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Terre sommerse
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E-book430 pagine6 ore

Terre sommerse

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Info su questo ebook

L'epica avventura di una madre in un mondo devastato dai cambiamenti climatici.
L'ultima volta che Myra ha sentito la voce della sua primogenita, Row stava gridando. Le urla come una lama, mentre la bambina scalciando cercava di divincolarsi dalla stretta del padre che la trascinava su una barca. Poi, solo una scia d'acqua dove prima c'era la sua famiglia. Sono passati otto anni da allora e il mondo è completamente cambiato. Gli oceani si sono innalzati e hanno trasformato l'America in un arcipelago, i suoi abitanti rifugiati sui pochi lembi di terra rimasti, circondati da una distesa d’acqua. Bande di pirati infestano il mare in cerca di cibo e donne da usare per la riproduzione. C’è chi si allea per cercare di creare una nuova società e chi invece naviga in solitudine su imbarcazioni di risulta, cercando solo di sopravvivere. Indipendenti e fiere, Myra e la sua figlia minore Pearl veleggiano sulla loro piccola barca, vivendo di pesca e baratto, dopo che la loro casa in Nebraska è stata sommersa, poco prima della nascita di Pearl. Myra non ha mai smesso di cercare la fi glia perduta. Dentro il suo cuore e nella sua anima sa che Row è ancora viva. E farà di tutto per trovarla.
Uno sguardo, carico di forza evocativa e immaginazione, su quello che potrebbe essere il nostro futuro. Un romanzo pieno di amore e disperazione, ambientato in un nuovo mondo forse molto vicino.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2020
ISBN9788830509528
Terre sommerse
Autore

Kassandra Montag

Scrittrice e giornalista, ha vinto numerosi premi di poesia. I suoi scritti sono apparsi su prestigiose riviste letterarie tra cui Midwestern Gothic, Mystery Weekly Magazine e altri. Si è laureata in letteratura inglese e scrittura creativa alla Creighton University. Vive a Omaha, in Nebraska.

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    Anteprima del libro

    Terre sommerse - Kassandra Montag

    dall’acqua.

    CAPITOLO 1

    Sette anni dopo

    I gabbiani che volavano in circolo sopra la nostra barca mi fecero pensare a Row. Al modo in cui squittiva e agitava le braccia mentre imparava a camminare; a quella volta che era rimasta immobile per quasi un’ora a guardare le gru, quando l’avevo portata al Platte per assistere alla migrazione. Anche lei mi era sempre sembrata un uccellino, con le ossa sottili e quegli occhi nervosi e penetranti, intenta a scrutare l’orizzonte, pronta a spiccare il volo.

    La nostra barca era ancorata lungo la costa rocciosa di quella che era stata la British Columbia, appena fuori da una piccola insenatura racchiusa tra due montagne. Chiamavamo ancora gli oceani con i loro vecchi nomi, ma in realtà ormai c’era un unico grande oceano, punteggiato da brandelli di terra come briciole cadute dal cielo.

    L’alba stava schiarendo l’orizzonte quando Pearl ripiegò le coperte sotto il telone. Era nata lì sette anni prima, durante una tempesta con lampi incandescenti come il dolore.

    Gettai le esche nelle trappole per i granchi mentre Pearl usciva da sotto la copertura del ponte con un serpente decapitato in una mano e il coltello nell’altra. Portava vari serpenti avvolti intorno al polso come bracciali.

    «Dovremo mangiare quelli, stasera» dissi.

    Pearl mi scoccò un’occhiata. Non somigliava affatto a sua sorella, con le ossa sottili e la testa bruna. Row aveva preso da me i capelli scuri e gli occhi grigi, ma Pearl somigliava a suo padre, con i riccioli ramati e le lentiggini sul naso. A volte mi sembrava che avessero anche la stessa postura, solida e stabile, con i piedi ben piantati a terra, il mento un po’ all’insù, i capelli sempre spettinati, le braccia indietro e il petto in fuori come per esporsi al mondo senza paura né apprensione.

    Da sei anni cercavo Row e Jacob. Quando se n’erano andati io e il nonno eravamo salpati con la Bird, la barca che aveva costruito, e poco dopo era nata Pearl. Se non avessimo avuto il nonno con noi per quel primo anno, io e Pearl non ce l’avremmo mai fatta. Lui pescava mentre io allattavo la bambina, raccoglieva informazioni da tutte le persone che incontravamo e mi aveva insegnato a navigare a vela.

