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Saffran: L’ispettore Parodi e le streghe di Triora
Saffran: L’ispettore Parodi e le streghe di Triora
Saffran: L’ispettore Parodi e le streghe di Triora
E-book421 pagine6 ore

Saffran: L’ispettore Parodi e le streghe di Triora

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Info su questo ebook

Verso la fine del XVI secolo, nel corso di una scorreria sulle coste liguri, un bambina dai capelli color zafferano (safran in molte lingue e dialetti), catturata dei saraceni, riesce a fuggire da una galea carica di schiavi. Approda su una terra sconosciuta, bellissima e aspra, e comincia un cammino che la condurrà, tra mille insidie, ad affiancare le protagoniste di uno dei più celebri processi alle streghe istruito in Italia: quello che cominciò a Triora nell’estate del 1587.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2020
ISBN9788899332686
Saffran: L’ispettore Parodi e le streghe di Triora

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    Anteprima del libro

    Saffran - Giovanni Barlocco

    RINGRAZIAMENTI

    - 1 -

    LA FUGA

    Zitta! Non importa, non ti muovere, non respirare, anche se il sudore brucia negli occhi e le braccia e le gambe ti fanno male e i sassi ti tormentano le costole, non muovere un muscolo nemmeno se hai i capelli intrisi di sangue che ti gocciola per la fronte, attraversa le labbra serrate e scola dal mento.

    Mamma! Gesù! San Patrizio! Allah! Allah misericordioso, anche lui va bene, Mamma mia!

    È sangue non tuo, non importa, ma se ti scoprono, gli uni o gli altri, allora sì, si mischierà a quello delle tue ferite, ti strapperanno gli occhi, il cuore, la vita.

    Lully, lullay. Thou little tiny child/ by by, lully lullay/ O sisters too/ How many we do,/ for preserve this day,/this poor youngling/for whom we do sing,/ by by, lully lullay/

    Canta. Canta con la mente. Senza smettere. Fatti portare via di qui, dal fragore del ferro e delle urla. Ricorda le dita della mamma che passavano tra i capelli, e la sua voce e quella filastrocca, che riempivano di magia ombre sempre più lontane, finché il mondo fatato scoloriva dietro alle palpebre, per tornare reale al sorgere del sole.

    Sarà morto? Selim, piegato sul bordo della barca tirata in secca, gronda come un maiale sgozzato, è suo il sangue che ancora mi bagna, ma non ce la faccio a muovermi di qui; sto rattrappita sotto la notte e la pancia dello scafo che mi hanno nascosta finora; non voglio uscire di qui, non voglio nemmeno guardare per paura del luccichìo dei miei occhi a una luce che non c’è.

    Vorrei sprofondare, ma più di così non posso.

    Thou little tiny child/

    Mi scopriranno, mi scopriranno quando verranno a prendere il cadavere di Selim, gli uni o gli altri. Non c’è altro posto dove nascondersi su questa spiaggia.

    Rumore di piedi che affondano e incespicano tra acqua e sabbia, altre urla, colpi alla barca che oscilla e mi schiaccia le dita della mano sinistra. Mi mordo le labbra per non gridare e, vicinissimi, altri rumori orribili di carne macellata e un gorgoglìo, poi resta solo un ansimare che rompe il respiro profondo del mare.

    Adesso tocca a me. Adesso vengono a prendermi.

    O sisters too/ How many we do

    Mi pento, mamma, scusa, non avrei dovuto farlo, non avrei dovuto, ma oggi ho fatto cadere un po’ di tè e il rais mi ha picchiata ancora.

    For preserve this day/ this poor youngling

    Picchiata ma viva, mamma, ora invece morirò e ho paura.

    Mi è sembrata l’occasione buona, sono scesi quasi tutti e la vedetta si è addormentata e la costa era così vicina! E io ho imparato a nuotare come un pesce.

    Li aspettavano.

