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Milano razzista
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E-book238 pagine3 ore

Milano razzista

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Info su questo ebook

Un ventenne calabrese arriva a Milano in cerca di lavoro alla fine degli anni sessanta, portando con sé il pregiudizio che il capoluogo lombardo sia la città più razzista del mondo, come dicevano al bar del paese. Trova un impiego come aiuto cuoco in un ristorante lussuoso di via Montenapoleone, dove l’altra aiutante è Michela, milanese, che poi sposerà. Il ristorante chiude a causa di un delitto e così sono costretti a cercare un’occupazione altrove. Sono i giorni che precedono lo scoppio della bomba di Piazza Fontana. Antonio e Michela, grazie a un colpo di fortuna, riescono ad aprire un loro locale, ma quando viene chiesto il pizzo lui si rifiuta e in un impeto d’ira uccide i due esattori. Da questo momento le vicende si aggrovigliano; nel carcere Antonio ha un repentino mutamento della sua natura, fino a diventare il capo della ndrangheta lombarda. La vicenda prosegue ricca di colpi di scena a catena, fino a quando Antonio non conosce la storia di Giangiacomo Feltrinelli, che lo affascina e lo esalta, facendogli scoprire la forza e la bellezza degli ideali al punto da farne un’icona.
LinguaItaliano
Editorela Bussola
Data di uscita7 lug 2022
ISBN9791254741207
Milano razzista

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    Anteprima del libro

    Milano razzista - Dante Maffia

    isbn.jpg

    isbn

    9791254741207

    prima edizione

    roma 23 novembre 202

    Quali erano i torti di Milano? Ricordo una sorta di febbrile bruttezza, una funzionalità frettolosa e sgarbata; la sensazione di essere urtati da gente distratta, crucciata e impetuosa, ma non propriamente pensierosa; la mancanza di colori: una città pensata per il bianco e nero, con una colonna sonora neorealistica… Un Duomo in mezzo a Milano è una noia, un soprammobile impossibile da spolverare… Milano potrà essere la prima città a invecchiamento artificiale.

    Giorgio Manganelli, Lunario dell’orfano sannita, 1991

    Parte prima

    Uno

    Fu la lettera di Francesco a fargli prendere la decisione:

    Milano è stronza ma ha le viscere grandi. Pensa che in pochi anni da meno di un milione di abitanti è diventata di quasi due milioni. Accoglie tutti, cani e porci, ne ha bisogno per far funzionare le industrie. È meglio che te ne vieni anche tu, almeno qui puoi restare in silenzio per i fatti tuoi e non vedere e non sentire, tanto è gente che non sai chi è. Tutti lavorano, tutti hanno una donna. Anche io ne ho puntata una che forse ci sta, ma ti farò sapere appena sarò riuscito ad alzarle la veste.

    Gli vennero in mente le sere in cui aveva dovuto accontentarsi di un pezzo di pane e di mezza cipolla, solo, in quella specie di grotta dove conviveva con i pipistrelli rimuginando vendette contro il mondo.

    Non aveva un brutto carattere, ma la vita l’aveva bastonato di continuo: la lunga malattia della madre e poi la morte; l’infarto del padre con la lunga degenza nell’ospedale di Corigliano da cui era tornato nella bara, il disonore della sorella fuggita con un trapezista del Circo Sibarys senza lasciare traccia; la morte dei nonni, l’emigrazione dei due fratelli in Germania senza neppure salutarlo, come se fosse un nemico.

    Due

    Aveva risposto alla lettera di Francesco dicendo che non riusciva a staccarsi dal paese, che lì era nato e che lì erano sepolti i genitori e che se tutti se ne andavano poi Spulico sarebbe rimasto un luogo fantasma. E Francesco non si era fatto pregare nel dirgli con la solita franchezza che era «un cretino con idee che neanche la bisnonna avrebbe ormai, lascia stare i morti in pace, vendi o regala le miserie che possiedi e via. Ti ospiterò io. Poi troverai una casa in affitto. Per il lavoro non ci sono problemi, basta bussare a una pizzeria, a una lavanderia, a un forno, a un cantiere, a una fabbrica e ti apriranno le braccia. Non è come da noi che ci vuole la raccomandazione anche per fare il lavapiatti o il manovale, o per zappare la vigna».

    La valigia si faceva più pesante man mano che si avvicinava alla casa dell’amico. Pensava: «È il solo essere umano che ho frequentato al paese. Speriamo che non sia cambiato».

    Al paese Antonio era considerato un lupo solitario, un arrogante, un delinquente nato e questo solo perché faceva qualche rimostranza nel dover accettare i compromessi.

    Sei un pelandrone, si era sentito dire, un pipistrello, anzi un cane rognoso. E lui zitto, altrimenti avrebbe dovuto scannarli.