    Sua madre costruiva kayak come i suoi antenati, e il nonno l’aveva vista plasmare il legno come una cassa toracica, per accogliere le persone alla maniera di una madre che accoglie il figlio dentro di sé, e portarle al sicuro fino a riva. Suo padre era un pescatore, quindi il nonno aveva trascorso l’infanzia sulle coste dell’Alaska. Durante il Diluvio dei Cent’anni era migrato verso l’entroterra con migliaia di altre persone e si era stabilito in Nebraska, dove per anni aveva lavorato come carpentiere. Ma aveva sempre sentito la mancanza del mare.

    Il nonno cercava Jacob e Row quando io non ne avevo le forze. Certi giorni lo seguivo, sfinita, occupandomi di Pearl. In ogni villaggio controllava le barche nel porto cercando tracce di loro due. Mostrava le loro foto in ogni saloon e in ogni spaccio. In mare aperto chiedeva a ogni pescatore se avesse visto Row e Jacob.

    Ma il nonno era morto quando Pearl era ancora bambina, e all’improvviso mi era apparsa chiara l’enormità di quel compito. La disperazione mi stava appiccata come una seconda pelle. In quei primi tempi mi legavo Pearl al petto con una vecchia sciarpa, me la stringevo addosso. E facevo come il nonno: cercavo tra le barche nel porto, chiedevo agli abitanti della zona, mostravo fotografie. Per un po’ quel lavoro mi aveva dato forza; era qualcos’altro da fare oltre a sopravvivere, qualcosa di più importante di un altro pesce che abboccava all’amo sulla nostra piccola barca. Mi infondeva speranza e prometteva pienezza.

    Un anno prima, io e Pearl eravamo sbarcate in un piccolo centro abitato nascosto tra le Montagne Rocciose settentrionali. Le vetrine erano spaccate, le strade polverose e piene di spazzatura. Era uno dei paesi più popolosi che avessi mai visto. La gente si affrettava su e giù per la strada principale, che era piena di bancarelle e mercanti. Passammo davanti a un banco carico di roba che era stata trasportata su per la montagna prima dell’inondazione. Cartoni del latte pieni di benzina e cherosene, gioielli da fondere per farne qualcos’altro, una carriola, cibo in scatola, canne da pesca e ceste piene di vestiti.

    La bancarella lì accanto vendeva articoli costruiti o trovati dopo l’inondazione: piante e semi, scodelle d’argilla, candele, un secchio di legno, bottiglie d’alcol dalla distilleria lì vicino, coltelli fatti da un fabbro. Erano in vendita anche pacchetti di erbe con vistosi messaggi promozionali: CORTECCIA DI SALICE PER LA FEBBRE! ALOE VERA PER LE USTIONI!

    Una parte della merce aveva l’aspetto corroso delle cose che sono state sott’acqua. I mercanti pagavano qualcuno per nuotare fin dentro le vecchie case in cerca di oggetti rimasti lì da prima dell’inondazione e non marciti nel frattempo. Un cacciavite rivestito da uno strato di ruggine, un cuscino macchiato di giallo e pieno di muffa.

    La bancarella lì di fronte vendeva solo boccette di farmaci scaduti e scatole di munizioni. A ciascun lato del bancone stazionava di guardia una donna armata di mitra.

    Avevo messo tutti i pesci in una borsa che portavo in spalla: stringevo forte la tracolla mentre percorrevamo la strada principale verso lo spaccio. Con l’altra mano stringevo quella di Pearl. I suoi capelli rossi erano così secchi che iniziavano a spezzarsi alla radice. E la pelle era squamata e bruna, non per il sole ma per le prime avvisaglie dello scorbuto. Dovevo barattare quei pesci con frutta per lei e migliori attrezzature da pesca per me.

    Allo spaccio, svuotai la borsa sul bancone e contrattai con la bottegaia, una donna robusta con i capelli neri e senza denti inferiori. Negoziammo a lungo, ma alla fine ci accordammo per i miei sette pesci in cambio di un’arancia, un filo da cucito, una lenza da pesca e una focaccia. Riposi il tutto nella borsa e mostrai alla bottegaia le foto di Row, chiedendole se l’avesse vista.

    La donna si soffermò a guardare le fotografie. Poi scosse lentamente la testa.

    «Ne è sicura?» chiesi, convinta che quella pausa significasse che aveva visto Row.

    «Non ci sono ragazze così, qui» annunciò la donna con un accento marcato, e ricominciò a incartare i miei pesci.

    Io e Pearl ci incamminammo lungo la strada principale verso il porto. Dovevo controllare le navi, mi dissi. Quel paese era così affollato che Row poteva anche trovarsi lì e la bottegaia non averla mai vista. Io e Pearl camminavamo mano nella mano, indietreggiando dai mercanti che si sporgevano dalle bancarelle e ci gridavano dietro: «Limoni freschi! Uova di gallina! Compensato a metà prezzo!».

