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Il cane che aveva perso il suo padrone
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Il cane che aveva perso il suo padrone
E-book364 pagine5 ore

Il cane che aveva perso il suo padrone

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Info su questo ebook

Di solito, nell’arco della propria vita, un amante dei cani cambia più di un amico a quattro zampe. Nel mio caso però è diverso: sono stato io a perdere il mio padrone. E lo sto ancora cercando. Da più di un secolo, da quando mi è stato concesso l’incredibile dono di non invecchiare mai. La mia esistenza è un mistero. Certo, se riuscissi a trovare il mio primo padrone potrei avere le risposte che cerco. Quell’uomo onorevole e leale, dalla voce dolce e dal temperamento mite, sarebbe capace di spiegarmi ogni cosa. È per questo che non mi arrendo e continuo a cercarlo. Sperando disperatamente che sia ancora vivo. All’età di 217 anni, un vecchio cane attraversa tutta l’Europa: dalla strana corte del re Carlo I alle guerre per la successione spagnola, passando per Versailles, Amsterdam e la Venezia del XIX secolo. Nel suo percorso farà amicizia con animali e uomini, si innamorerà, si meraviglierà di fronte alla duplice capacità umana di innalzarsi producendo sublime musica e di cadere in basso combattendo squallide guerre. Mentre la Storia intorno a lui cambia, un sentimento solido e forte non lo abbandona mai: l’indissolubile legame con il suo padrone.

Il viaggio attraverso i secoli di un cane vecchio e saggio, alla ricerca del suo padrone tra le corti e i campi di battaglia di tutta Europa

«Maestoso, vivido e profondo. Mi sembrava di sentire insieme al protagonista gli odori del mondo. La storia di un cane che cerca il suo padrone è commovente e tenera, sono stata catturata da questo libro incantevole sin dall’inizio.»
Rachel Joyce, autrice di L’imprevedibile viaggio di Harold Fry

«Un romanzo ricco di emozioni sulla devozione canina e il vero significato della parola fedeltà.»
Susan Wilson, autrice di Lezioni di vita randagia
Damian Dibben
È autore di bestseller internazionali per ragazzi, tradotti in 26 lingue in oltre 40 Paesi. Ha lavorato come sceneggiatore e attore per progetti come Il fantasma dell’Opera, Il gatto con gli stivali e Il giovane Indiana Jones. Vive a Southbank, a Londra, in una casa che dà sulla St. Paul’s Cathedral, con la sua compagna Ali e il cane Dudley. Il cane che aveva perso il suo padrone è il suo primo libro pubblicato in Italia dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2018
ISBN9788822719195
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    Anteprima del libro

    Il cane che aveva perso il suo padrone - Damian Dibben

    1907

    Titolo originale: Tomorrow

    Copyright © Damian Dibben, 2018

    The moral right of the author has been asserted

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Sofia Buccaro

    Prima edizione ebook: maggio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l, Roma

    ISBN 978-88-227-1919-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Damian Dibben

    Il cane che aveva perso il suo padrone

    Indice

    Prologo. Uno

    Prologo. Due

    1. Un’anima persa

    2. Il gigante decapitato

    3. La veglia

    4. Il diluvio

    5. L’uomo del passato

    6. Amsterdam

    7. Sporco al ballo

    8. La vigilia di Natale

    9. Opalheim

    10. La guerra

    11. Sangue falso

    12. La danza dei morti

    13. Il bastone di Asclepio

    14. Blaise

    15. Il branco

    16. Il pozzo

    17. La chiesa a Waterloo

    18. Vilder

    19. Valentyne

    20. Gli eredi

    21. Valentyne e Vilder

    22. Domani

    Prologo

    Uno

    Castello di Elsinore, Danimarca, 1602

    Questo viaggio lungo tante vite cominciò con un evento banale: eravamo andati insieme a raccogliere ostriche sulla spiaggia. Erano il suo cibo preferito: adorava il rituale di aprire le conchiglie ruvide per scoprire il tesoro all’interno, liscio alabastro e liquore incorporeo. Quando ne mangiava in gran quantità le ostriche avevano il potere di trasformarlo: rilassava le spalle, la fronte si appianava e il suo sguardo si addolciva, talvolta fino alle lacrime.