    E adesso non so chi è rimasto vivo, ma chi è rimasto vivo ha una spada o una scimitarra e se mi conosce mi ucciderà e mi ucciderà se non mi conosce. Io, per ognuno di loro, sono una degli altri.

    By by lully lullay.

    Non si mosse.

    Non osò muoversi, per un tempo che le parve eterno.

    Quando il crampo le addentò un polpaccio non resistette e, digrignando i denti, allungò una gamba per provare un po’ di sollievo ed evitare di farsi sfuggire un lamento.

    I sensi acuiti dalla paura le facevano avvertire ancora una presenza mentre il cuore le batteva così forte nelle orecchie da farle temere che si potesse udire da lontano.

    La barca trasmetteva piccole vibrazioni, come ogni legno che confida al marinaio la danza delle onde e i capricci del vento, ma questa volta, a terra, a lei suggeriva di stare ancora in guardia perché, appoggiate al bordo di dritta, due sentinelle sorvegliavano il buio ferito dalle stelle.

    D’un tratto il fasciame fu scosso e molti piedi e poche torce si avvicinarono.

    Con un residuo improvviso di coraggio che non sapeva di avere, raccolse un sasso e lo scagliò più lontano possibile, verso il mare, oltre lo scafo. Per un istante ogni movimento cessò, poi gli uomini si allontanarono rapidamente verso il tonfo liquido.

    Lei strisciò, al riparo dell’imbarcazione, cercando l’acqua come una piccola tartaruga appena uscita dall’uovo.

    Nuotò sotto la superficie per quanto poté, immersa in un inchiostro che rendeva inutili gli occhi spalancati, mentre le orecchie avvertivano il rumore di qualcosa di pesante che strisciava sul bagnasciuga; risalì solo quanto bastava per respirare, temendo di sentire su di sé, da un momento all’altro, le mani dei suoi carnefici. Ma nessuno si era accorto di lei.

    La spiaggia sembrava deserta e la barca non c’era più.

    Un cigolio di scalmi e un lieve rumore di acqua smossa poco lontano. Immaginò, nella notte senza luna, ombre curve che scivolavano veloci sulla seta nera, verso la galea che era stata la sua casa nell’ultimo mese, dopo più di un anno in schiavitù sotto il sole di Algeri.

    Rimase a galleggiare nel mare tiepido per molti minuti, senza riuscire a prendere una decisione, senza riuscire a pensare.

    La riscosse un tocco leggero che le provocò un sussulto e le fece ingoiare un sorso di acqua salata. Si agitò, sputando in maniera convulsa per non soffocare. Riacquistata la padronanza di sé, capì che ciò che l’aveva sfiorata non avrebbe più potuto farle del male: era il corpo sventrato di Selim, su cui cominciavano già ad accanirsi piccoli pesci.

    Per uno strano caso, l’incontro, invece di aumentare l’orrore, le restituì lucidità. Era il momento buono per fuggire lontano dalla costa, da quel mare che aveva amato finché non le aveva portato sventura e prigionia.

    I diavoli saraceni erano un pericolo per chiunque abitasse i villaggi e le città costiere, ne aveva visti troppi dati alle fiamme. Aveva visto uomini, donne, bambini, fatti a pezzi o privati di qualsiasi dignità e ridotti a schiavi, trasportati, come lei, da un mare all’altro per essere più volte comprati e venduti come merce.

    Cinque giorni prima una tempesta aveva costretto il rais a liberarsi di parte del carico di carne viva. Per questo il comandante aveva deciso uno sbarco non previsto, per approvvigionarsi di prodotto fresco.

    Le tornò alla mente il ricordo di sua madre che, prima della brusca separazione, piangendo, le aveva affidato come ultimo dono la scatolina di legno piena di grasso con cui la ungeva ogni sera per proteggerla dalle lacerazioni che le avrebbe potuto infliggere qualsiasi padrone.

