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Il manicomio dei bambini: Storie di istituzionalizzazione
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E-book278 pagine4 ore

Il manicomio dei bambini: Storie di istituzionalizzazione

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«Avevo tre anni quando un’assistente sociale mi portò a Villa Azzurra che di quel colore non aveva proprio nulla. Ci finii perché quella buona donna di mia mamma mi aveva avuto da un uomo che della paternità se ne infischiò allegramente, non l’ho mai incontrato. Lei era giovane e sola…». Comincia così – con una storia terribilmente simile a molte altre – questo libro scritto per non dimenticare; per ricordare a chi è vissuto al tempo dei manicomi e per informare chi non c’era. Ma scritto anche per smontare l’illusione che oggi la fabbrica della follia sia altro da quanto era in passato: fenomeno di massa, fenomeno di poveri, manicomi (o realtà troppo simili) come discariche umane e sociali.
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2017
ISBN9788865791592
Il manicomio dei bambini: Storie di istituzionalizzazione

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    Anteprima del libro

    Il manicomio dei bambini - Alberto Gaino

    Cottinelli)

    Il libro

    «Avevo tre anni quando un’assistente sociale mi portò a Villa Azzurra che di quel colore non aveva proprio nulla. Ci finii perché quella buona donna di mia mamma mi aveva avuto da un uomo che della paternità se ne infischiò allegramente, non l’ho mai incontrato. Lei era giovane e sola…». Comincia così – con una storia terribilmente simile a molte altre – questo libro scritto per non dimenticare; per ricordare a chi è vissuto al tempo dei manicomi e per informare chi non c’era. Ma scritto anche per smontare l’illusione che oggi la fabbrica della follia sia altro da quanto era in passato: fenomeno di massa, fenomeno di poveri, manicomi (o realtà troppo simili) come discariche umane e sociali.

    L’autore

    Alberto Gaino, giornalista. Ha lavorato per Stampa Sera e La Stampa. Negli ultimi ventiquattro anni di professione si è occupato di cronaca giudiziaria seguendo le maggiori inchieste della magistratura torinese. Dal 2013 è in pensione. è autore di Falsi di stampa. Eternit, Telekom Serbia, Stamina (Edizioni Gruppo Abele, 2014).

    Indice

    Introduzione. A quarant’anni dal dossier Bambini in manicomio

    Prologo. I ricordi fanno di noi ciò che siamo

    Parte I. Dal manicomio degli adulti a quello dei bambini

    Discariche umane e interessi economici

    La lunga marcia delle istituzioni totali dei bambini

    Come si finiva a Villa Azzurra

    Scoppia lo scandalo

    Parte II. Storie di bambini in manicomio

    Saverio, il mostro che visse sempre legato

    Libero, il mariuolo

    Maria, il pregiudizio di genere

    Aristide, epilettico in manicomio

    Aldo e il Sessantotto

    Grazia e Valter, i gemelli

    Ignazio, morto legato nudo al letto

    Parte III. Uno sguardo sul presente e sul futuro prossimo

    E adesso?

    Il caso del Forteto, manicomio senza sbarre

    L’uso della forza nei confronti di minori

    Storie di oggi

    Viaggio in Calabria

    Un ringraziamento particolare a Caterina Corbascio, Davide Petrini, Francesco Santanera, Paolo Borgna, Piercarlo Pazé, Fulvio Guccione, Calogero Baglio, Ingrid Muglioli e Riccardo D’Agostino, Mario Nasone e Carmine Lanni.

    Introduzione. A quarant’anni dal dossier Bambini in manicomio

    Sono trascorsi più di quarant’anni dalla pubblicazione di Bambini in manicomio, libro-dossier di Psichiatria democratica sui 2.761 piccoli, il dieci per cento dei quali di età inferiore ai quattro anni, che, nel XX secolo, finirono, nell’arco di sessant’anni, nell’Ospedale psichiatrico romano di Santa Maria della Pietà. E poi?