    Davanti a me vidi una ragazzina con lunghi capelli neri e un vestito azzurro.

    Restai di sasso. Il vestito che aveva indosso era di Row: aveva lo stesso disegno cachemire, una balza sul fondo e le maniche scampanate. Il mondo si appiattì all’improvviso, l’aria si fece rarefatta. Un uomo mi stava chiedendo di comprare il suo pane, ma la voce mi arrivava come da lontano. Guardavo la ragazza e mi sentivo frastornata, in preda alle vertigini.

    Corsi verso di lei, rovesciando una carretta piena di frutta, tirandomi dietro Pearl. In fondo al porto l’oceano era di un azzurro cristallino, sembrava improvvisamente pulito e fresco.

    Presi la ragazza per le spalle e la feci girare. «Row!» dissi, pronta a rivedere il suo viso e a stringerla tra le braccia.

    Un volto diverso mi guardava accigliato.

    «Non mi toccare» mormorò la ragazza, tirando via la spalla dalla mia mano.

    «Mi dispiace» dissi, facendo un passo indietro.

    La ragazza sgattaiolò via, scoccandomi occhiate ansiose da sopra la spalla.

    Restai al centro della strada, tra la gente, avvolta in una nube di polvere. Pearl girò la testa verso il mio fianco e tossì.

    È un’altra persona, mi dissi, cercando di abituarmi a quella nuova realtà. La delusione voleva impadronirsi di me, ma la scacciai via. La troverai, prima o poi. Va tutto bene, la troverai, mi ripetevo.

    Qualcuno mi spintonò con forza e mi strappò la borsa dalla spalla. Pearl cadde a terra, io barcollai di lato e mi aggrappai a una bancarella che vendeva vecchi pneumatici.

    «Ehi!» gridai alla donna, che stava scappando lungo la strada e si infilava dietro un chiosco che vendeva pezze di stoffa. Le corsi dietro, scavalcando una carriola piena di pulcini e schivando un vecchio che camminava con il bastone.

    Corsi in circolo, cercando la donna. La gente mi fluiva intorno come se non fosse successo niente, un gorgo di corpi e voci che mi dava la nausea. Continuai a cercare per un tempo che mi parve lunghissimo, mentre la luce del sole si smorzava intorno a me gettando lunghe ombre sul terreno. Corsi e girai fin quasi a svenire, fermandomi vicino a dov’era successo. Alzai lo sguardo verso la strada e Pearl, ferma in piedi nel punto in cui era caduta, vicino alla bancarella con gli pneumatici.

    Non riusciva a vedermi in mezzo alle persone e ai banchi: il suo sguardo ansioso saettava qua e là sulla gente, le tremava il mento e si reggeva un braccio come se si fosse fatta male cadendo. Per tutto quel tempo mi aveva aspettata con quell’aria derelitta, sperando che tornassi da lei. La frutta che avevo nella borsa, che avevo ottenuto per lei, era l’unica cosa di cui andassi fiera quel giorno. L’unica cosa a cui potessi aggrapparmi per dimostrare che mi prendevo cura di lei.

    La guardai e mi sentii abbattuta, distrutta. Se avessi fatto più attenzione, se non mi fossi distratta, quella ladra non mi avrebbe strappato la borsa dalla spalla con tanta facilità. In passato ero così vigile e guardinga. Ormai il dolore mi aveva consumato tutte le energie, e la speranza di ritrovare Row era più pazzia che ottimismo.

    Lentamente capii: compresi il motivo per cui quel vestito azzurro mi era così familiare, il motivo per cui mi aveva artigliato le budella come un uncino. Sì, Row aveva lo stesso vestito, ma non era uno dei vestiti che Jacob aveva preso con sé quando me l’aveva portata via. Perché avevo trovato quel vestito in camera di Row dopo che se n’era andata e ci avevo dormito insieme per giorni, affondando il viso nel suo profumo, lasciando scorrere la stoffa tra le dita. Mi era rimasto impresso nella memoria perché era stato lasciato a casa, non perché lei potesse essere là fuori da qualche parte con quel vestito indosso. E poi, mi dissi, ormai doveva essere molto cresciuta, non sarebbe più entrata in quel vestito. Lo sapevo, eppure restava congelata nella mia mente come una bambina di cinque anni con gli occhi grandi e la risata cristallina. Anche se l’avessi incontrata per caso, ero sicura che l’avrei riconosciuta all’istante?