    Lei, invece, era stata fortunata, il rais l’aveva tenuta come serva e, a parte botte, calci e manrovesci, non le aveva mai fatto altre cose che forse sua madre aveva dovuto sopportare finché, regalata al capitano di un’altra nave, era scomparsa dalla vita della figlia.

    Del resto, le era capitato di vedere anche cristiani trasformati in diavoli quando incontravano gli infedeli; anche loro tagliavano teste, mozzavano nasi, impalavano e violentavano e affocavano nel nome di Dio.

    Doveva andare il più lontano possibile, lontano dal mare infido che adesso mormorava la canzone innocente della risacca.

    Si accostò nuovamente al cadavere e lo tastò. Sapeva che non avrebbe recuperato la scimitarra che, d’altra parte, non le sarebbe stata di alcuna utilità per il suo peso e la sua lunghezza. Finalmente, impigliato nella tunica leggera, trovò ciò che cercava: il coltello corto da cui Selim non si separava mai e che i suoi assassini, dopo averlo spogliato di tutto ciò che poteva avere un valore, non avevano scoperto.

    Si legò al collo il laccio di cuoio del fodero e prese a nuotare verso riva, tenendo la testa fuori dalla superficie per guardarsi intorno. Dopo poche bracciate, i suoi piedi incontrarono il fondo nel momento in cui un chiarore improvviso salì verso il cielo, al largo del lato di ponente della baia, spargendo sull’acqua i bagliori riflessi dell’agonia della nave che divorava anche il destino dei rematori, mentre al ruggito del fuoco e alle grida lontane rispondeva un coro, più vicino, di urla di giubilo che attraversava l’aria salmastra.

    La bimba riguadagnò velocemente la spiaggia, senza curarsi dei ciottoli che le martoriavano i piedi scalzi.

    Alla luce fioca dell’incendio, vide altre ombre assiepate a terra: gli abitanti del paese, vecchi, donne e bambini, che non avevano preso parte alla battaglia, usciti dai loro nascondigli, si ammucchiavano più vicino possibile al punto in cui le fiamme consumavano la galea saracena.

    Lei adesso stava sdraiata in una piccola depressione della spiaggia di levante, dalla parte opposta dell’insenatura, protetta dal buio anche se qualcuno avesse guardato nella sua direzione, ma nessuno l’avrebbe fatto: gli occhi di tutti erano irretiti dal fascino ipnotico dello spettacolo di morte e vittoria che il mare offriva loro quella notte; la bambina abbandonò la prudenza, si alzò e corse a perdifiato fino alla foce del piccolo fiume che risalì, un po’ nuotando controcorrente, un po’ camminando nell’acqua bassa, fino ad allontanarsi dalle povere case per nascondersi, a notte fonda, tra la vegetazione palustre dell’argine.

    Dopo ore di cori sguaiati e grida di terrore, i fuochi accesi vicino alle case si erano spenti a uno a uno e il silenzio era tornato padrone dell’aria.

    Per lei non si era spento, però, l’eco delle urla con cui qualche povera donna aveva concluso il percorso maligno della sorte che l’aveva condotta schiava. Pensò alla pelle d’ebano e al corpo statuario di quella che chiamavano Jala, ai grandi occhi tristi di Basma, e la sua mente si rifugiò ancora nell’immagine del viso dolce di sua madre. Lei non c’era, non era bruciata con la nave, non era stata sbranata da un branco di uomini ubriachi di sangue e di vino, lei era lontana ma viva; doveva esserlo.

    Si accorse di tremare; stava in acqua da molto tempo e la paura si combinava con il freddo. La mano ferita faceva male, adesso. Ancora una volta si fece coraggio e, afferrandosi alla vegetazione con la destra, risalì il piccolo argine.

    Si ritrovò su terra asciutta ed ebbe il desiderio di lasciarsi cadere e dormire fino alla fine dei suoi giorni, ma resistette e riprese a camminare verso monte, cercando di non perdere contatto con il corso d’acqua.

