta dei conti Ferri De Lazzara/Pisani. Mille campi vicentini adibiti alle colture del riso e del grano soprattutto, della vite, del tabacco e della barbabietola. Il centro operativo è nella splendida residenza realizzata in età giovanile dal famoso architetto vicentino. A tredici anni Arnaldo diventa copista dei documenti di Giuseppe. E a casa Carlotto trova pane per i suoi denti: giornali, riviste e libri, tanti libri. È amico, in particolare di uno dei figli di Giuseppe, Gustavo Adolfo, che alla morte del padre, nel 1908, proseguirà, appena ventiduenne, il lavoro di gestione della vasta proprietà, divenendo un personaggio di spicco nella Lonigo di inizi ’900, agronomo di qualità, poeta, letterato e ornitologo.

    Affettuosa tutrice di Fraccarolo è la madre di Gustavo Adolfo, Clementina Rosa, primogenita dei proprietari delle più importanti filande di Lonigo, che producono una seta classica venduta direttamente in Francia col marchio Non v’è rosa senza spine. La donna intuisce le grandi doti del ragazzo, lo consiglia e lo aiuta. È quasi una seconda madre. A lei Arnaldo scrive per anni biglietti di stima e di affettuosa riconoscenza e, più avanti nel tempo, divenuto cronista del Corriere, non mancherà mai, se di passaggio a Lonigo, di recarle visita.

    Fraccarolo frequenta casa Carlotto e anche l’abitazione, in via Quirico Rossi, della famiglia Rosa, che possiede una piccola ma ben assortita biblioteca. E si nutre di libri, andando, spesso, a casa di Giobatta Mugna e della giovane moglie, Silvia Bernardini, appassionata di poesie e teatro, che trasforma la sua residenza vicino al Duomo in un vero e proprio salotto artistico e letterario. Il ragazzo è un divoratore di carta stampata. Legge ogni giornale che gli arrivi a tiro. Ama i volumi di storia e soprattutto i romanzi, che trova alla biblioteca comunale circolante. Preleva un paio di libri a settimana e, litigando col bibliotecario, anche quelli non adatti alla sua età (ch’io desideravo con curiosità più intensa, ricorderà negli anni ’40 sul Corriere). E sogna. Divora romanzi e vuol essere scrittore. Legge i quotidiani e si propone di diventare giornalista. Frequenta il teatro e le compagnie di guitti e sospira: «Ah, potessi scrivere commedie!».

    Desidera, soprattutto, poter viaggiare per il mondo, lontano, lontano... sui flutti dell’ampio oceano, come aveva sentito cantare nel Mefistofele, l’opera di Arrigo Boito ispirata al Faust di Goethe, data in Teatro per la stagione della Fiera di fine marzo. Ogni tanto Arnaldo si reca, in bicicletta, alla stazione dei treni di Locara, che dista qualche chilometro da Lonigo. Alla cancellata, nel tramonto, guarda, con infinita malinconia, i convogli che passano e vanno lontano, verso l’ignoto. In un compito di scuola scrive, sul tema del lavoro futuro: «Il mio obiettivo? Fare il giornalista e grandi viaggi. Scrivere romanzi e per il teatro». «La fantasia, eccitata dalle molte letture – ricorderà molti anni dopo – correva sbrigliata verso un avvenire non ben precisato, ma sfavillante di luce».

    Ventenne, con l’amico leoniceno Gustavo Adolfo Carlotto. Achivio Fraccarolo

    Ad affascinare il ragazzo è soprattutto lo spettacolo. Appena può Arnaldo scappa a Verona per seguire opere e recite dai loggioni. Frequenta, stabilmente, il Comunale di Lonigo, il nuovo, splendido teatro, con tre ordini di palchi, le poltrone in velluto rosso e il foyer liberty, inaugurato il 23 ottobre 1892 con il Ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Ama la musica e per un po’ studia anche violino. Nello scrivere scenette e commediole, Fraccarolo manifesta, da subito, una vocazione letteraria non comune. Abbozza una farsa, In cucina, che verrà terminata e data alle stampe solo più tardi, nel 1900, e che sarà rappresentata lo stesso anno, proprio a Lonigo, dalla compagnia veneta di prosa di Alberto Brizzi ed Enrico Corazza, composta da giovani usciti dal complesso di Emilio Zago, famoso attore dialettale veneziano.