    «Sarà un pomeriggio fortunato», disse infilandosi gli stivali. «C’è bassa marea. Così bassa che quasi potremmo raggiungere a piedi la Svezia». Prese il mantello, gli diede una scrollata e se lo legò al collo per avvolgerlo intorno alle spalle. «E ho un presentimento». Aprì il catenaccio alla porta e la spalancò. «Sì, c’è ancora luce». Quando si accorse che non lo stavo seguendo si fermò e si voltò, la testa reclinata di lato: una sagoma inquisitoria sull’uscio. «Dove sei, campione?». Ancora oggi, al ricordo della sua voce – dolce e profonda come una forra boschiva – il cuore mi si spezza come un guscio.

    Rimasi nell’ombra, nel salone, seminascosto dalle gambe intarsiate del tavolo. Ora, secoli dopo e a mezzo continente di distanza, capisco come mai ebbi un brutto presentimento, l’infausto presagio di ciò che avremmo trovato sulla limacciosa spiaggia sottostante, ma all’epoca non lo capii. Non mi trattennero nemmeno l’insolenza e la testardaggine: erano tratti che non avevo ancora sviluppato. Non ero granché perspicace. Eravamo già andati a spasso il mattino e di lì a poco sarebbe calato il buio. Era ora di accendere il fuoco nel salottino con le pareti rivestite di rovere o nella biblioteca del castello, era ora che io mi accucciassi davanti al camino per scaldarmi il pelo mentre lui leggeva attentamente qualche libro, parlottando tra sé.

    Quando mi trovò al buio, gli occhi si incresparono in un sorriso. «Cos’è questo trambusto?». Si avvicinò, si inginocchiò accanto a me e mi arruffò il pelo sulla collottola, facendomi tremare dalla vergogna. «Dove ci porterà la vita, se ci nascondiamo sotto il tavolo? È nel mondo che troveremo le risposte. La felicità. E le ostriche, campione». Scoppiò a ridere, girò i tacchi e questa volta lo seguii.

    Arrivati fuori mi rianimai. Il vento caldo trasportava dolci zaffate di pino, felce e timo selvatico dall’entroterra. Solo allora mi accorsi che in realtà mancava ancora molto al tramonto: il benevolo sole rosato non era ancora arrivato all’orizzonte. Per un attimo, la schiena dritta, le orecchie fiere, fissai il litorale tra le mura e il mare aperto. All’epoca gli unici posti che conoscevo erano il castello e il paesino di Elsinore. Non avevo ancora capito che ero destinato a vagare, in perenne viaggio da un palazzo all’altro e poi da un campo di battaglia all’altro. Ricordo però che quel pomeriggio fui grato di ciò che mi aveva riservato la sorte: una casa, un compagno e una bella vita.

    Quando lui avvertì il mio cambiamento d’umore scoppiò a ridere di nuovo: «Allora sei tornato da me, eh, mio virtuoso? Permaloso che non sei altro». Prese un secchio, gettò a terra l’acqua piovana e uno accanto all’altro scendemmo la scalinata di pietra che conduceva alla spiaggia. «Guarda, campione, il mare non ci ha abbandonati! Com’è stato gentile a mollare la preda». Dinanzi a noi si apriva una sconfinata distesa argentea di sabbia bagnata che svaniva verso un misterioso orizzonte da sogno.

    Nel giro di pochi secondi trovò un ammasso di conchiglie, si acquattò, tirò fuori un coltello dalla tasca e ne staccò una. La soppesò, la esaminò per bene e fece una smorfia. «Forse è troppo timorosa. O noi troppo irruenti per lei». Me la porse. All’epoca me ne fregavo delle ostriche, come adesso d’altronde – non riesco a togliermi dalle narici quel puzzo salmastro – ma per educazione ci strusciai sopra il naso. Lui ridacchiò di nuovo. «Sono pienamente d’accordo. È troppo piccola. Riportiamola alla sua famiglia e auguriamole buona fortuna. Avanti! Cerchiamo quelle con un sapore di mare più deciso, quelle che mi piacciono tanto».