    Così aveva venduto la vecchia radio Phonola, i due lumi di porcellana della nonna, la macchina da cucire Singer e racimolata la cifra per il viaggio era partito.

    Camminava piano sul marciapiede, cercava di guardare la gente chiusa negli impermeabili e sotto gli ombrelli, provava ad intuire se fossero meridionali. Al bar di Spulico aveva ascoltato molte storie sui rapporti tra milanesi e meridionali, gli avevano raccontato che c’erano locali vietati ai cani e ai meridionali e questo lo faceva diventare livido. Per i giocatori di scopa o di tressette al bar del paese Milano era la patria del razzismo. Raccontavano episodi di giovani evirati perché troppo focosi, di ragazze calabresi o lucane costrette dai datori di lavoro a piegarsi ai loro voleri, di morti nei cantieri subito coperti dal silenzio più assoluto per non dare alle famiglie il risarcimento e non finire nei tribunali. Lui sapeva che non avrebbe sopportato più di un attimo quel modo di fare. A Spulico si era ribellato al razzismo del Barone Mazzantini che trattava i foresi come si trattano i cani a cui si dà l’osso senza una briciola di polpa, a quello di Ballotta che dava appena duecento lire alle donne per raccogliere i piselli e stava attento che non aprissero neppure un baccello, a quello di Francalancia che nel retrobottega del negozio aveva messo una brandina per le donne compiacenti che venivano risarcite con due metri di stoffa per un vestito, a quello di Merdadei, un massaro più stupido delle sue pecore, a quello di Verdicillo, il segretario comunale, che per rilasciare un certificato chiedeva in cambio di farsi zappare la vigna gratis. Figuriamoci se non si sarebbe ribellato contro gente sconosciuta. L’unico rammarico era di non averli uccisi quei prepotenti; a quest’ora avrebbe già scontato la pena e il paese sarebbe pulito dalle carogne.

    Tre

    Nessuno faceva caso a lui e alla sua valigia.

    Era fradicio di pioggia quando finalmente arrivò da Francesco.

    «Devi salire al settimo piano. Non c’è l’ascensore».

    «Va bene».

    «Hai bisogno d’aiuto per i bagagli?».

    «No, ho solo la valigia».

    «Ti aspetto».

    Era un vecchio caseggiato. Alcuni gradini erano sconnessi. Si fermò due volte per rifiatare. Il viaggio l’aveva stancato, non era abituato a stare seduto per tante ore al chiuso e con quella puzza che ristagnava nella carrozza del treno.

    Mentre saliva, il dubbio di potercela fare a restare a Milano cominciava a farsi strada nel suo cervello. Temeva che sarebbe fuggito il giorno dopo per tornare al paese.

    «Ma come ha fatto Francesco ad abituarsi? Lui, come

    me, amava il mare e i campi».

    Era quasi arrivato. Si ricordò di quel che gli diceva la nonna: «Ci si abitua a tutto, anche alla morte».

    «Nonna!, ma quando uno è morto non vede e non sente,

    non ha bisogno di abituarsi».

    «Lo dici tu. Che ne sai tu della morte?».

    Non era un appartamento, ma una stanza con un piccolo bagno dove ci si entrava appena e con una cucina ricavata sul ballatoio. Un posto freddo, i muri spelacchiati. Francesco aveva preparato pasta al ragù e bistecche di maiale. Parlarono per ore a botta di «Ti ricordi di…».

    Il giorno dopo, domenica, Francesco lo portò al Duomo; poi vagabondarono per il centro. Antonio si fermò sotto il grattacielo Pirelli. Non poteva crederci, i muri così alti come diavolo facevano a reggersi?

    «Ci pensi a quanto peso devono sostenere i muri?».

    «Mica l’ha costruito Mastro Ciccio, questo; ci hanno studiato ingegneri e architetti prendendo l’esempio dalle Piramidi dell’Egitto e dal Colosseo di Roma».

    «Ingegneri e architetti come hanno fatto a sapere fino a dove potevano arrivare?».

    «Si fanno i calcoli. Se lavorerai in un cantiere edile ti renderai conto che ogni cosa va organizzata secondo regole precise. Mica come una volta che si costruivano i ponti e poi si faceva la prova di quanto peso potevano reggere. E a volte cadevano i buoi con tutto l’aratro».

    «Vabbe’, vabbe’. Tu scherzi, ma io avrei paura a vivere lassù. Mi verrebbero le vertigini».

    «Uno coraggioso come te? Dov’è finito il coraggio del mio amico Antonio capace di affrontare anche quattro brutti ce? da solo? Oh, Milano non è Spulico, apri bene gli occhi e le orecchie. Ti devi abituare a convivere anche con le cose che non ti piacciono. Tanto non mi dire che al paese ti piacevano tutte».