    Era davvero troppo, mi dissi. La delusione cocente ogni volta che andavo in un mercato e non trovavo risposte, non trovavo tracce di lei. Se io e Pearl volevamo farcela, in quel mondo, dovevo concentrarmi solo su di noi. Lasciar perdere tutto e tutti gli altri.

    Quindi avevamo smesso di cercare Row e Jacob. A volte Pearl mi chiedeva perché avessimo smesso, e io rispondevo con la verità: non ce la facevo più. Sentivo che erano ancora vivi, ma non capivo perché non fossi riuscita a scoprire niente nelle piccole comunità che ancora esistevano, appollaiate sulle pendici dei monti, circondate dall’acqua.

    Adesso andavamo alla deriva, passavamo le giornate senza una destinazione. Ogni giorno era uguale al precedente e scivolava nel successivo come un fiume che si immette nell’oceano. Ogni notte stavo sveglia ad ascoltare il respiro di Pearl, il ritmo costante del suo corpo. Sapevo che era un’ancora per me. Ogni giorno temevo che una nave di corsari ci prendesse di mira; oppure che i pesci non avrebbero riempito le nostre reti e saremmo morte di fame. Gli incubi mi travolgevano e la mia mano scattava verso Pearl nella notte, svegliandoci entrambe. Tutte quelle paure, messe in fila, con un po’ di speranza infilata nelle fessure tra l’una e l’altra.

    Chiusi le trappole per i granchi e le gettai dalla barca, lasciandole affondare per venti metri. Mentre scrutavo la costa sentii fremere in corpo una strana paura, una bollicina di tensione. La costa era composta da terreno paludoso, erba scura e sterpaglie; gli alberi crescevano un po’ più indietro, sulle pendici del monte. Ora arrivavano fin sopra la vecchia linea degli alberi: soprattutto giovani pioppi, salici e aceri. Una piccola baia riempiva la curva descritta dalla costa, dove a volte attraccavano i mercanti o stavano appostati i corsari. Avrei dovuto prendermi il tempo di perlustrare la baia e accertarmi che l’isola fosse deserta. Non c’era mai una via di fuga rapida sulla terra come c’era in acqua. Mi preparai mentalmente: dovevamo cercare acqua sulla terraferma. Altrimenti non avremmo resistito un solo altro giorno.

    Pearl seguì il mio sguardo lungo la costa.

    «È uguale alla costa dov’erano quelle persone» disse per punzecchiarmi.

    Mi stuzzicava da giorni con il ricordo dei corsari che avevamo visto da lontano assaltare una barca. Ce n’eravamo andate, e mentre il vento ci portava via avevo sentito il cuore pesante, le membra stanche. Pearl era turbata all’idea che non avessimo provato ad aiutarli, e io cercavo di ricordarle che era importante passare inosservate. Ma dietro le mie razionalizzazioni, temevo che il cuore mi si fosse rimpicciolito mentre l’acqua si alzava intorno a me: il panico mi aveva travolta mentre l’acqua ricopriva la terra, mi aveva riempita scacciando ogni altra cosa, riducendo il cuore a un nucleo piccolo e duro che non riconoscevo più.

    «Come avremmo fatto a fronteggiare un’intera nave di corsari?» domandai. «Nessuno sopravvive a una cosa del genere.»

    «Non ci hai neppure provato! Non te ne importava nulla!»

    Scossi la testa. «Mi importa più di quanto pensi. Non c’è limite a quanto ti possa importare di una cosa.» Ho esaurito le energie, volevo dirle. Forse era un bene che non avessi trovato Row. Forse non volevo sapere cosa avrei fatto per essere di nuovo con lei.

    Pearl non rispose, quindi dissi: «Adesso ognuno è solo».

    «Non mi piaci» ribatté, sedendosi con la schiena rivolta verso di me.

    «Non devo piacerti per forza» sbottai. Chiusi gli occhi e mi premetti l’osso in mezzo alle sopracciglia.

    Mi sedetti accanto a lei, che continuò a guardare dall’altra parte.

    «Hai fatto di nuovo quei sogni, stanotte?» Cercai di parlare in tono gentile e a bassa voce, ma una nota di severità si intrufolò lo stesso.

    Lei annuì, strizzando via il sangue dalla coda del serpente verso il buco che era rimasto al posto della testa.

    «Non lascerò che ci succeda. Resteremo insieme. Sempre» dissi. Le scostai i capelli dal viso e l’ombra di un sorriso le corse sulle labbra.