    Ci inoltrammo sulla spiaggia. La sabbia diventò più fredda, bagnata e sassosa, simile a cemento non solidificato. E mutò anche il tempo: da nord prese a spirare una brezza gelida che pareva scolorire il sole e il cielo, ingrigirli come le distese limacciose che avevamo di fronte, appiattire tutto. Era come se fossimo in uno di quei teatri lirici che avrei visto in seguito – fondali che si ritirano, mondi alternativi in scatola – due personaggi che vagano in un paesaggio sconfinato.

    Quando finalmente il mio padrone trovò delle ostriche abbastanza grandi e iniziò a staccarle per metterle nel secchio, io avevo cambiato umore di nuovo. Mi voltai a guardare il castello. Aveva un’aria immobile e sinistra. Le uniche luci accese erano quelle del nostro alloggio vicino alle cucine. Quasi tutta la famiglia reale se n’era andata a svernare altrove. Nonostante il mio padrone mi avesse tenuto alla larga da loro per la mia goffaggine da cucciolo, adoravo l’atmosfera da parata che si respirava negli appartamenti reali e nelle cucine: i giochi dei bambini, la frenesia di maggiordomi e ciambellani, i flauti e i clavicembali e gli scoppi di risa. All’epoca, a parte la vecchia regina – che il mio padrone era restato ad accudire, casomai si fosse ammalata – erano rimasti soltanto i domestici più arcigni: quegli asociali delle guardie, le lavandaie perennemente velate dalle tovaglie sferzate dal vento e i guardiani notturni con i loro pesanti mazzi di chiavi. Mi rigirai verso il mio padrone, nella speranza che avesse finito, ma lo trovai immobile, con le braccia spalancate e il secchio appoggiato a terra.

    «Shhh», mi fece quando gli andai incontro lentamente, un suono tanto penetrante che piegai all’indietro le orecchie e mi chiesi se avessi combinato qualche guaio. Stava fissando un isolotto di scogli sbilenco a qualche metro di distanza. Di solito era sommerso dall’acqua, ma la bassa marea lo aveva scoperto del tutto. Mentre la brezza soffiava sulla spiaggia, un lato dell’isolotto si allungò a mezzaluna per poi riprendere la sua forma sbilenca. Spaventato, rivolsi lo sguardo al mio padrone, che però non mi diede alcuna spiegazione. Non distolse lo sguardo dagli scogli. Il vento sibilava sollevando tutt’intorno macabri spettri di sabbia. L’isolotto si sollevò un’altra volta, e a quel punto mi resi conto che a muoversi era qualcosa dietro gli scogli: la vela di una nave.

    «Chi siete? Chi va là?», chiese il mio padrone con durezza. Quando iniziai ad abbaiare mi prese saldamente la testa tra le mani. «Sta’ zitto, va bene? Sta’ zitto». Avanzò sulla spiaggia, avvicinandosi con prudenza finché non riuscimmo a vedere il relitto: una barchetta arenata sulla fiancata, la vela blu legata tra un pennone e la poppa, la chiglia sventrata. Si sollevò una terza folata di vento, più forte, che trasportò pungenti zaffate di ammoniaca che mi pizzicarono il naso.

    Sulla battigia giacevano due casse rovesciate, una integra, l’altra in mille pezzi, dalla quale fuoriusciva un arcobaleno di fialette in frantumi. Il mio padrone raddrizzò il baule intatto, pulì dal fango una targhetta e trasecolò. «Opalheim». Si girò verso di me lanciandomi un’occhiata strana. «Viene da Opalheim». Negli anni a seguire avrei sentito spesso quel nome, foriero di presagi nefasti. Lo stemma raffigurava tre torri a guglia sotto una falce di luna. Il mio padrone passò una mano tremante sulle boccette rotte, ma non le raccolse. Assomigliavano in tutto e per tutto a quelle che nel suo laboratorio contenevano polverine e metalli.

    «Chi va là, ho detto?», azzardò nuovamente col tono battagliero che negli anni imparai a riconoscere, ma in risposta ricevette soltanto un gemere di cime, uno sbatacchiare di vele e un inconfondibile tanfo di carne in putrefazione. All’epoca l’avevo sentito solo intorno ai topi e ai gabbiani morti, quello lì era di gran lunga più forte e pungente.