    Dopo pochi minuti incrociò un sentiero, tracciato dai piedi di generazioni di donne del paese che si recavano al fiume. Stava per attraversare uno spiazzo verde, ampio e quasi pianeggiante che digradava dolcemente verso un’ansa tranquilla, quando colse un rumore alla sua sinistra e, subito dopo, voci distanti, un chiarore e un pianto di donna.

    Tornò indietro più rapidamente che poté per nascondersi tra le canne. Mentre il cuore ricominciava a galopparle nel petto, alla luce delle torce che sbucarono dal tratturo, vide un gruppo di uomini che trascinavano una donna.

    Basma aveva la pelle così scura che sarebbe stato difficile scorgerla nel buio. Era il sudore luccicante del suo corpo nudo ed erano gli occhi spalancati, quasi volessero schizzare dalle orbite, a riflettere le fiamme e a definire i contorni, disegnando con precisione il suo orrore.

    Era stata catturata in una razzia, l’estate precedente. Da allora aveva condiviso la schiavitù delle altre prigioniere, una compagna gentile e taciturna che, di certo, non aveva scelto di legare il proprio destino a quello dei pirati saraceni. Ma era con loro, a bordo della nave, ed era una donna giovane e bella.

    Supplicava, in una lingua che i maschi non capivano o non volevano capire, mentre la tenevano inchiodata a terra e si avvicendavano, dimenando furiosamente i fianchi tra le sue gambe spalancate.

    Poi la girarono.

    Quando la voltarono di nuovo sulla schiena non si lamentava quasi più, finché un giovane, con una cicatrice sul viso, le strappò un urlo acuto risputandole in faccia il capezzolo che le aveva reciso con un morso. Tutti risero, mentre lei si abbandonava, esanime. Con un coltello, quello che sembrava il capo del gruppo, appuntì un ramo e, inginocchiato, lo avvicinò all’interno delle cosce divaricate della ragazza svenuta. Per un attimo la luce delle torce illuminò il suo viso sotto il berretto; un solo sopracciglio folto e scuro dava a quel volto la fissità irreale di una maschera.

    La bambina serrò gli occhi pieni di lacrime e si accorse di avere stretto le labbra tra i denti solo quando avvertì il sapore metallico del proprio sangue.

    Con un gesto deciso lo stupratore spinse in avanti il bastone e l’eco di un ultimo, altissimo grido, lacerò la notte.

    La bambina crollò priva di sensi, e rimase immobile nel piccolo canneto mentre il drappello di assassini le passava accanto senza accorgersi di lei, trascinando il cadavere straziato di Basma fino al fiume, affinché la leggera corrente lo consegnasse al mare, dove la vita e la morte si mescolano come l’acqua e il sale. Al suo risveglio, le prime luci dell’alba e il canto degli uccelli, per un attimo, la illusero di aver dissolto un incubo.

    Poi la sensazione di angoscia e il dolore sordo alla mano la riportarono alla realtà; non c’era più nulla di spaventoso nel silenzio del nuovo giorno ma, quando i suoi occhi furono del tutto aperti, la paura tornò ad assalirla, stringendole la gola.

    Provò a muovere piano le dita e una fitta immediata la colpì come il morso di un serpente. Tuttavia non gridò; come gli animali selvatici aveva imparato che perfino un piccolo rumore può generare una rovina letale.

    Si stropicciò gli occhi e si mise in ascolto: l’abbaiare lontano di un cane le rammentò, se ancora ne avesse avuto bisogno, che era troppo vicina al paese per considerarsi al sicuro e, d’istinto, si diresse con cautela verso l’acqua.

    Si accovacciò tra l’erba per svuotare la vescica e discese la piccola sponda per immergersi fino alla vita, si lavò la faccia, bevve e diede un po’ di sollievo alla mano ferita nella corrente fresca del fiume.