    La fabbrica della follia, storica denuncia delle condizioni di vita dentro l’Ospedale psichiatrico di Collegno, vicino a Torino, aveva dedicato nel 1971 un breve capitolo ai più piccoli del manicomio:

    Reparto 10, trentasei bambini e ragazzi trascorrono tutte le ore del giorno nella sala di soggiorno, completamente abbandonati in uno stato di inerzia assoluta. […] Non sono integrati in alcun modo, né è prevista alcuna attività di gruppo o ricreativa [...]. Vi sono alcuni ragazzi ricoverati da diversi anni che non pronunciano parola, pur dando la sensazione di seguire parole e gesti altrui. Nessuno si è mai preoccupato di tentare con loro qualsiasi forma di recupero o di ri­educazione; molti non sanno mangiare, né mantenersi puliti. Spesso alcuni vengono legati mani e piedi al letto, sia di notte che di giorno.

    A pochissimi chilometri, in fondo a viale Lombroso di Grugliasco, oltre un cancello in ferro e alti muri, vi erano altri padiglioni degli Ospedali psichiatrici di Torino fra cui l’Istituto medico-pedagogico. Ne scrissi alcuni anni fa sul mio giornale di allora, La Stampa, in occasione del progetto di realizzarvi una residenza per studenti universitari, subito abbandonato. Quella volta vi andai in pellegrinaggio percorrendo a piedi il viale di pini e fermandomi sul portone sbrecciato da cui si intravede l’ingresso che appare come un antro oscuro.

    Le ultime foto scattate alle sue pareti, anni fa, ritraevano i fantasmini di giocose marionette, sulle quali primeggiava la maschera più nota del carnevale torinese – Gianduja – ed era tutto ciò che ricordava l’età dei pazienti un tempo ricoverati a Villa Azzurra. Scrissi il pezzo ripescando i ricordi di precedenti visite a Collegno: nell’archivio sistemato in una stanza sopra l’ingresso principale dell’Ospedale psichiatrico e in cui le cartelle cliniche di tanti bambini considerati matti erano facilmente consultabili per come venivano allora conservate le relative pandette. Mi fu d’aiuto la conoscenza diretta di due ex pazienti dell’ospedale entrativi da bambini.

    Il giorno della pubblicazione del servizio in cronaca mi chiamò Mauro Vallinotto. Mi disse delle sue foto che avevano fatto precipitare la storia di quell’antro, buio e oscuro da sempre. Mi propose di riparlarne. Le conoscevo. Da ragazzo leggevo avidamente l’Espresso, formato da paginoni con grandi immagini all’interno di inchieste di denuncia. Ricordavo la foto di una bambina nuda legata mani e piedi a un letto di Villa Azzurra. Stranamente la ricordavo in prima pagina, e invece stava in una delle pagine interne. Quel giorno pensai che era venuto il momento di ridare vita a quelle cartelle cliniche che avevo sfogliato. Ma non trovavo il tempo nella routine quotidiana del lavoro. Ho dovuto attendere, per dedicarmici, l’età della pensione.

    Nel frattempo, avevo avuto più occasioni di visitare case-famiglia per adulti con problematiche di carattere psichiatrico. Mi sembravano manicomietti. Più che altro per il senso di abbandono che avvolgeva, in quei locali, le persone ospitate. Ricordo bene l’ultima: villetta a due piani in un piccolo centro della provincia torinese, l’ingresso introduceva in un grande tinello, tavoli, sedie e un divano di fronte alla tv; una dozzina di degenti fra i quaranta e i sessant’anni stavano seduti nella stanza muti, accuditi o sorvegliati (secondo i punti di vista) dall’unica operatrice in servizio; ciascuno aveva preso la sua medicina. Quegli uomini e quelle donne mi apparvero un quadro di vite inerti. Si può affermare che fossero contenuti e che, di quella scelta, i farmaci rappresentassero una soluzione funzionale a un sistema democratico cui basta preservarsi dagli eccessi?