    Doveva averlo notato anche il mio padrone, perché gli tremavano le mani e sprigionava lievi zaffate surrenali: l’odore della paura. Andammo dietro la barca e lì trovammo il corpo, le gambe legate con una cima e sollevate verso l’albero maestro, la testa e il busto semisepolti nella sabbia bagnata. Tra un cigolio e l’altro, la nave dondolava trascinandosi dietro il cadavere. Il mio padrone si passò una mano sulla guancia. «Cosa facciamo, campione?». Poi, con un filo di voce che mi parve vagamente speranzoso, chiese al corpo: «Allora sei morto, eh?».

    Tornò in sé, raddrizzò le spalle, marciò verso la salma e se la issò in spalla. Il viso del mio padrone si rilassò all’istante, il terrore nel suo sguardo sparì e gli uscì di bocca un sospiro simile a una risata, ma non capii se fosse di sollievo o delusione. «Un corriere» disse. «Quando ho visto lo stemma, le tre torri, ho… ma era solo un corriere. Annegato, poveraccio. Il corriere che doveva riportare qui le mie cose. Nient’altro. Le ho chieste tantissimo tempo fa, me n’ero quasi scordato». E rifece quella strana risata. «Ti ricordi la burrasca? Quand’è stata? Una settimana fa? Era solo un messaggero che doveva consegnare il mio vecchio armamentario. Poveretto».

    Da vicino il tanfo mi serrò la gola. Il cadavere era mostruoso: la faccia e il busto gonfi come palloni, la pelle scollata dalla carne sottostante e striata di vene. La lingua sembrava un ciottolo nero carbone che spuntava dalla bocca bianca come un osso, mentre gli occhi erano vetri grigio chiaro.

    «Cosa ce ne facciamo?», stava dicendo il mio padrone. Lanciò un’occhiata alle onde che si infrangevano davanti a noi. «Se lo trascino in mare, la corrente lo riporterà a riva. Nessuno merita una fine del genere. Tantomeno un brav’uomo». Dopo i primi istanti di terrore, era tornato l’uomo pragmatico che conoscevo. «Farò come i romani». Lanciò uno sguardo allo spicchio di sole all’orizzonte. «Svelto, piccolo, tra poco farà buio».

    Si affrettò verso casa, mentre io rimasi davanti al cadavere, affascinato e disgustato al tempo stesso. Non era vivo nel vero senso della parola, non respirava, ma in un certo senso sembrava esistere con più intensità degli altri umani che avevo conosciuto. Forse perché la decomposizione è la forma di vita più virulenta, o forse perché nulla esprime il fenomeno dell’essere quanto la sua assenza.

    «Non restare indietro», disse da lontano la voce del padrone distorta dal vento. Era quasi arrivato a casa, il mantello sventolava a destra e sinistra mentre schivava le pozze tra gli scogli. Lo seguii.

    Aprì la porta con una spallata e mi ordinò di entrare per primo. «Aspettami qui, intesi?». A malincuore obbedii e aspettai nell’atrio buio mentre lui si precipitava in fondo al corridoio. Feci per sedermi, ma siccome il pavimento era gelato rimasi sull’attenti, le orecchie che si rizzavano a ogni tintinnio metallico e a ogni scricchiolio di legno provenienti dallo stanzino. Il mio padrone tornò portando con sé un grosso barattolo e una scatola con l’acciarino e la pietra focaia. Quando mi passò accanto fiutai una zaffata di sego e olio da lampada. «Aspettami qui. Torno subito». E sbatté la porta.

    Mi si rivoltò lo stomaco. Il calpestio ridiscese fino alla spiaggia. L’atrio si fece buio e presi a girare in cerchio cercando di tranquillizzarmi sul fatto che non ci fosse nulla da temere, che il mio padrone sarebbe tornato presto e sarebbe andato tutto bene.