    Intanto prosegue il lavoro con L’Arena. Da Renato Simoni (che gli si rivolge correggendo il cognome e chiamandolo per primo Fraccaroli), Arnaldo riceve lettere contenenti osservazioni e consigli sui servizi inviati. Una sorta di scuola di giornalismo per corrispondenza. Agli inizi del 1896 arriva l’invito a presentarsi in redazione. Così, a primavera, in un giorno di vacanza, il ragazzo, non ancora quattordicenne – in testa, sotto i folti capelli, la magiostrina, un cappello di paglia – inforca la bicicletta e percorre, fiducioso e a pieni polmoni, i trentatré chilometri che separano Lonigo da Verona. È l’inizio di una grande avventura e di una carriera che lo porterà a viaggiare in tutto il mondo. Arnaldo si presenta subito a Renato Simoni, con in tasca l’ultimo copione scritto su di un quaderno di scuola. Il giovane critico squadra con aria sorpresa lo sperlungone, allampanato e dall’aria spavalda, chiuso in un abito stretto come una guaina, in calzoni corti e tutto occhi e capelli, che gli sta davanti, e dice: «Avevo capito che si trattava di un giovanotto, ma mi trovo addirittura dinanzi a un ragazzetto! Lo credevo giovane, sì... ma non sino a questo punto». Poi ripete l’invito: «Studi comunque! Continui a studiare!». E con parole di simpatia lo presenta ai colleghi e al direttore.

    La sera stessa, al Teatro Nuovo, la compagnia di Sarah Bernardt rappresenta La dame aux camelias. Il ragazzo non si lascia scappare l’occasione. Acquista, per una lira, un posto in piedi, in fondo alla platea. Ed entra mezz’ora prima che si alzi il sipario, per poter assistere all’affluire del pubblico. Uno spettacolo, per chi è poco più che un bambino e viene da un paesotto della campagna. Di colpo, tra la folla elegante che va a prender posto nelle poltrone, Arnaldo nota Simoni, con gilè fantasia e sgargiante cravatta. Prima di sedersi, il giovane critico, destinato a una grande carriera, gira gli occhi intorno e saluta alcune persone nei palchi, poi guarda verso il fondo della platea e nota Fraccarolo. Anche a lui si rivolge, con un cenno di mano, sorridendo. Una, due volte. «Dalla gioia e dalla commozione – ricorderà anni dopo l’inviato – mi sentii da quel momento giornalista con la G maiuscola». Tra i due si instaura un rapporto di grande simpatia, che diventerà nel tempo profonda amicizia. «Una di quelle amicizie salde e piene che danno gioia alla vita», dirà lo stesso Fraccaroli, nel 1941, in un articolo per i 75 anni de L’Arena, in cui racconta i suoi primi passi nel giornalismo. E Simoni ricorderà sempre con grande simpatia l’immagine di quel ragazzone che «veniva di tanto in tanto da Lonigo con in tasca il copioncello d’una commedia, scritta su di un quaderno».

    Quando ancora frequenta la scuola, Arnaldo inizia a collaborare con il settimanale di Vicenza La Freccia, giornale illustrato umoristico, satirico, politico, artistico, glaciale – così si definisce il foglio – di spiccata tendenza anticlericale, nato nel 1892. Su La Freccia il ragazzo prende in giro, in maniera arguta, le autorità e i personaggi leoniceni. Pungente, ma mai offensivo, secondo un motto latino che, raggiunta la fama, amerà ricordare pubblicamente: Ludere non laedere (scherzare senza ferire).