    Angelo, la cui storia racconterò tra poco, e io abbiamo più o meno la stessa età. Nel pensare alla sua vita e alla mia, mi è tornata in mente la lezione di Duccio Demetrio sul peso dei nostri ricordi per riuscire a raccontare esplorandoci. Sono partito da lì, trasformando l’intervista all’antico paziente di Villa Azzurra nella memoria di sé che ha conservato. Una testimonianza, la sua, che vale per ciò che appare: racconto carico di drammaticità e del senso dell’avventura che lo animò nella sua lunga fuga lontano dal tempo di Villa Azzurra. Un racconto introduttivo alla storia del manicomio dei bambini e alle storie di quei bambini. Occorreva però che prendessi il giro largo per tornare a quell’antro oscuro e alle giovanissime vite che vi erano state sepolte. E che passassi per il manicomio degli adulti, delle sue dinamiche e logiche, per inquadrare meglio la mostruosità di rinchiudervi anche dei bambini e condannarli all’ergastolo del manicomio. Perché così è stato per tanti: sino alla morte.

    Prendere il giro largo significa anche riannodare il filo della memoria del manicomio: per non dimenticare; ricordare a chi è vissuto al tempo dei manicomi e informare chi non c’era.

    Guardando indietro, mi rendo conto che ci sono soprattutto da ricordare i segni che ha lasciato in tante vite spente. E non posso fare a meno di rammentarmi un debito che ho anch’io da saldare a quarantun anni dal dossier di Psichiatria democratica, dall’adolescenza vissuta da Angelo e dai suoi compagni come non persone e da quella mia e di tanti coetanei in quello stesso tempo per noi, invece, straordinario e carico di grandi illusioni. In fondo – mi sono detto – quella generosa follia perduta del Sessantotto, che ci incoraggiò a credere nella spallata a tutto ciò che era vecchio e contro l’eguaglianza, servì pure ad abbattere muri terribili come quelli dei manicomi.

    Riaprendo le pagine di vecchi libri ho ritrovato gli studenti che, insieme ai matti e a qualche giovane medico, bruciarono le cinghie di contenimento. Entrati negli Ospedali psichiatrici da tirocinanti o per dar manforte all’Associazione di lotta contro le malattie mentali, costituita nel frattempo da figure illuminate e da piccoli gruppi di familiari di ricoverati, gli studenti del Sessantotto non avrebbero potuto incidere sulla realtà manicomiale se non avessero avuto un riferimento fortemente dirompente come quello di Franco Basaglia, il primo psichiatra italiano a paragonare apertamente il manicomio al carcere, che conosceva per esservi stato per antifascismo, e il primo a proporre un modello di superamento dell’ospedale psichiatrico.

    Erano anni, quelli, in cui si leggevano i libri di Basaglia, a cominciare da L’istituzione negata (Einaudi, 1968), e altri, di denuncia, come La fabbrica della follia (Einaudi, 1971), lungo racconto autobiografico sul manicomio, preceduto da 122 pagine di pura cronistoria dei meccanismi di custodia di oltre 1.600 vite nelle 20 sezioni dell’Ospedale psichiatrico di Collegno. La sezione torinese dell’Associazione di lotta contro le malattie mentali aveva compiuto numerose visite nel manicomio con i propri medici e volontari e ciò che essi avevano visto, osservato, raccolto con le testimonianze si era tradotto in un pamphlet di rara efficacia nel dare identità a un inferno fra le mura di un’antica certosa che aveva conosciuto nella sua storia altro genere di silenzi; quelli degli «alienati» erano l’effetto della cura cui erano stati metodicamente sottoposti: spegnerne ogni vitalità e segno di autonomo discernimento. Questa era la fabbrica della follia, e la denuncia dell’Associazione fu un terremoto della coscienza. Per chi ne aveva una.

    Il libro cominciò a circolare fra noi giovani, insieme a un secondo volumetto, che aveva gli stessi caratteri tipografici, la copertina viola e un identico segno di denuncia sociale. Questo secondo volumetto era stato scritto da Bianca Guidetti Serra e da Francesco Santanera, nobili figure di un’Italia diversa che manteneva vivo lo spirito della Costituzione repubblicana e che per tanti di noi furono come padri e madri nella scoperta di come venivano trattati i più deboli: i bambini senza nessuno, per di più segnati da handicap fisici e spesso anche psichici, tali da divenire le vittime prime di un sistema sociale che emarginava gli improduttivi senza sterminarli come nei lager. Semplicemente li consegnava alla carità feroce delle tante suor Diletta Pagliuca di quei tempi, orchesse e orchi che dirigevano istituti pieni di immagini di madonne, che risuonavano di litanie religiose e dei lamenti dei loro piccoli ospiti condannati a vivere come bestie. Il paese dei Celestini (Einaudi, 1973) di Bianca Guidetti Serra e Francesco Santanera fu anche il primo duro attacco all’inerzia di un sistema giudiziario che poco vedeva nelle scarse denunce di abusi e soprusi e ancora meno provvedeva, lasciando spesso e volentieri che la prescrizione dei reati facesse il lavoro dei magistrati.