    Mi alzai e andai a controllare la cisterna. Quasi vuota. Acqua tutt’intorno, ma nulla di potabile. Avevo già mal di testa per la disidratazione e vedevo sfumare i contorni del mio campo visivo. La maggior parte dei giorni c’era molta umidità; negli altri pioveva quasi sempre, ma al momento eravamo in un periodo di siccità. Dovevamo trovare ruscelli di montagna e bollire l’acqua. Riempii la borraccia di Pearl con l’ultima acqua rimasta e gliela porsi.

    Smise di giocare con il serpente decapitato e soppesò la borraccia. «L’hai data tutta a me» disse.

    «Ne ho già bevuta un po’» mentii.

    Pearl mi fissò, leggendomi nel pensiero. Non riuscivo mai a nascondermi da lei, non quanto riuscivo a nascondermi da me stessa.

    Legai il coltello alla cintura e nuotammo a riva con i secchi per raccogliere le vongole. Temevo che ci fosse troppa umidità; arrancammo nella palude fino a trovare un tratto più asciutto verso sud, dove il sole splendeva caldo e costante. La distesa di fango era punteggiata di piccole buche. Iniziammo a scavare con due pezzi di legno, ma dopo qualche minuto Pearl gettò via il suo.

    «Non troveremo niente» si lamentò.

    «E va bene» sbottai. Sentivo le braccia e le gambe pesanti per la fatica. «Allora sali sul monte e vedi se trovi un ruscello. Cerca i salici.»

    «So cosa devo cercare.» Girò sui tacchi e cercò di correre su per il fianco del monte. Poverina, cercava ancora di compensare il movimento del mare: batteva i piedi a terra con troppa forza, ondeggiava di qua e di là.

    Continuai a scavare, formando mucchi di fango intorno a me. Trovai una vongola e la gettai nel secchio. Sopra il rumore del vento e delle onde, mi parve di sentire delle voci da dietro la curva della montagna. Mi sedetti sui talloni, all’erta, in ascolto. Sentii crescere la tensione lungo la spina dorsale e tesi l’orecchio, ma non udii nulla. Quando ero sulla terraferma mi sembrava sempre di percepire cose che non c’erano: sentivo una canzone dove non c’era musica, vedevo il nonno dopo che era già morto. Come se trovarmi a terra mi riconducesse al passato e a tutte le cose che si era portato via.

    Mi sporsi in avanti e affondai le mani nel fango. Lanciai un’altra vongola nel secchio. Ne avevo appena trovata un’altra quando un breve grido squarciò l’aria. Mi raggelai, alzai lo sguardo, cercai Pearl.

    CAPITOLO 2

    Vari metri più su, lungo le pendici del monte, davanti ai cespugli e a una ripida parete di roccia, un uomo secco e allampanato reggeva Pearl davanti a sé e le puntava un coltello alla gola. Pearl era immobile, gli occhi scuri e mansueti, le braccia lungo i fianchi, impossibilitata a raggiungere il coltello che portava alla caviglia.

    L’uomo aveva un’espressione disperata, smarrita. Mi alzai lentamente; il cuore mi rimbombava nelle orecchie.

    «Vieni con me» disse l’uomo. Aveva uno strano accento che non riconoscevo, con le consonanti secche e marcate.

    «Va bene» risposi, alzando le mani per mostrargli che non intendevo fare scherzi, e mi incamminai verso di loro.

    Quando li raggiunsi, l’uomo disse: «Se muovi un muscolo, lei è andata».

    Annuii.

    «Ho una nave. Tu la ripulirai per me. Lascia cadere il coltello.»

    Sentii montare il panico dentro di me mentre slacciavo il coltello e lo lanciavo verso di lui. Se lo infilò nella cintura e mi sorrise. Buchi al posto dei denti. La sua pelle bruciata dal sole era di un bruno rossastro e i capelli biondicci gli crescevano a chiazze. Aveva una tigre tatuata sulla spalla. I corsari si tatuavano l’un l’altro, spesso con animali, ma non ricordavo quale banda usasse la tigre.

    «Non ti preoccupare. Mi prenderò cura di te. È su da quella parte.»

    Seguii l’uomo e Pearl lungo il fianco della montagna, verso la baia. Le erbacce mi graffiavano le caviglie e inciampai su qualche roccia. L’uomo abbassò il coltello dal collo di Pearl ma le tenne una mano sulla spalla. Avrei voluto farmi avanti, ma il coltello sarebbe tornato su prima che io potessi strappargli Pearl dalle mani. Brevi flash di come sarebbero potute andare le cose mi attraversarono la mente: l’uomo che decideva di volere solo una di noi, o che c’erano troppe persone contro cui combattere una volta arrivati alla nave.