    Il diploma, il lavoro e le prime commedie

    Il 26 giugno 1896 Fraccarolo ottiene la licenza con onore alla scuola secondaria tecnica Carlo Ridolfi di Palazzo Scortegagna, con la media di 75,25 su 100. Ecco la pagella: calligrafia 8,25; computisteria 7,50; disegno ornamentale, geometrico e a mano libera 7,50; geografia 7,25; francese 7,00; italiano 7,50; matematica 7,25; nozioni di scienze naturali 7,00; storia d’Italia 8,00; nozioni sui doveri e i diritti del cittadino 8,00. L’anno successivo, il 5 settembre, si diploma, con una votazione di 28 su 30, al corso maschile stenografico, organizzato dalla prima Società stenografica italiana. Questa pratica di scrittura, che Arnaldo sviluppa rapidamente in maniera assai personale, gli sarà molto utile durante l’attività giornalistica.

    Per aiutare la famiglia, il quindicenne Fraccarolo è costretto a interrompere gli studi e su indicazione di Giuseppe Carlotto, trova impiego come garzone di negozio, nella storica cartoleria-tipografia di Giovanni Gaspari, in via Garibaldi, sotto i portici.

    «Non è certo un lavoro faticoso – gli dice il padre dell’amico Gustavo Adolfo – Ti lascia tempo per leggere, studiare, coltivarti per tuo conto». A 16 anni Arnaldo scrive un piccolo dramma in due atti, Legge d’onore che viene pubblicato dalla tipografia di Giuseppe Bisazza e Oreste Carretta (succeduti, nel frattempo, a Gaspari), e quindi recitato in piazza, sotto a un padiglione mobile, da un gruppo di guitti girovaghi, antesignano dei Carri di Tespi di epoca fascista. Negli ultimi mesi del 1898 il giovanissimo autore invia, a più riprese, a Simoni i suoi lavori. Con una lunga lettera, datata 4 gennaio 1899, il critico de L’Arena si dilunga nell’elencare difetti e pregi della nascente produzione letteraria di Arnaldo, entra nel merito della struttura scenica, critica o elogia i vari personaggi e conclude, con tono affettuoso e paterno: «Avete ancora molto, molto da fare... Avete ingegno e voglio credervi sulla buona via. Studiate, lavorate. Lavorate per voi. E vogliatemi bene. Vostro Renato Simoni».

    Diploma di licenza tecnica, 26 giugno 1896. Archivio Fraccarolo

    A maggio del 1899, ecco la prima, vera opera, Folletto, commedia in due atti, che lo stesso anno viene rappresentata al Comunale dalla compagnia di Enrico Dominici, in cui recita anche la celebre bambina-attrice Cornelia Pallotti. Il precoce autore dedica questo suo lavoro a Giacinto Gallina, considerato l’erede della grande stagione goldoniana, scomparso un paio d’anni prima: Alla memoria del forte e gentile poeta veneziano, come tributo della mia ammirazione a colui che ha fatto commuovere e sorridere tanti pubblici.

    Nella tipografia Bisazza/Carretta, Fraccarolo conosce Giovanni Cenzato, giovane milanese, figlio di leoniceni, che trascorre i mesi estivi nella cittadina veneta presso i parenti, anch’egli appassionato di scrittura e di commedie, che diventerà suo collega al Corriere della Sera, raggiungendo la qualifica di redattore capo.

    È appena diciottenne Arnaldo quando compone Ostrega che sbrego, rappresentata in teatro, la prima volta, solo un paio d’anni dopo e per la quale riceve un compenso di 300 lire. Si tratta di un’opera comica, che racconta, in dialetto e con una serie di buffe storpiate linguistiche, una bizzarra storia di paese, satira del mondo teatrale di provincia. In una piccola città del Veneto (ben identificabile in Lonigo) si prepara una rappresentazione del Barbiere di Siviglia e il consiglio comunale affida al cavalier Piero Basotto, in gioventù baritono, l’incarico di soprintendere allo spettacolo. Piero ospita Rosina, figlia del suo amico Pasquale, che il padre ha voluto allontanare da casa per farle studiare canto e per tenerla lontana dalla corte di un giovane spiantato. All’ultimo momento viene a mancare la soprano e Basotto si rivolge allora alla ragazza facendola esordire come prima donna. Ma c’è un altro imprevisto: anche Cafuro, il baritono titolare, dà forfait per un abbassamento di voce e dunque Piero assume il ruolo di Figaro. La rappresentazione ha inizio. In teatro arriva però il fidanzato di Rosina, Chiodini, che al termine del primo atto, riesce, sotto mentite spoglie, ad accedere ai camerini e a incontrare la ragazza, mentre il baritono sostituito si fa trovare sul palco assieme alla moglie di Basotto, Costanza. Gli equivoci che ne derivano producono una chiassata generale e l’interruzione dello spettacolo.