    La paura, però, non fece che aumentare. Lanciai un’occhiata alla statua sul piedistallo in fondo alle scale, con cui talvolta parlava il mio padrone: un antico cane da caccia dallo sguardo triste, scolpito nel marmo (era straordinario che quel corpo ossuto fosse stato plasmato dalla mano dell’uomo), la testa girata verso uno straccione che gli si avvicinava da dietro. «Buondì a te, Argo!», diceva sempre il mio padrone accarezzandogli la testa. «Quanto sei stato paziente ad aspettare il suo ritorno».

    Siccome volevo a tutti i costi vedere cosa stesse facendo, sgattaiolai da una porta secondaria del castello e salii le scale fino al ballatoio. C’ero stato una volta, d’estate, quando il palazzo era molto animato. Ora c’erano solo le statue. Salii su una sedia e mi appoggiai al davanzale per ammirare il mare. In lontananza, il mio padrone era un’ombra che squarciava la mercuriale immobilità dell’arenile. Si fermò poco oltre l’isolotto sbilenco, trafficò intorno alla barca e qualche secondo dopo avvampò una luce dorata. I vetri alle finestre scintillarono: il mio padrone stava bruciando il corpo. Ricordo come fosse ieri che nell’istante in cui le fiamme raggiunsero l’apice sentii un nodo allo stomaco.

    Giustamente, il mio padrone rimase ad aspettare che le fiamme si abbassassero, dopodiché si voltò e a passo pesante si rincamminò verso casa. Di soppiatto scesi dalla sedia e osservai le statue: un colosso barbuto che lottava con una creatura marina, una fanciulla reclinata su un’agrippina con in mano una lira, un vecchio savio che sfoderava un libro aperto. Le ombre serali animavano i loro profili in modo spettrale. C’erano anche alcuni dipinti, raffigurazioni umane ancora più irreali, illusioni di tela e pigmenti: un signore con una lunga veste dal colletto di pelliccia e un gheppio appollaiato sull’avambraccio, una vecchia rugosa strizzata in un lungo abito rosso carminio, un giovane cicisbeo vestito di nero che reggeva un teschio. All’epoca dovevo ancora visitare i reami, scoprire l’orrore e la maestosità delle città, assistere coi miei occhi alla guerra – il tanfo metallico del sangue e della ferraglia incandescente – e perdere un caro amico. Dovevo ancora capire che per me i secoli si sarebbero susseguiti di vita in vita. Sarebbe accaduto di lì a poco. Eppure, in quell’istante, circondato da quei lugubri osservatori, in un certo senso presagii gli eventi incombenti. La stanza venne avvolta da una penombra che mi spaventò a morte… Dopodiché sentii il mio padrone rientrare. Scesi i gradini a due a due. Aveva riempito una cassa di vetrini colorati, le fialette prima disseminate sul bagnasciuga, e la stava appoggiando sull’uscio. Gli feci le feste, abbaiai tutto contento e lo leccai.

    «Che trambusto che fai! Che trambusto!», disse malgrado fosse scosso anche lui. Lo seguii nello stanzino, lo osservai lavarsi le mani al buio e andare nel salottino, dove accese le candele e chiuse le imposte alle finestre. Prima che chiudesse l’ultima si fermò a sbirciare gli scogli sbilenchi: sembrava ancora spaventato da cosa avrebbe potuto scoprire.

    «Andrà tutto bene, vero?», chiese inginocchiandosi per prendermi il muso tra le mani. «Ci piace la vita che facciamo, no?». L’improvvisa intensità del suo tono mi innervosì e di colpo mi tornò in mente il cadavere, il grasso che bruciava e le ossa che si annerivano e si incenerivano. Pensai alle statue e ai dipinti nel cupo ballatoio – il colosso barbuto, la giovane con la lira, il cicisbeo col teschio – che sembravano a loro volta provenire dal regno dei morti. Fu solo dopo aver acceso il fuoco ed esserci seduti al calduccio vicino al caminetto – lui su una poltrona e io ai suoi piedi –, quando il pavimento in pietra si riscaldò, che il cuore tornò a battermi normalmente nel petto.