    Si mise a parlare della colonia da cui veniva, a nord. Volevo che stesse zitto, che mi lasciasse riflettere. Dalla spalla gli penzolava una borraccia. Udii un liquido sciabordare dentro e la mia sete crebbe ancora più della paura: sentii la bocca riarsa, le dita impazienti di toccare la borraccia e svitare il tappo.

    «È importante ora che abbiamo nuove nazioni. È importante per…» L’uomo allungò una mano davanti a sé, come per raccogliere una parola a mezz’aria. «Organizzarsi.» Annuì compiaciuto. «È così che si faceva sempre, all’inizio, quando vivevamo ancora nelle caverne. Se la gente non si fosse organizzata, ci saremmo estinti.»

    C’erano altre tribù che cercavano di fondare nuove nazioni navigando da una terra emersa all’altra, erigendo basi militari sulle isole e nei porti, aggredendo altre tribù e stabilendo colonie. Quasi tutte le colonie erano nate da una nave che aveva conquistato altre navi, e a un certo punto iniziavano ad attaccare le comunità sulla terraferma.

    L’uomo girò la testa verso di me e io annuii frastornata, deferente, con tanto d’occhi. Eravamo a meno di un chilometro dalla nostra barca. Mentre ci avvicinavamo alla curva lungo il fianco del monte, il terreno si inclinò e ci ritrovammo a camminare lungo una ripida scarpata. Pensai di agguantare Pearl e saltare giù in acqua per nuotare fino alla barca, ma era una distanza eccessiva con il mare mosso. E non potevo avere la certezza che là sotto non ci fossero scogli.

    Ora l’uomo stava parlando delle navi da riproduzione gestite dalla sua tribù. Le donne dovevano sfornare circa un figlio all’anno, per alimentare gli equipaggi dei corsari. Aspettavano che le ragazze iniziassero a sanguinare prima di trasferirle sulle navi da riproduzione. Fino ad allora erano tenute prigioniere in una colonia.

    Durante le mie battute di pesca mi era capitato di incrociare navi da riproduzione: erano riconoscibili dalla bandiera, un cerchio rosso su fondo bianco. Una bandiera che avvertiva le altre navi di non avvicinarsi. Dato che sulla terraferma le malattie si diffondevano rapidamente, i corsari credevano che i bambini fossero più al sicuro sulle navi; e spesso era così. Tranne quando scoppiava un’epidemia a bordo: allora morivano quasi tutti, lasciando un vascello fantasma andare alla deriva finché non sbatteva contro una montagna e affondava.

    «So cosa stai pensando» continuò l’uomo. «Ma noi Abati Perduti facciamo le cose per bene. Non si può costruire una nazione senza abitanti, senza tasse, senza qualcuno che imponga il pagamento di quelle tasse. È grazie a queste cose che possiamo organizzarci.»

    «È figlia tua, questa?» mi chiese.

    Trasalii e scossi la testa. «L’ho trovata sulla costa qualche anno fa.» Non sarebbe stato così impaziente di separarci se avesse pensato che non fossimo parenti.

    L’uomo annuì. «Già, certo. Tornano utili.»

    Il vento cambiò mentre iniziavamo a girare intorno alla montagna e sentimmo arrivare voci dalla baia: schiamazzi di persone che lavoravano su una nave.

    «Somigli a una ragazza che ho conosciuto in una delle nostre colonie» mi disse l’uomo.

    Quasi non lo ascoltavo. Se mi fossi tuffata in avanti avrei potuto agguantarlo per il braccio destro, tirarlo dietro la schiena e sguainare il pugnale.

    L’uomo allungò una mano e toccò i capelli di Pearl. Mi sentii torcere le budella. Dal polso gli penzolava una catena d’oro con un ciondolo in legno scuro, con sopra inciso il profilo di una gru. La collana di Row. La collana che il nonno le aveva intagliato l’estate in cui eravamo andati a vedere le gru. Non era colorata, a parte la goccia di vernice rossa tra gli occhi e il becco dell’animale.

    Smisi di camminare. «Dove l’hai presa quella?» chiesi. Sentii il sangue ribollire nelle orecchie, tutto il mio corpo vibrare come le ali di un colibrì.

    L’uomo si guardò il polso. «Quella ragazza. Quella di cui ti parlavo. Così carina. Mi sorprende che sia sopravvissuta così a lungo. Non sembra il tipo…» Indicò la baia con il coltello. «Non abbiamo tutto il giorno.»

    Mi avventai su di lui e gli sferrai un calcio alla gamba destra. L’uomo inciampò e io gli affondai un gomito nel petto mozzandogli il fiato. Pestai la mano che teneva il coltello, lo afferrai e glielo puntai al petto.

    «Dov’è?» chiesi con voce roca, poco più che un sussurro.