    Fece parzialmente eccezione, nel 1974, il processo al professor Giorgio Coda, che è stato tutto nella realtà manicomiale e nei suoi dintorni: vicedirettore (ruolo gerarchico più elevato) di Villa Azzurra, il reparto per i bambini; referente del Provveditorato agli Studi per le classi differenziali; giudice onorario del Tribunale per i minorenni (nonostante una prima condanna per abuso di mezzi di correzione) e responsabile in seguito di un padiglione per adulti, dove continuava a praticare abitualmente l’elettroshock per normalizzare i ricoverati. «Portami su quello che canta» era il suo indirizzo terapeutico che teorizzò e rivestì di credibilità scientifica nei testi pubblicatigli da Minerva Medica. Portami su quello che canta è anche il titolo del bel libro scritto sugli atti del processo da Alberto Papuzzi con la collaborazione di Piera Piatti, una delle animatrici più attive della sezione torinese dell’Associazione di lotta contro le malattie mentali. Anche questo terzo libro è corto (114 pagine, pubblicato da Einaudi nel 1977 in una collana diretta da Corrado Stajano) e di efficacia altrettanto rara, persino nella scelta delle fotografie, rigorosamente in bianco e nero.

    La cultura della protezione fu il collante ideologico, più che culturale, che da sinistra a destra aveva messo d’accordo tutti, persino gli illuminati di quel tempo oscuro. Un uomo di grandi meriti e di vedute lungimiranti, per tutta la sua vita, è stato il giudice Paolo Vercellone, presidente del Tribunale per i minorenni del Piemonte negli anni in cui, dopo le rivolte dei giovanissimi detenuti, si costruì il Progetto Torino che aprì il carcere minorile alla società civile, in analogia con il credo basagliano per gli ospedali psichiatrici. In un colloquio di molti anni dopo Vercellone mi consegnò una chiave di decifrazione di un mistero per me a lungo insoluto: come era stato possibile costruire e mantenere in vita così a lungo istituzioni totali come i manicomi senza l’opposizione di alcuno, sino a Basaglia e ai basagliani. Con il suo franco eloquio l’anziano giudice mi disse di non potersi perdonare di aver fatto rinchiudere in cella giovanissimi omosessuali quando era un giovane magistrato. «Per proteggerli da se stessi».

    Già trentacinque anni fa trovai, fra le pandette dei piccoli ricoverati di Villa Azzurra, l’atto con cui la dottoressa Luisa Levi, nel 1963 primo vicedirettore della struttura, dispose il ricovero di un bambino di non ancora tre anni. «Pericoloso a sé e agli altri»: era la formula di legge con la quale, dal 1904, si predisponevano gli ingressi delle persone nei manicomi italiani e le si bollava in quel modo assurdo. E perché il marchio restasse a vita, a perfezionamento dell’operazione di emarginazione totale, nomi, cognomi, anno e luogo di nascita, identificazione degli ascendenti venivano registrati nel casellario giudiziario di competenza territoriale. Lo furono fino al 1968, anno della riforma Mariotti, che non cancellava i manicomi, ma che fu comunque uno spartiacque, almeno del pensiero di una minoranza attiva di italiani. Eppure, solo pochi anni prima, un bambino così piccolo era stato consegnato al manicomio con quella formula infamante, in quel caso particolare anche straordinariamente paradossale. Ma che suscitò soltanto una piccola, tenue, reazione all’accettazione del ricovero da parte del medico responsabile: un anonimo punto interrogativo vergato con inchiostro nero. Chi lo appose accanto al terribile «pericoloso a sé e agli altri» registrato dalla dottoressa Levi non aggiunse altro. Il punto interrogativo è rimasto il segno di un dubbio nelle certezze della cultura della protezione (anche dai pericoli della vita oltre quei muri) che aveva evidentemente ricomposto le contraddizioni di un medico come la sorella di Carlo Levi, pittore e soprattutto scrittore di rara sensibilità sociale.