    «No!», esclamò il mio padrone drizzandosi sulla seduta per guardarsi intorno. Mi voltai verso la porta, chiedendomi cosa avesse sentito. «Le ostriche!». Sospirò. «Le ho dimenticate in spiaggia. E pure il secchio. La corrente lo trascinerà via». Dopo una scrollata di spalle si riaccasciò sulla poltrona. «Pazienza. Ci torniamo domani. Magari troviamo pure di meglio».

    Lo osservai con la coda dell’occhio addormentarsi abbandonando le mani sui fianchi. Solo a quel punto mi tornò in mente il suo strano comportamento sulla spiaggia. «Allora sei morto, eh?», aveva chiesto al corpo col tono più bizzarro che gli avessi mai sentito uscire di bocca. Chissà chi si aspettava che fosse.

    Lo avrei scoperto presto.

    Prologo

    Due

    Whitehall, Inghilterra, cinque anni dopo

    Aspettammo nel gelido corpo di guardia, finché non ci venne incontro una signora.

    «Sì?», chiese secca. Era gracile come un uccellino, tutta vestita di nero, e stringeva un mazzo di chiavi.

    Il mio padrone si tolse il cappello e le sorrise. «Possibile che ti sia dimenticata di me?».

    Il gracile petto della donna ebbe un sussulto. «Non ci credo! Il medico scomparso!».

    Lui le sorrise. «Perdonami, Margaret, se ti ho mandata a chiamare, ma sono passati anni da quando stavo qui e non sapevo chi fosse rimasto da allora».

    «In effetti! Io sono rimasta. Me ne andrò solo chiusa in una cassa». Lo scrutò, incredula. «Quanti anni sono passati? Quattordici?»

    «Ventidue».

    Un verso di stupore. «Che bugiardo. Non sei cambiato di una virgola, io invece sono diventata una vecchia fantesca».

    «Macché, macché».

    Una risata.

    «Stavolta hai compagnia». La donna abbassò lo sguardo verso di me e presi a scodinzolare. Mi stette subito simpatica. Sprizzava vitalità da tutti i pori. «Che bello che è. Pare che sorrida».

    «Vero», si vantò lui. «Non fa che sorridere, il mio campione. A chiunque». Presi a scodinzolare a doppia velocità.

    «Davvero sono passati vent’anni?», chiese Margaret. «Come vola il tempo. Dov’è che sei andato a zonzo?»

    «Sono…». Come sempre quando non sapeva cosa rispondere, gli spuntarono le fossette sulle guance. «Arriviamo dalla Danimarca. Prima siamo stati a Firenze. Per un po’ a Madrid. E altrove…». Gesticolò. «Viaggiare è vivere, dico bene?».

    Non so se Margaret fosse d’accordo, ma continuò a sorridere. «E adesso dove vai?»

    «Whitehall? Se servono i miei servigi, per quanto umili. Tra tutti, Londra è il posto che mi mancava di più».

    La donna era visibilmente contenta. «Dovrei fare la smorfiosa, ma eviterò. I tuoi medicamenti mi sono mancati troppo e non ne ho mai avuto bisogno quanto adesso. Un impiego te lo trovo. Nuova dinastia o no, come avrai notato le chiavi le tengo ancora io. Entrate, entrate, tu e il tuo bel compagno… Fa un freddo becco». Ci fece cenno di accomodarci, ma il mio padrone non si mosse.

    «Dimmi un po’, negli ultimi anni è venuto a cercarmi un uomo?»

    «Un uomo?»

    «Giusto per sapere. Immagino di no, ma tu hai sempre tenuto d’occhio il viavai…».

    «Non che io ricordi. C’è qualche problema?»

    «No, no, nessuno». Sembrava che il mio padrone si fosse pentito di aver tirato fuori il discorso. «Il mio vecchio socio in affari, di tanti anni fa. Un chimico, come me».

    «Un altro! Meraviglioso. Che aspetto ha?»

    «Non importa, sul serio. Anni fa è venuto a trovarmi qui e pensavo che te lo ricordassi, ma… perdonami. Abbiamo fatto un lungo viaggio. Sono scombussolato. E hai ragione: fa freddo, facci strada».

    Margaret ci fece strada intorno a una corte interna.