    «Mamma…» disse Pearl.

    «Girati» ordinai. «Dov’è?» Spinsi il coltello tra le costole dell’uomo, la punta affondò tra la pelle e la membrana. Lui strinse i denti, le tempie gli si imperlarono di sudore.

    «Valle» ansimò. «La Valle.» Scoccò un’occhiata verso la baia.

    «E suo padre?»

    L’uomo si accigliò confuso. «Non era insieme al padre. Dev’essere morto.»

    «Quand’è stato? Quando l’hai vista?»

    L’uomo chiuse gli occhi. «Non lo so. Un mese fa? Subito dopo siamo venuti qui.»

    «È ancora lì?»

    «Era lì quando me ne sono andato. Non aveva ancora l’età…» Fece una smorfia di dolore e cercò di riprendere fiato.

    Stava per dire: non aveva ancora l’età per la nave da riproduzione.

    «Le hai fatto del male?»

    Malgrado la situazione, gli si dipinse in volto un’espressione soddisfatta, gli brillarono gli occhi. «Non si è lamentata più di tanto» disse.

    Affondai il coltello fino all’impugnatura e lo tirai fuori, per sbudellarlo come un pesce.

    CAPITOLO 3

    Io e Pearl rubammo la borraccia dell’uomo e gettammo il corpo dalla scogliera. Mentre tornavamo di corsa verso la barca continuavo a pensare al suo equipaggio nella rada: mi chiedevo dopo quanto tempo avrebbero mandato qualcuno a cercarlo. C’era abbastanza vento per sospingerci rapidamente verso sud. Se fossimo riuscite a portare la Bird dietro un’altra montagna, sarebbe stato difficile rintracciarci.

    Quando raggiungemmo l’imbarcazione levai subito l’ancora, Pearl alzò le vele e salpammo a tutta velocità, lasciandoci alle spalle la costa; eppure non riuscivo ancora a respirare. Mi nascosi da Pearl scendendo sottocoperta: mi tremava tutto il corpo, più o meno come aveva tremato quello dell’uomo mentre moriva. In vita mia mi era capitato di partecipare a delle risse, di vivere momenti tesi con le armi sguainate, ma fino a quel giorno non avevo ancora ucciso nessuno. Uccidere quell’uomo era stato come entrare in un mondo diverso. Mi sembrava di esserci già stata ma di averlo dimenticato, perché non volevo ricordare. Non mi faceva sentire potente; mi faceva sentire più sola.

    Navigammo verso sud per tre giorni fino a raggiungere Apple Falls, un piccolo porto commerciale arroccato su una montagna che era stata nella British Columbia. L’acqua nella borraccia ci durò un solo giorno, ma alla fine del secondo piovve un po’, quanto bastava per non morire di sete fino ad Apple Falls. Gettai l’ancora e guardai Pearl. Stava ferma a prua e scrutava il panorama.

    «Non avrei voluto che lo vedessi» dissi a Pearl, guardandola attentamente. Da quel giorno non mi aveva quasi più rivolto la parola.

    Si strinse nelle spalle.

    «Voleva farci del male. Secondo te non avrei dovuto farlo? Secondo te era una brava persona?» domandai.

    «È solo che non mi è piaciuto. Non mi è piaciuto neanche un po’» mormorò. Sembrò rifletterci per un momento, poi disse: «Persone disperate». Mi lanciò un’occhiata un po’ troppo intensa. Quando mi chiedeva perché le persone erano crudeli, le rispondevo sempre che le persone disperate fanno cose disperate.

    «Sì» dissi.

    «Ora la cercheremo?»

    «Sì» rispose la mia bocca, prima che avessi deciso cosa rispondere. Una risposta irrazionale. Solo l’immagine nella mia mente di Row in pericolo e io che le andavo incontro, senza avere scelta, una sola direzione in cui procedere, come la pioggia che cade dal cielo e non torna più su.

    Ero meravigliata da quella rivelazione, ma Pearl non sembrava sorpresa. Mi guardò e disse: «Credi che piacerò a Row?».

    Andai da lei, mi accovacciai e la abbracciai. Affondai il viso tra i suoi capelli che profumavano di salsedine e zenzero; il suo corpo era morbido e vulnerabile come la notte in cui l’avevo partorita.

    «Scommetto di sì» dissi.

    «Ce la caveremo?»

    «Andrà tutto bene.»

    «Hai detto che ognuno è solo. Io non voglio stare da sola» disse.

    Sentii una stretta al petto e la abbracciai di nuovo. «Tu non sarai mai sola» promisi. La baciai sulla sommità della testa. «Meglio metterci a contare questi» dissi, indicando i secchi pieni di pesce sul ponte della barca.