    Alla fine tutto si chiarisce. Pasquale si convince ad approvare le nozze tra Rosina e Chiodini (grazie a una promessa di laurea e a una lettera con cui una zia milionaria affida al giovane l’amministrazione dei suoi beni) e il cavalier Basotto ritorna a casa, riappacificato con la moglie e dimentico di Cafuro. Un gioco di funamboliche invenzioni sceniche, pieno di ritmo, destinato a divertire generazioni di spettatori.

    Essendo orfano di padre ed eccessivamente magro – è alto quasi un metro e ottanta, ma non raggiunge i sessanta chili – nel 1899 Arnaldo viene giudicato rivedibile alla visita di leva e dunque evita il servizio militare. Continua a lavorare come garzone di tipografia. Continua a studiare, con costanza e grande volontà, da autodidatta, a leggere e a informarsi di tutto. Continua a scrivere forsennatamente. Sa che imparare le lingue gli servirà molto nel radioso futuro di viaggiatore che si è disegnato. Conosce il francese. E inizia a studiare l’inglese di cui avrà piena padronanza negli anni da inviato. Si cimenta anche con il tedesco e lo spagnolo. Preso dal sacro fuoco del giornalismo, il ragazzo sente però che Lonigo gli sta stretta. La cittadina del Basso Vicentino – pur viva, perché ricca di officine, botteghe, magazzini e istituzioni culturali, piena di locande, osterie e caffè – non gli basta più. Lui vuol conoscere il mondo. Vuole viaggiare. Vuole, soprattutto, lavorare in un quotidiano dall’interno.

    - II -

    LE PASSIONI DIVENTANO REALTÀ L’ARRIVO AL CORRIERE

    Giornalista e commediografo a Vicenza La rivista El Bobò

    L’avvio del ventesimo secolo è segnato in Italia dalla massiccia migrazione, dalla malaria e dalla pellagra, dalla lotta di classe, dalle tensioni sociali e dai morti negli scioperi, da grandi tragedie naturali. I tempi stanno cambiando, soprattutto sul piano sociale. Anche nel Veneto.

    Nel 1901 il fiume Guà, così chiamato per i periodici guai che provoca, rompe a Sarego e l’inondazione provoca la crisi dell’agricoltura leonicena. E proprio sul finire di quell’anno per Fraccarolo arriva il primo colpo d’ala, grazie a una classica raccomandazione. Arnaldo lascia Lonigo per Vicenza – città in pieno sviluppo, che sfiora i 50 mila abitanti – per lavorare alla Provincia, quotidiano democratico del mattino. Ad assumerlo, a poco più di 100 lire al mese, è Enrico Sperotti, al quale il giovane viene segnalato dal padre di Gustavo Adolfo Carlotto, Giuseppe, che è amico del direttore del giornale. Arnaldo si presenta mentendo, per eccesso, sull’età e preannunciando il suo cognome – Fraccarolo – con tono forte e baldanzoso. Come fosse, tale cognome, quello di un giornalista noto in tutto il mondo. «Accomodati. Che cosa sai fare?». «Tutto». «Cosa significa tutto?». «Tutto». L’ostentata esibizione di sicurezza e la schiettezza del giovane leoniceno colpiscono Sperotti, che lo spedisce subito a seguire il fatto cittadino del giorno: il furto di decine di biciclette a opera di alcuni ladri straccioni.