    Quando si sentì abbastanza rinfrancata tornò nel canneto e proseguì verso monte. Mano a mano che avanzava, in completa solitudine, si attenuava la sensazione di pericolo e le sue emozioni variavano come il volteggiare degli uccelli nel cielo.

    Aveva intorno una regione sconosciuta e selvatica. Gli alberi, il sottobosco, il volo irregolare degli insetti, gli sprazzi azzurri e nitidi tra i rami, da una parte la preoccupavano per la sua fragilità innanzi all’ignoto, dall’altra le davano un senso di eccitazione ed euforia di libertà.

    Oltrepassata la zona a ridosso della foce, aveva incontrato un grande ponte, forse l’ultima sentinella di pietra a presidio del mondo degli uomini; da lì la valle si inerpicava attraverso un bosco incantato, fitto di vegetazione, dove il rumore dei salti dell’acqua e del suo scorrere accompagnava lo stormire delle fronde, il ronzio degli insetti e il fruscio di piccoli animali.

    Avanzò finché il sole le parve vicino allo zenith.

    Dopo una svolta, si trovò sulla riva di una polla trasparente e ampia, in mezzo alla quale si ergeva una roccia facilmente raggiungibile. Decise di fermarsi lì a riposare e attraversò l’acqua bassa. Salì sul masso e si guardò intorno. La valle era stretta e fiancheggiata da monti che le sembravano altissimi, come gigantesche dune di velluto verde. Sotto di lei il fiume, visibile fino alla prima ansa, scorreva tranquillo verso la foce, mentre a monte, con una sequenza di pozze e cascatelle, si inoltrava nuovamente nel bosco.

    Dall’acqua saliva una piacevole frescura che temperava i raggi del sole contro lo scoglio.

    La bambina si sdraiò in una specie di nicchia ombrosa, invisibile dal basso, e restò a fissare il cielo, provando una sensazione che non sapeva descrivere, come un sapore nuovo che, invece della bocca, le riempiva l’anima; e mentre le lacrime riprendevano a scendere, non avrebbe saputo dire se le piaceva o no.

    * * *

    «Non mi piace un cazzo».

    Marotta aveva le sopracciglia aggrottate e la voce roca mentre sventolava il documento che impugnava nella destra.

    «Che cosa non ti piace, Marotto? La carta non è di tuo gradimento? O è la sintassi che lascia a desiderare?».

    L’ispettore capo Renzo Parodi lo fissò dall’altra parte della scrivania, con un leggero sorriso che gli stirava le labbra, mentre gli occhi suggerivano tutt’altra espressione.

    «Sì, sì, fai lo spiritoso, tanto hai già il colore dello stronzo, ma non mi freghi sai, negraccio, a te girano almeno tanto quanto a me».

    Dette da qualsiasi altro bianco a qualsiasi altro nero, sarebbero state offese sanguinose, ma quel bianco e quel nero si permettevano reciprocamente questo e altro.

    L’ispettore capo Renzo Parodi era un genovese, incidentalmente scuro di pelle, che parlava il dialetto dei camalli, salvato da morte certa sulle banchine di Lagos, a pochi giorni dalla nascita, da o sciô Riccardo, diventato, a tutti gli effetti, un genitore vero con la complicità di sua moglie Angela che, per amore di quell’affarino color cioccolato, aveva accettato perfino di recitare la parte della cornuta di fronte al mondo.

    Il sovrintendente Marotta, soprannominato ironicamente Marotto, che in Genovese significa malato, era un enorme siciliano dall’aspetto indistruttibile, trapiantato al nord, anche lui guardato spesso una seconda volta per le sue dimensioni, e l’amicizia nata tra i due era così solida che poteva superare perfino i colpi di maglio del loro più volgare sarcasmo.

    «A parte che il mio colore è di sicuro meglio del tuo bianchiccio da larva, quella è una disposizione del magistrato. Nel nostro lavoro, un ordine. Punto. Si va e si esegue».