    Questi libri, oggi, dovrebbero essere riletti nelle scuole e nelle università, e non dimenticati. In un altro tempo della mia esistenza ho pensato di riprenderli in mano, di rileggerli e di fare delle loro pagine il punto di ripartenza di un racconto sulla follia che ha inventato i manicomi e li ha tenuti in vita a lungo, nonostante la Costituzione del 1948. Un racconto che ne includesse le nefandezze a catena, per un secolo e mezzo, che hanno costituito un unicum delle vergogne italiane.

    Un racconto di quel che è stato non può, tuttavia, trascurare il presente e il futuro. Oggi la follia è altro da quanto era in passato e ho provato a descrivere: fenomeno di massa, fenomeno di poveri, manicomi come discariche umane e sociali. Lo scrivo e subito mi chiedo: sicuro che sia cosi? La verità è che non ne sono affatto sicuro: i matti sono per lo più poveri, lo sono per la stessa condizione di emarginazione sociale in cui sono rinchiusi. Diversamente dal secolo scorso, che abbiamo appena lasciato, ma non troppo. Oggi, in un tempo privo di princìpi etici condivisi di riferimento, la follia vive di improvvise esplosioni e di lunghi silenzi nascosti, di farmaci e di malattie ambigue, come i disturbi bipolari, di devianze normalizzate, di punizioni al proprio corpo, come bulimia e anoressia, per esprimere la negazione di sé nella diversità dagli altri. Emergono nuove situazioni di emarginazione e di sofferenza, espressione di una sempre maggiore anomia sociale e della tendenza a rifugiarsi nel mondo dell’interconnessione con chi ha gli stessi problemi.

    Fra i tanti ragazzi che si reclinano in se stessi, l’ultimo fenomeno in ordine di tempo è quello degli hikikomori: adolescenti autoesclusisi, autoreclusi. Nelle loro esistenze che si sono fermate è entrato come prefisso il pronome greco autos, la barriera riflessiva del senso di sé che si oppone a tutto il resto per staccarsene. Ma tutto il resto non include il mondo virtuale dei videogiochi e di Internet, dei forum in cui cercare relazioni rassicuranti proprio perché non approdano nella realtà: si affacciano dallo schermo piatto del computer e si estinguono, se lo si vuole, con un semplice clic. Gli hikikomori vivono seduti di fronte al pc, che diventa lo specchio di un’esistenza al rallentatore rinchiusa nello spazio fisico di una stanza, la propria stanza. In Giappone, da decenni essi non sono più un fenomeno e rappresentano una condizione dell’adolescenza ripiegata in un Paese che, più di tutti, traduce l’insuccesso sociale nelle forme di depressione più verticali e in suicidi. Nell’Italia cattolica, un po’ laica e molto agnostica, in cui tutto o quasi si perdona, soprattutto ai figli, gli hikikomori sono ragazzi che semplicemente si ritirano in casa lasciandosi avvolgere dal senso di protezione di genitori e parenti rispetto al mondo esterno nemico. Rappresentano ancora un fenomeno. Doppiamente interessante per come questi nostri adolescenti hanno mutuato il modello originale giapponese e per il motivo che sono ormai decine di migliaia. Un segno del futuro che ci attende. Tamaki Saito, psicoterapeuta che ha avuto in cura un migliaio di hikikomori del Sol Levante, intervistato nel 2008 dal sito psychomedia, sostiene una tesi interessante e controversa alla luce di quanto si è poi verificato: «Penso che il fenomeno degli hikikomori sia equivalente a quello dei giovani senza fissa dimora in Europa e in America». Gli uni e gli altri scelgono di emarginarsi prima di essere emarginati, e si rifugiano in questa condizione seguendo un profilo comune. Quello del silenzio, come segno espressivo.