    Penna e taccuino in mano, il giovanotto, che ha appena compiuto 19 anni, svolge con passione il suo lavoro di cronista. A notte inoltrata, uscito dalla tipografia De Osti, in contrà Do Rode, dove si stampa il giornale, passa a cenare con i colleghi al Garofolino, il cui proprietario, Gottardo Tadiello, li attende alzato. Quando è fuori e non può rientrare in sede, comunica via telegrafo, un’invenzione che sta costringendo tutto il mondo dell’informazione a cambiare stile. L’alto costo e la precarietà del servizio telegrafico obbligano infatti i giornalisti a dare conto, sin dalle prime battute dell’articolo, dei fatti più importanti, affinché la sostanza dell’evento arrivi in redazione, anche nel caso la linea dovesse cadere. Un modo di riferire che consente di inquadrare subito la notizia, rispondendo alle classiche domande: che cosa è successo, dove, quando, chi sono i protagonisti, come e perché hanno agito in quella maniera. La famosa regola anglosassone delle cinque W: what, where, when, who, why.

    Un’altra invenzione straordinaria è intanto in arrivo, anche alla Provincia di Vicenza, il telefono, destinato a rivoluzionare profondamente il mestiere.

    Nella città berica Arnaldo si trasferisce con la madre. Cambia definitivamente il nome in Fraccaroli – suona meglio e così gli si rivolgeva, per lettera, dal gennaio 1899, l’amico Simoni – e subito dà sfogo alla sua grande inventiva. Scrive, con lo pseudonimo Frustino, una parodia che l’Officina grafica vicentina gli stampa nel 1902. Si Celia: opera a quattr’occhi tra Diacono Orefice e Pietro Coscia su un gramma di Pietra Rossa. Quattro atti, che hanno come scenario Venezia e come protagonisti Si Celia, alcune cortigiane, un burbaiolo, un soldotto straviato, la titolare dell’Osteria del Pellegrino, un maestro orefice, un pittore, soprani e tenori improbabili e Viziano Tecellio. «L’unica cosa seria di questa parodia – ironizza l’autore nella prefazione – è quella di venir venduta a 30 centesimi».

    Il vulcanico Arnaldo – che continua a collaborare col settimanale La Freccia – non si accontenta di lavorare in un giornale. Ne crea anche uno di suo. Si chiama El Bobò, rivista brillante quindicinale, che firma come Frustino e il cui logo è un soldato in armature a piastre, posto su di un cavalluccio-giocattolo a rotelle. Il periodico – 18 pagine formato libretto, pubblicato dall’amico tipografo Luigi Fabris – esce, in otto numeri, dal 15 ottobre 1902 al primo febbraio 1903. Frustino, alias Fraccaroli, scrive tra l’ironico e il grottesco e così si presenta ai lettori:

    Egregio Signore, Vi piace la lettura geniale di cose argute, lo sfilare di articoletti brillanti, punteggiati da pupazzetti gustosi? Vi piace sorridere, anche se non avete bei denti da mostrare, ma solo pel gusto di dare un po’ di sussulti al diaframma e di facilitare la digestione? Ecco allora El Bobò... Non allarmatevi: El Bobò non è una pubblicazione dinamitarda; non commette che un solo genere di attentati: quelli alla musoneria. El Bobò – direbbe Massinelli (personaggio caratteristico del teatro dialettale milanese, creato dalla penna di Edoardo Ferravilla, n.d.r.) – è quella cosa... quella cosa che prendendola in mano ci si mette a ridere... A traverso le pagine del Bobò voi potrete vedere la vita vicentina, della città e della provincia, come a traverso quelle lenti grottesche che alterando i contorni, eccitano il riso. El Bobò riderà di tutto e di tutti, gaiamente e serenamente, senza acredine e senza partigianerie...

    Prima pagina dell’ultimo numero della rivista, 20 settembre 1903

    Il giornale piace. Contiene note semiserie sul lavoro degli amministratori comunali, una rassegna sui fatti emblematici della settimana, boutades, freddure e colmi, sciarade a premi (100 lire in rame e tutte, rigorosamente, in centesimi). Ha, tra i primi abbonati, uno scrittore locale che ha già conosciuto il successo, Antonio Fogazzaro, con il quale Fraccaroli avvia un rapporto d’amicizia, simile a quella di un figlio verso il padre. L’autore, oramai sessantenne, senatore del Regno, ha da poco pubblicato Piccolo mondo moderno, una delle sue ultime opere. Abita a villa San Sebastiano, alle pendici di Monte Berico, una residenza aperta a letterati e filantropi e in alcune occasioni frequentata dallo stesso Fraccaroli, che risiede poco distante.