    «Tu la sai tutta, la storia, vero? Questo lurido pezzo di merda picchia la moglie, da anni. Finalmente quella povera donna, dopo innumerevoli interventi del pronto soccorso per aggiustare lesioni più o meno gravi da caduta accidentale, trova il coraggio di denunciarlo, forse perché è ridotta ormai alla disperazione. Prendiamo e impacchettiamo il vigliaccone, che naturalmente piagnucola, ovviamente promette, come di consueto si pente, e pronuncia la solita dichiarazione di guerra: Io la amo troppo, non posso vivere senza di lei. Curiosamente, quando quel genere di carogna teme di non poter vivere senza di lei, spesso la ammazza, per mettersi alla prova. Così il fitusu si fa qualche giorno di carcere, poi il giudice dispone i domiciliari, e già fin qui ce ne sarebbe abbastanza per farsi scoppiare il fegato, ma non basta, perché i domiciliari li dispone al suo domicilio, che è anche quello della sua vittima. La moglie, giustamente, ha cambiato le serrature e non vuole farlo entrare. E noi, per far rispettare la legge, dobbiamo obbligare la pecora ad aprire la porta al lupo».

    Il foglio, lanciato da Marotta, infischiandosene brevemente della forza di gravità, si impennò per poi planare dolcemente sul pavimento.

    «Accetto scommesse sulla data del prossimo femminicidio e mi chiedo se così non ne diventiamo complici».

    La traccia forzata di sorriso sparì del tutto dalla faccia di Renzo Parodi, che serrò le palpebre e si strinse per un momento la radice del naso tra indice e pollice, prima di prendere fiato e parlare: «Hai ragione, Tore. Su tutto. Ci ho pensato parecchio ma non so come venirne fuori. Ho perfino considerato l’idea di fare avere di nascosto a quella povera donna una pistola con la matricola abrasa ma il rischio è di metterla nei guai ancora di più, senza contare che un’arma in quella casa potrebbe essere più facilmente adoperata da un uomo violento che da una donna indifesa. Per come la vedo io, a medio termine, c’è solo da sperare che il provvedimento del giudice venga revocato e, nel frattempo, attuare un servizio di sorveglianza».

    «Cosa intendi dire con a medio termine?».

    «Che, per la soluzione provvisoria a breve termine, ci darà una mano don Erminio. Per qualche notte la signora potrà dormire in un posto sicuro».

    «Bene. Ma questo non risolve del tutto la questione, quella donna ha un lavoro e il vigliacco sa dove trovarla, sono situazioni che conosciamo, e la sorveglianza non è prevista dal provvedimento».

    «No. Ma potremmo prevederla noi».

    «Fanculo. Notti in bianco».

    «Forse. Ma pensa se lo becchi sul fatto».

    I lineamenti di Marotta si distesero in un ampio sorriso: «Minchia! Un lupo senza denti non spaventerebbe più nessuno».

    «Lascia stare il lupo, che è una brava bestia. Questo, purtroppo, è un maschio adulto di specie umana; dal punto di vista della violenza consapevole, potenzialmente, il peggio del peggio».

    Marotta sospirò: «Perché siamo così bastardi?».

    Renzo gli scoccò un’occhiata significativa. «A parte i presenti? Io un’idea me la sarei anche fatta, credo si relazioni con gli orsi preistorici, le tigri dai denti a sciabola e la protezione della specie. Quelli erano tempi in cui i maschi selezionati avevano i muscoli ipertrofici e li usavano per imporsi o difendersi da una natura parecchio incazzata, e le femmine, forse sottomesse quando la scala di valori era soprattutto fisica, servivano per la riproduzione e il sostentamento dei nuclei famigliari».

    «Cosa è, il riassunto dell’ultima puntata di Quark? Ho capito, ma siamo andati un po’ avanti, da allora».