    Le parole di Francesco gli risuonavano nuove e oscure, come dette da qualcuno che doveva per forza convincerlo a guardare il mondo da una dimensione diversa da quella avuta fino ad allora. Non era convinto di niente e tra sé si stava preoccupando che il grattacielo potesse cadere a una folata di vento o sfracellarsi sotto i colpi di un temporale. Però… Francesco era un altro: «Ho sentito alla radio che Milano razzista in America ci sono grattacieli ancora più alti che stanno accanto uno all’altro così come da noi, a Spulico, stanno gli ulivi o le querce».

    «Gli americani raccontano quello che vogliono».

    «È vero. Anto’, non stare a paragonare tutte le cose con quelle del paese. Lo facevo anch’io e se non cambiavo mi avrebbero trattato come una pecora».

    «E che hanno di brutto le pecore? Danno lana, latte, formaggio. Il brutto è essere trattati come fessi o topi di fogna».

    «Devi cambiare, devi adattarti. Non essere irruente come sei stato sempre, non spaccare il mondo appena ti punge una zanzara, mi raccomando».

    Antonio guardava il Pirelli. Lo sentiva una creatura fragile e avvertiva nelle gambe un tremolio, vibrazioni che secondo lui erano un effetto di ciò che stava avvenendo in quelle stanze troppo alte e troppo esposte ai pericoli.

    «A Milano il sole non c’è mai?».

    «Il sole c’è ovunque».

    «Che…, mi rispondi come zia Susanna? Quando le do- mandavo qualcosa mi diceva sempre che quattro più quattro fa otto e otto più otto fa sedici e se uno non ci prova la lana non si tesse e il soldo non si spende. Non ho mai capito che cosa volesse dirmi e si è portata il segreto delle sue parole nella tomba».

    «Ti voleva dire che il mondo è diverso, che noi uomini siamo diversi, e che le regole sono importanti e non sono uguali in tutto il mondo».

    Il grattacielo era immobile e Antonio ebbe l’impressione comunque che gli domandasse aiuto, che non fosse stato capito dai milanesi che avevano scambiato la sua altezza per arroganza.

    Si sentivano clacson insistenti e grida, parole, rumori. La testa di Antonio fumava mentre il grattacielo si piegava verso di lui.

    Tirava un vento gelido e la pioggia continuava il suo tamburellare. Non aveva smesso da quando lui era sceso dal treno.

    Antonio voleva confidare a Francesco le sue impressioni, quel che sentiva, ma si tratteneva. La città sembrava impazzita, aveva occhi grandi che si dilatavano sempre più, che lo scrutavano nel fondo del cuore.

    Lo riafferrò atroce il dubbio di avere sbagliato a venire. Ma ormai non poteva cambiare idea, non aveva neanche i soldi per il biglietto di ritorno.

    Francesco non si accorgeva di niente. Guardava le ragazze che passavano e ammiccava chiedendo la complicità di Antonio che a un certo punto ripeté, come a se stesso: «Però il sole potrebbe pure uscire un po’ e scacciare questa brutta pioggia».

    «Oggi è festa, andremo a mangiare dal calabrese che sa fare delle fettuccine ai funghi come le faceva mia madre».

    «Come vuoi tu».

    «Ma che t’ha preso?».

    «Non lo so, mi sembra che qui ogni cosa parla un’altra lingua e io non la capisco».

    «Ma quale altra lingua. Tu ubbidisci alle richieste di chi dirige e comanda, non alzare il capo e vedrai che ti troverai bene».

    «Tu mi conosci, io i rospi non li ingoio».

    «Devi farlo, sennò saranno guai».

    Le parole di Francesco non gli piacevano. Era cambiato. Intanto il grattacielo s’era sgretolato cadendo a terra. Era imbarazzante che nessuno dei passanti se ne fosse accorto. Non trovò il coraggio di farlo notare al suo amico e lo seguì in silenzio. A occhi bassi, per raggiungere l’osteria del calabrese.

    Quattro

    Antonio fece il giro di ristoranti, di lavanderie, di cantieri edili, di ditte di trasporto. Lo invitarono a provare il giorno dopo. Si accorse che lo guardavano con curiosità. Non si era reso conto che con tutti quei maglioni addosso, senza una giacca o un impermeabile, veniva subito notato, anche perché faceva molto freddo.

    Tornò a casa confuso. A Spulico neanche per elemosina si trovava una giornata di lavoro e qui le porte erano spalancate. Che c’era sotto?

    Aveva provato imbarazzo ogni volta che gli avevano chiesto qual era il suo mestiere. Non ne aveva. Aveva visto che su un foglio scrivevano generico. Che significava?

    «Significa che non sai fare un cazzo, che non sai mondare una cipolla, usare la cazzuola, avvitare un bullone, guidare un furgone, cucire una suola di scarpa», gli spiegò Francesco la sera, sorridendo, e ricordandogli che anche lui era arrivato nella fabbrica come generico, cioè, aveva spazzato per terra come facevano le donne al paese, poi era passato a chiudere i cancelli e a fare il guardiano e poi…

    «Se ci saprai fare e non ti manca l’intelligenza, piano

    piano imparerai un mestiere».