    Anche Arnaldo, come Fogazzaro, aderisce alla società amatori del baccalà alla vicentina, un piatto – dirà lo scrittore Guido Piovene, dalla metà degli anni ’30 giornalista anch’egli al Corriere – in cui «bolle a fuoco lento una civiltà raffinata». L’ambiente in cui si muove Fraccaroli è stimolante. Vicenza sta conoscendo la sua epoca d’oro. Il poeta e abate Giacomo Zanella e l’imprenditore Alessandro Rossi sono morti da pochi anni, ma la loro influenza è ancora ben viva. L’economia e la politica locali sono dominate da figure come Fedele Lampertico (che è senatore del Regno), Gaetano senior e Vittorio Emanuele Marzotto (industriali lanieri), Paolo Lioy (naturalista e anch’egli parlamentare), Almerico da Schio (accademico, scienziato e pioniere dell’aviazione).

    Dal 15 febbraio, El Bobò diventa settimanale umoristico pupazzettato. Composto da quattro pagine di grande formato, una sorta di tabloid, esce ogni domenica al costo di 5 centesimi. L’abbonamento annuo è di lire 3. «Agli imbroglioni – scrive Frustino – si dà gratis». L’ultimo numero del foglio satirico, il trentanovesimo, viene pubblicato il 20 settembre 1903, perché di lì a poco Fraccaroli si sposterà a Padova. Il giornale è ricco, come al solito, di battute, aneddoti, anche in dialetto veneto, e resoconti sarcastici. E contiene il saluto del direttore e l’ultima lettera della sua unica, fantomatica collaboratrice, tale Nina Carampanella, che conclude: «I baci te li darò quando verrai. Intanto li apparecchio».

    Proprio un anno dopo la sua nascita – scrive Fraccaroli nell’articolo di congedo – Bobò smonta dal suo carrettino di legno e fa una riverenza a tutte le gentili lettrici sue, ai lettori cortesi... Frustino scappa. Non per debiti, intendiamoci! – scappa a Padova, e stando là non può far galoppare Bobò a Vicenza... Con Bobò il pubblico era felice, ma la felicità non è di questa terra, e forse nemmeno del mare! Però siccome Bobò non muore per malattia, ma soltanto si addormenta per risvegliarsi chi sa dove, niente lagrime, niente pianti, ma un’ultima risata finale, come stretta di mano per il congedo... Frustino presenta le armi e ringrazia i vicentini della ospitalità cordialissima e della grande cortese benevolenza. Ave!

    Una caricatura di Frustino, alias Fraccaroli

    Nei primi anni del ’900 Fraccaroli è un fiume in piena. Ha una volontà incrollabile. Legge e continua a studiare da autodidatta. Approfondisce la conoscenza delle lingue straniere. Scrive. Giorno e notte. Ore e ore alla scrivania, sulle carte o con l’occhio ai libri. È del 1902 – l’autore non ha ancora compiuto vent’anni – il suo primo romanzo. Tomaso Largaspugna, uomo pubblico esce a Milano per i tipi della casa editrice fondata dal mazziniano Arnaldo De Mohr, che diverrà l’editore di riferimento di Gabriele D’Annunzio.