    Il castello di Elsinore, mi resi conto, era ben poca cosa in confronto a Whitehall, che sembrava una bianca catena montuosa di palazzi, torri e colonnati, vetrate variopinte e scintillanti, tetti con centinaia di fastigi in mattoni.

    «Immagino tu abbia saputo della regina. Sono passati quattro anni e continuo a vedermela sbucare sulla porta per urlarmi qualcosa», disse la donna con un filo di voce. «Se tu non fossi andato via, magari sarebbe ancora viva. Non voleva sentire ragioni sulla biacca di piombo. A detta di tutti l’ha praticamente avvelenata. Inutile dire che ha fatto una macabra e spettacolare uscita di scena. Aveva ordinato di togliere tutti gli specchi a Richmond Palace, di coprire il pavimento di cuscini. C’è rimasta stesa per giorni, con le dita in bocca come un poppante, sempre con quel suo parruccone in testa. Alla fine ha esclamato: Non voglio più vivere, preferisco la morte!. E ha mantenuto la parola».

    «Non sarà facile dimenticarla».

    «Decisamente. Per non parlare poi dell’episodio dello scorso novembre. Ti è giunta voce?»

    «Diverse».

    Margaret si bloccò, si guardò intorno e lo afferrò per il braccio. «Indicibile, indicibile». La sua leggerezza era un bell’antidoto alla brumale, sconfinata austerità di Elsinore. La donna riprese il cammino attraverso quel dedalo di corti e corridoi, sussurrando: «Che tragedia! Li hanno trovati nella cripta… una trentina di barili, se non di più. Polvere da sparo pura. Proprio qui, praticamente sotto di noi. E poi tutti quegli interrogatori, torture raccapriccianti, ordinanze e processi. Ha assistito anche il re, da dietro una tenda. Te lo immagini? I cortigiani avevano i nervi a fior di pelle. Nessuno si fidava di nessuno. Poi sono cominciate le esecuzioni. Povera me! Io non ce l’ho fatta, ma avresti dovuto vedere la folla che è andata ad assistere alla strage! Agghiacciante, agghiacciante! Ti immagini se invece avessero vinto i congiurati? Avremmo preso una strada completamente diversa». Arrivammo in una stanza col focolare acceso. «Vi siete lasciati in malo modo, eh?»

    «Chi?»

    «Tu e il tuo socio. Lo so come vanno a finire i litigi. Due vetrai dello Strand che discutevano per delle formule sono diventati tanto violenti da finire a Newgate. Ti ha rubato delle formule segrete?», indagò con aria scandalizzata. Il mio padrone corrugò la fronte. «Poveretto, non ti caverò nulla di bocca. Che pettegola che sono. Aspetta qui e scaldati le ossa, vado a parlare ai piani alti». Si fermò un attimo. «Il medico scomparso e il suo cane sorridente. Incredibile, non sei cambiato di una virgola».

    E se ne andò.

    «Avvicinatevi», disse una voce.

    La stanza nella quale ci avevano accompagnati era in penombra e strabordava a tal punto di orpelli e legno intagliato che non avevo notato l’uomo seduto in un angolo. Un volto pallido e paffuto piantato su un’elaborata gorgiera di merletto, con le palpebre cadenti e una barbetta rada. Indossava vestiti elegantissimi, una complessa simmetria di velluto plissettato, ma puzzava di formaggio ammuffito.

    Dinnanzi a lui era distesa una femmina di cane lupo che mi lanciò un’occhiata. La salutai con una scodinzolata riverente, alla quale lei rispose con uno sguardo così sprezzante che mi vergognai. Dopodiché riabbassò il muso.

    «Sire», disse il mio padrone avanzando di un passo.

    L’uomo – re Giacomo, come avrei scoperto di lì a poco – studiò la pergamena che gli aveva dato il mio padrone. L’aveva scritta lui, con la sua grafia ferma e inclinata, durante la traversata del Mare del Nord.

    «Avete prestato servizio in tutti questi castelli?», chiese il re con un’impacciata zeppola, la lingua troppo grossa per la bocca che aveva. La sporcizia si era insinuata nei solchi sulle mani, soltanto i polpastrelli erano rosa.

    «In varie corti europee, sire. E anche qui a Whitehall: ho lavorato sei anni al servizio di vostra cugina la regina».