    «Le donne, di sicuro. Sono meno remissive perché i parametri sono cambiati e le tigri dai denti a sciabola estinte, quindi i muscoli contano meno. I maschi, invece, già a disagio per il terreno perduto, conservano il retaggio dei bei tempi andati che non sempre viene disciplinato dal progresso, specie quando la partita si gioca più sull’intelligenza che con i bicipiti. Basta guardarti».

    «Cosa vorresti insinuare? Sarebbe la prima volta che, tra un bianco e un nero, il troglodita è il bianco».

    «Sai come si dice, Tore: c’è sempre una prima volta e, comunque, la mia razza è più antica e quindi più avanzata nell’evoluzione».

    «Le uniche evoluzioni che ti ho visto fare sono quelle dialettiche, quando tenti di essere brillante e sfiati aria fritta».

    «Dialettiche! Belìn, Marotto, sei arrivato alla D sul vocabolario! Sono colpito».

    «Continua così e lo sarai davvero. Chi comincia, stasera?».

    «Comincio io. Tu magari vedi se riesci a reclutare qualche altro volontario mentre preparo le carte, poi andiamo a farci aprire quella maledetta porta».

    Marotta raccolse il foglio da terra e lo pose sulla scrivania dell’amico, poi girò i tacchi e uscì dalla stanza.

    Renzo era sicuro che almeno un altro paio di poliziotti avrebbero aderito alla proposta e Bianca e Antonietta, le due agenti in forza al commissariato, non l’avrebbero più guardato in faccia se non le avesse coinvolte, anche se avrebbero dovuto destreggiarsi tra gli impegni famigliari molto più dei colleghi maschi.

    Certo, le risorse del commissariato erano scarse, come dappertutto, ma il commissario Elpidio Trevisan, detto Marlowe a sua ufficiale insaputa, non avrebbe messo bastoni tra le ruote se fosse venuto a conoscenza del loro periodo di volontariato.

    Il problema era quanto sarebbe durato questo volontariato, ma l’ispettore capo era ottimista; sperava nella revisione dell’assurdo provvedimento e, in ogni caso, la sua esperienza lo portava a ritenere che, se lui e i suoi colleghi avessero tenuto occhi e orecchie bene aperti, non sarebbe stato difficile procurarsi elementi sufficienti per aggravare la posizione dell’indagato.

    Se poi i tempi si fossero prolungati, avrebbero facilmente trovato altre persone disponibili a spendere un po’ del loro per una giusta causa; con la divisa, o magari anche senza.

    Adesso però, la difficoltà più grossa era affrontare la vittima, metterla al corrente del piano, e convincerla che non c’erano alternative, per il momento, all’accoglienza forzata.

    Renzo decise che sarebbero andati in tre. Bianca avrebbe tranquillizzato la signora e Marotta, aiutato dall’aspetto fisico, non avrebbe mancato di funzionare da memento mori per la carogna.

    Dopo averci riflettuto un momento, tuttavia, cambiò idea. Voleva parlare lui con la donna e spiegarle con calma la loro intenzione di proteggerla; non avrebbe potuto fare nulla se non collaborava. Concluse, allora, che sarebbe stato meglio mandare Marotta, insieme a un agente, a rilevare in carcere il picchiatore di donne, mentre lui e Bianca avrebbero preparato il terreno a casa della signora.

    Alzò la cornetta e digitò un numero sulla tastiera.

    Claudia Nava era carina, nonostante il livido che le anneriva lo zigomo destro e il labbro superiore gonfio. L’ispettore capo, che aveva letto i referti, sapeva però che erano le parti coperte del suo corpo a portare tracce molto più vistose.

    Aveva capelli castani e lisci che incorniciavano un viso fresco e poco truccato e un fisico slanciato contenuto nei jeans e in una felpa rossa.

    Non dimostrava più di trent’anni.

    Renzo pensò che era un miracolo che la sua bellezza fosse sopravvissuta, altre donne erano state meno fortunate; ma, subito dopo, si dette dell’imbecille per aver associato la condizione di quella donna a una qualche forma di fortuna.