    È la storia di un perfetto idiota, privo di reali qualità, pressapochista, ma furbo, tenace e vanitoso, che scala il potere diventando consigliere comunale, sindaco e infine deputato. I protagonisti sono: un uomo, Tomaso, divenuto ricco grazie a un’eredità (un nulla vestito a festa), la stampa compiacente (ovvero il cronista locale), una lobby casareccia (i maggiorenti del paese), un innocente voto di scambio (vino in cambio di consensi). Questo sistema consente l’elezione al Comune di un perfetto imbecille che sa solamente recitare a memoria, a ogni piè sospinto, formule politiche e frasi roboanti e a effetto, tratte e imparate dalla lettura dei giornali. L’arrivista Largaspugna non si accontenta. Vuol approdare in Parlamento. La sua candidatura alla Camera è sostenuta dal circolo Stringiamoci insieme, composto dai cittadini più influenti, capitanati dal farmacista e dal medico locali. Durante una cena elettorale che finisce in sbornia, Tomaso sostiene d’aver pronunciato un fondamentale discorso programmatico, che nessuno ricorda ma che tutti si autoconvincono di aver sentito, anche per non dover ammetter di aver bevuto troppo. Il giorno infine dell’elezione a deputato del Regno, Largaspugna si alza solenne, nell’aula consiliare, e rompe il silenzio dicendo: «Cittadini, grazie!». Poi torna a sedersi. Scrosciano, entusiasti, gli applausi. E qualcuno commenta: «Che oratore! Due parole e dice tutto!». «In questo splendore di tramonto – aggiunge poco dopo il politico da strapazzo, ricorrendo a una delle sue inutili frasi – nasce la nostra aurora... A tergo di questa vittoria dobbiamo procedere rimanendo fermi al nostro posto». Concludono i suoi elettori: «Onorevole, tu non sei più un uomo, sei una dimostrazione!».

    Il romanzetto, una satira politica e di costume dal sapore di una farsa, viene così pubblicizzato: «Romanzo ironico indicatissimo contro lo spleen, la noia e contro gli sbadigli. Si vende a lire 2 in tutte le librerie». Nel 1922 Largaspugna diventerà anche testo teatrale e nel 1993 verrà ripubblicato dalla casa editrice Sellerio, con un’opera di attualizzazione e di rilettura, in chiave moderna, del dilettantismo politico, del carrierismo, dell’incompetenza e dell’antico vizio italico chiamato corruzione.

    A Vicenza Arnaldo tiene anche i suoi primi interventi in pubblico, mostrando grande spigliatezza e padronanza di linguaggio. Fraccaroli è un goliardico, un simpaticone. Ha una bella voce, una voce sonante. Sa parlare e sa improvvisare. La sera del 27 febbraio 1903, nella sala dell’Accademia Olimpica di Vicenza, il giornalista – non ancora ventunenne – tiene una Conferenza umoristica dal titolo La psicologia del conferenziere, un saggio in cui prende in giro relatori e pubblico, che diventa anche un opuscolo di una trentina di pagine, stampato dalla tipografia vicentina Fabris. Lo stesso editore pubblica, in quell’anno, una parodia della Boheme, curata dal giovane cronista, dal titolo: La Bo-Boheme: quattro quadri di tutti i colori, musica di Giacomo Poncini.

    Lo scapigliato periodo padovano

    Alla fine del 1903 Fraccaroli lascia Vicenza per Padova, per lavorare all’edizione locale de La Provincia. Il quotidiano ha sede in via San Gaetano, nel cuore della città, ed è diretto da Francesco Sandoni, un battagliero del giornalismo, dal carattere focoso (si vanta d’aver condotto una dozzina di duelli), che ha grande fiducia nelle qualità di Arnaldo. Il giovanotto non delude la attese e brucia le tappe. Racconta, in maniera vivace, di ogni cosa; siano baruffe all’osteria, infortuni o modeste rapine, diatribe politiche, convegni o eventi culturali. E presto assume ruoli di sempre maggior responsabilità, diventando, nel 1906, redattore capo, alla paga mensile di 150 lire. Quando scrive commenti o articoli spiritosi inizia a firmarsi Fraka.

    E non si limita a lavorare per la Provincia. Sforna un giornaletto musicale, di breve vita, e contemporaneamente invia corrispondenze per la Gazzetta di Venezia, diretta da Vittorio Banzatti (che gli assicura un ulteriore compenso mensile di 30 lire) e collabora con i fogli universitari Pedrocchino e Lo Studente e con Il Veneto, altro quotidiano locale. Padova è città ricca e alla moda, che guarda a Parigi e Vienna, ma conserva un’aria grigia e severa. E in

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