    «Allora conoscerete le stanze meglio di me. Chimica? Non è l’arte magica delle fattucchiere? Per sollevare tempeste dal nulla?»

    «Con tutto il rispetto, sire, quella non è chimica. La chimica è una scienza. Un’arte logica e razionale. Non sono un mago».

    Il sovrano lanciò un altro sguardo alla pergamena e trasalì sbigottito. «Anche in Persia? Davvero?»

    «Sì, sire. Presso il palazzo di Ismail a Tabriz».

    «La Persia!». Il re era sgomento. «È tutto un altro mondo. Là sì che praticano la magia».

    «Forse la matematica. Ai persiani scorre il sapere nelle vene, sire. Antichi saperi. È laggiù, lungo le vie della seta al di là del deserto, che ho scoperto i segreti della mia arte, meglio che in qualsiasi altro posto». Negli anni a seguire avrei sentito spesso il mio padrone nominare la Persia, Tabriz e la matematica, e ogni volta si illuminava.

    «Ma quanti anni avete?», gli chiese il sovrano scrollando la pergamena. «Per avere un’esperienza del genere?»

    «Cinquanta…», rispose subito il mio padrone, anche se dal tono sembrava una domanda. «Anno più, anno meno».

    A quelle parole il re sorrise, scoprendo denti macchiati quanto le dita. Si tirò su e si trascinò verso di me. Non era vecchio, ma camminava incerto sulle gambe, e aveva l’aspetto ordinario di un venditore ambulante col vestito buono. Mi mise una mano davanti al muso per farmela annusare. Lo feci, per educazione, ma puzzava di deiezioni e inchiostro. «Benvenuti a Whitehall», disse al mio padrone, per fargli capire che il colloquio era andato a buon fine. «Sia voi sia il vostro cane».

    La città-baule. Così il mio padrone chiamava Londra. Ho visitato così tanti posti che è facile dimenticare quanto mi avesse colpito la primissima metropoli in cui fossi mai stato. Grandi piazze cinte da case con timpani a sovrastare le facciate, ciascuna un castello in sé, ma riunite in portentose geometrie. E un nuovo universo di odori. Dopo i cupi affumicatoi e i carichi di pesce a Elsinore, l’onnipresente odore segalino di legname verniciato, l’aria laggiù sapeva di spezie esotiche: zucchero, cannella, noce moscata, caffè e cacao. Il profumo dei soldi che col tempo avrei imparato a riconoscere.

    Persino gli uomini che si affrettavano sui ciottoli grigiastri dei viali e tra i portici erano altrettanto altezzosi, con la loro freddezza e la loro scaltra sicurezza. Era l’epoca delle gorgiere a ruota, dei cupi tessuti opulenti, degli alti cappelli a forma di cono. Gli uomini portavano barba e baffi, i capelli che lasciavano la fronte scoperta, anche se alcuni sfoggiavano un tirabaci, e molti avevano mantelline appoggiate su una spalla. E le donne, strizzate in lunghi abiti accollati con spalline simili ad ali, erano altrettanto sicure di sé.

    Come a Elsinore, appena arrivava qualcuno il mio padrone teneva gli occhi aperti. Se giungevano navi al molo del palazzo si metteva a spiare dalla finestra del nostro alloggio chi sbarcava. Se invece sentiva una voce sconosciuta nella corte o negli alloggiamenti vicini accostava l’orecchio al muro. Sapevo perché: aspettava la persona che non si era spiaggiata sull’arenile di Elsinore. Sembrava che gli occhi di quello sconosciuto, un individuo che non avevo mai incontrato, ci seguissero ovunque andassimo. Addirittura immaginavo che aleggiassero nell’oscurità mentre dormivamo. Non sapevo niente di lui, solo che la sua presunta comparsa era stata preannunciata da uno stemma con tre torri sotto una falce di luna.

    Dopo qualche anno a Whitehall, un giorno d’inverno ci recammo alla festa del ghiaccio sul Tamigi assieme a Margaret. A dire il vero l’idea era stata sua. Lei e il mio padrone erano buoni amici, ridevano sempre e parlavano fitto, spesso

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