    Quel generico però gli suonava come una brutta offesa, come se fosse un tentativo per farlo sentire un verme che non valeva niente.

    «Non prenderla così. A Milano ognuno deve sapere fare una cosa. La specializzazione, capisci?».

    «Sì e no. Cioè, se uno impara a pulire i cessi poi tutta la vita deve pulire i cessi?».

    «Proprio così, perché a forza di pulire il lavoro viene meglio e diventi uno specialista».

    «Francè, uno specialista della merda?».

    «Non devi ragionare come facevamo da ragazzi. Questo è un altro mondo. Le regole servono, sennò come si farebbe ad andare avanti? Siamo tantissimi e senza regole finiremmo tutti sotto i tram».

    «Ma dove cazzo l’hai imparate queste stronzate? Ti hanno fatto il lavaggio del cervello, non sei più quello di prima».

    «Se vorrai lavorare anche tu dovrai cambiare, rispettare

    le regole. Diversamente preparati a tornare a Spulico».

    Antonio si rimise in giro per cercare un lavoro che in qualche modo non lo rendesse troppo schiavo, come diceva a se stesso, e in un quartiere che non fosse troppo lontano dalla casa di Francesco. L’angosciava la distanza, anche se sapeva che in quel buco non potevano stare in due per molto tempo. La fidanzata di Francesco si era già lamentata e senza mezzi termini gli aveva fatto capire di darsi da fare presto.

    «Non si può fare più neanche l’amore in pace da quando

    sei arrivato. Perciò pedala, corri, scegli e via».

    Non poteva incazzarsi, non doveva, avrebbe offeso l’amico, ma quella era proprio una cafona insopportabile.

    Lo invitò comunque a mangiare insieme una pizza. Lei lavorava in un ristorante, figlia di un milanese impiegato alla Banca di Bergamo come custode e di una lodigiana che lavorava alle poste. Non amava i meridionali e lo diceva apertamente sottolineando che ovviamente ci sono sempre le eccezioni alla regola.

    «Francesco è una eccezione e forse lo sei anche tu».

    «In che senso?».

    «Nel senso che avete tutte le caratteristiche dei meridionali e però sapete vivere con gli altri, vi siete integrati nella civiltà».

    Ad Antonio dava l’impressione di non sapere ciò che diceva e perciò sorrideva alle sue parole. Sparava giudizi che sembravano condanne, faceva il ritratto del tipo meridionale come se stesse leggendo un catalogo.

    «Scusa, ma che vuoi dire quando parli di civiltà?».

    «Che voi vi lavate e che sapete usare i preservativi e che

    mangiate con forchetta e coltelli».

    «Ma tu, ci sei mai stata in Calabria? Hai mai studiato un

    poco di storia e di geografia?».

    «A che serve studiare? Noi, qui, andiamo a lavorare a quindici anni e ci integriamo subito, diventiamo subito adulti. Mica abbiamo bisogno di diplomi o di lauree. Gli studi ammuffiscono il cervello. Aria, aria, baluba, aria, discoteche, balere, locali per lo sballo».

    Antonio stava per rispondere male, stava pere dire all’amico «Ma dove l’hai raccolto un arnese di questo genere, una buzzurra così non si trova neanche nelle campagne sperdute del Pollino o dell’Aspromonte», ma si trattenne, anche perché intervenne Francesco: «Fa’ tanto la disinvolta ma c’è voluta la mano di Dio per farla venire a casa mia la prima volta».

    «Vedrai, presto anche tu troverai l’anima gemella e la vita cambierà».

    Antonio mangiava la pizza e la guardava come si guarda una vespa dispettosa che si posa di continuo sul barattolo della marmellata e viene voglia di schiacciarla. Non sapeva stabilire se fosse una ragazza carina e disinvolta, o una razzista che ormai si era trovata impigliata con Francesco e non riusciva a lasciarlo probabilmente perché lui la montava bene. Era inutile discutere.

    Cinque

    Tornando a casa Francesco disse ad Antonio: «Alle milanesi devi dare sempre ragione e così le conquisti. Questo è un popolo particolare che è abituato a comandare e perciò io sto sulle mie e lascio scorrere le cose per loro conto. Se davo retta a quel libro che mi dette il maestro prima di partire, adesso stavo fresco».

    Sì, Antonio non lo riconosceva più, sentiva che era cambiato, un altro, ormai, né carne né pesce. Non era diventato milanese e non era neppure più spulicano. Un bastardo, gli venne di pensare, ma non lo disse ad alta voce. Doveva scegliere presto un lavoro e trovarsi una

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