    Ci sono, poi, ultima emergenza che incombe più di altre sul futuro prossimo venturo, i minori che sbarcano soli sulle nostre coste dalle bagnarole della speranza. Sono ormai settantamila in questi ultimi anni, seimila soltanto fra agosto e ottobre 2016. E la soluzione istituzionale che si offre loro è sempre la stessa: accoglierli formalmente, e sfamarli, perché scappino e scompaiano nelle nostre periferie, finiscano rinchiusi in un sommerso invisibile. Fra quei bambini e adolescenti, che portano nel cervello cicatrici di tragedie personali e collettive, vi sono i nuovi portatori di traumi e stress insopportabili che possono tradursi in disagio mentale. Che risposte diamo ai loro bisogni?

    Al Sud è più evidente, ma anche al Nord c’è il rischio che si torni all’istituzionalizzazione di certi bambini e adolescenti: in forme diverse, si capisce, rispetto al passato. Le strutture dai cento posti letto restano un pugno nell’occhio, ma non pochi enti religiosi, con intatto spirito di fare del bene e un’altrettanto storica vocazione alla protezione dei fanciulli, hanno ristrutturato i loro edifici, alzato muri, aperto porte, creato le condizioni di più case-famiglia o comunità per un massimo di venti posti letto. Con la crisi economica che si protrae e i sempre maggiori tagli alle risorse il ritorno al passato è più semplice, persino rassicurante. La memoria del manicomio dei bambini può aiutare a tenercene a distanza.

    Torino, dicembre 2016

    Prologo. I ricordi fanno di noi ciò che siamo

    Testimonianza di Angelo, sopravvissuto

    Avevo tre anni quando un’assistente sociale mi portò a Villa Azzurra che di quel colore non aveva proprio nulla. Ci finii perché quella buona donna di mia mamma mi aveva avuto da un uomo che della paternità se ne infischiò allegramente, non l’ho mai incontrato. Lei era giovane e sola, e lavorava come ope­raia in una maglieria. Mi portò in via Giovanni da Verrazzano, a Torino, che era un centro della Provincia. Là, un’assistente sociale scelse per mia madre e per me: potevo andare all’Istituto Levi, che era un posto per bambini poveri ma normali, finii invece nel manicomio per i più piccoli. Giusto per avere un letto e un piatto di minestra. Ovviamente questi sono pensieri che ho avuto dopo. A quell’età, di male potevo avere fregato solo i ciucci all’asilo. Poi, a Villa Azzurra, che era una caserma con le suore che punivano per ogni nonnulla, diventai oppositivo, come dicevano tutti. Ricordo che mi punivano e io scappavo per le grondaie sul tetto, mi nascondevo nei tombini, mi rifugiavo nella camera mortuaria in fondo all’Ospedale psichiatrico di Grugliasco.

    Mia madre mi ha chiamato Angelo e so bene che non lo sono mai stato, un angelo. Però, di fronte alla paura, non ho mai pensato di provare a fare pena. Ho sempre reagito alla paura con la rabbia, la protesta. Era la mia natura. E, come ho già detto, mi hanno definito un oppositivo. E, per la verità, molto altro. Ero curioso e la notte mi alzavo, uscivo scalzo dalla camerata, mi attirava la luce accesa nella stanza in fondo, dove stavano gli infermieri. Una volta vidi un’infermiera che faceva la festa a un infermiere, lo dissi alla suora e lei mi punì.

    Cominciai a essere legato al letto, o al termosifone, che avevo quattro anni. Così diventai un ribelle. Non scappavo soltanto. Rispondevo alzando anch’io la voce. Era arrivato Coda, lo psichiatra elettricista. Mi ha dato la scossa cinquantadue volte. Non mi ricordavo quant’erano state. Ho rubato la mia cartella clinica e là c’è scritto che Coda mi fece mettere la gommetta fra i denti e i due tappi alle tempie tutte quelle volte. A dire il vero, e questo me lo ricordo senza consultare le carte, secondo come gli girava, l’elettricità me la dava ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, oltre che alla testa. Diceva alla suora: «Si è fatto la pipì addosso? Sì? Insegniamogli a non farla più». Oppure bastava che lo avessi guardato storto. E mi faceva schiattare dalla paura, prima, ma cercavo di non darlo a vedere. Cercavo.

    Una volta partita l’elettricità nel mio

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