    Row è là fuori da sola, continuavo a pensare, soppesando tra le mani ciascun pesce morto, e mentre una parte di me si chiedeva quanto valesse il pesce, l’altra immaginava Row da sola su qualche costa. Jacob era morto? L’aveva abbandonata? A quel pensiero una rabbia gelida mi fece tremare le mani. Lui abbandona gli altri: è fatto così.

    Ma con lei non l’avrebbe mai fatto, ragionai tra me e me, e mi sentii sprofondare di nuovo nell’odio che per anni mi aveva tenuta sveglia di notte, dopo che lui se n’era andato. Ero stata accecata dall’amore e ora, lo sapevo, ero accecata dall’odio. Dovevo concentrarmi. Ricordare Row e dimenticare lui.

    Negli ultimi tre giorni di navigazione una parte di me aveva pensato incessantemente a Row. Avevo la sensazione che tutto il mio corpo pianificasse il modo migliore per raggiungerla, mentre la coscienza si concentrava sulla cima da legare o la lenza da tirare, le piccole incombenze quotidiane che mi ancoravano al mondo. C’era un sottofondo di panico, come un lieve ronzio, e lo shock di aver scoperto che era viva, e una strana serenità animale mentre mi aggiravo per la barca come se quello fosse un giorno come tanti altri. Era ciò che avevo sognato e sperato, e anche ciò che avevo temuto. Perché se era viva significava che dovevo andare a cercarla, dovevo rischiare tutto. Che genere di madre abbandona la propria figlia nel momento del bisogno? Eppure, trascinare Pearl in quel viaggio non significava, in un certo senso, abbandonare lei? Abbandonare la vita serena che avevamo lottato per costruirci insieme?

    Caricammo i salmoni e gli halibut in quattro ceste. Avevamo pulito e affumicato il salmone sulla barca, ma l’halibut era fresco di quella mattina, quindi poteva essere una buona merce di scambio.

    Apple Falls aveva un nome azzeccato: un filare di meli in una radura tra due monti. Le guardie del frutteto sparavano ai ladri dalle torri di guardia su ciascuno dei monti. Speravo che saremmo riuscite a ottenere almeno mezzo cesto di mele, oltre a un po’ di grano e semi. All’ultimo mercato avevamo portato solo tre ceste di pesce e avevamo faticato molto per barattarle con la fune, l’olio e la farina di cui avevamo bisogno. Dovevamo procurarci un po’ di semi per coltivare ortaggi a bordo. Al momento avevamo solo una pianta di pomodoro mezza morta. Beatrice, la mia vecchia amica ad Apple Falls, mi avrebbe dato più di chiunque altro per i miei pesci.

    L’acqua si increspava contro le pendici dei monti e la costa saliva con una forte pendenza, creando una stretta cornice di torba che fungeva da molo. Nel corso degli anni era stata costruita una passerella di legno mezza sommersa.

    Ormeggiammo la barca e pagammo la tariffa del porto con una cassa di rottami metallici che avevo trovato sul bagnasciuga. La Bird era una delle imbarcazioni più piccole del porto, ma era solida e ben costruita. Il nonno l’aveva progettata perché fosse semplice e facile da manovrare. Un albero quadrato, un timone, una pertica e remi ai due lati. Un telone di copertura del ponte, fatto con vecchi tappeti e teli di plastica, sotto cui dormivamo di notte. Il nonno l’aveva costruita con gli alberi del nostro giardino nel Nebraska, all’inizio del Diluvio dei Sei Anni, quando avevamo capito che la fuga era la nostra unica possibilità di sopravvivenza.

    All’epoca della mia nascita l’acqua aveva già ricoperto le coste di tutto il mondo. Molte nazioni erano ridotte alla metà delle dimensioni originarie. I migranti scappavano verso l’entroterra, e all’improvviso il Nebraska era diventato un luogo affollatissimo. Ma nessuno poteva sapere che il peggio doveva ancora venire: la grande inondazione che era durata sei anni, l’acqua che era arrivata più in alto dell’immaginabile, interi Paesi diventati fondali marini, ogni città una nuova Atlantide.

    Prima del Diluvio dei Sei Anni c’erano stati terremoti e tsunami, a ripetizione. La terra stessa sembrava permeata di energia. Allungavo una mano e percepivo il calore nell’aria, come la pulsazione di un animale invisibile. Alla radio girava voce che i fondali marini si fossero spaccati, che l’acqua si riversasse nell’oceano dalle profondità della Terra. Ma non avevamo mai saputo con certezza cosa fosse successo; sapevamo solo

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