    Lei si mosse con circospezione lungo il breve corridoio che separava l’ingresso dalla piccola sala e si sedette sul divano, discosta dall’avvocato Massa, portando, con una smorfia, una mano sotto il seno, lì dove avvertiva più forte il dolore delle costole incrinate.

    Durante le presentazioni i suoi occhi nocciola, grandi e profondi, si mossero rapidamente, quasi a controllare ogni possibile recesso, prima di fermarsi a fissare quelli di Renzo con l’intensità terrorizzata di una gazzella che ha fiutato il leone.

    «Intanto, grazie per la sua disponibilità», esordì il poliziotto.

    «No - lo interruppe subito Claudia Nava con una voce sommessa ma decisa -, non sono affatto disposta a far entrare Antonio in casa, quello mi vuole ammazzare, me l’ha giurato. Il mio avvocato dice che ci appelleremo contro il giudice».

    L’avvocato dimostrò buon senso; sapeva bene che una soluzione di forza contro il provvedimento non era praticabile, così intervenne: «Sì, signora, senz’altro, ma sentiamo che cosa ha da dirci l’ispettore capo».

    Renzo fece un cenno con la testa all’avvocato e riprese: «Mi scusi, ho cominciato male. Mi riferivo alla sua disponibilità a riceverci. Temo, tuttavia, che nell’immediato non ci sia modo di contrastare l’assegnazione dei domiciliari a suo marito. Il suo legale potrà confermarglielo. Ma a noi quello che preme è la sua sicurezza. La mia proposta è molto semplice: lei aprirà la porta ai miei colleghi che riporteranno qui l’indagato, avrà però le valigie pronte e, subito dopo, l’accompagneremo in un posto sicuro per il tempo necessario a risolvere la questione».

    «Da dove viene questa soluzione? Dal tribunale? Dalla questura? Chi se ne assume la responsabilità?», chiese l’avvocato Massa.

    Renzo sospirò e lo guardò in faccia; era giovane, probabilmente di parcella bassa, e forse conservava ideali non ancora putrefatti dall’abuso di carriera. Era il caso di metterlo al corrente? D’altra parte qualsiasi alternativa sarebbe stata molto complicata.

    «Vorrei parlarle da solo, avvocato; ci concede un minuto, signora?».

    «Vado in cucina», disse la donna, accennando goffamente ad alzarsi.

    «Non ci pensi nemmeno - la bloccò Renzo -, andiamo noi».

    Si chiusero la porta alle spalle e rimasero in piedi, tra le lucide piastrelle color crema. Non c’era molto da dirsi.

    «Avvocato Massa, non ci girerò intorno e spero di non sbagliare a fidarmi di lei, comunque sappia che se me lo chiedessero negherò di averle detto ciò che sto per dirle e di aver fatto ciò che sto per proporle. Non c’è nessun tribunale e nessuna questura dietro la mia offerta, ma alcuni amici disposti a dare una mano alla sua assistita, uno di questi è un prete, che si occuperà dell’alloggio o degli alloggi, se la permanenza fuori casa si dovesse protrarre, poi ci sono alcuni colleghi favorevoli agli straordinari fuori servizio».

    «Quindi lei si fida di me e io dovrei fidarmi di lei quando mi dice che proteggerete la signora».

    «Esatto».

    «Sarebbe un rimedio alla giustizia ingiusta, lasciato alla libera iniziativa».

    «Diciamo così».

    «Però qualche rischio c’è, soprattutto se nessuno sa niente di chi fa cosa».

    «Vede una soluzione migliore, a portata di mano? Perché se la vede me la dice e mi evita un sacco di problemi».

    «La soluzione sarebbe una legge che funziona, una legge che dà alle donne perseguitate anche il supporto di strutture che permettano loro di cambiare casa, vita, lavoro; se necessario, città, perfino continente, una legge che non costringa le vittime a convivere con i loro carnefici, a incontrare per strada i loro stupratori, una legge che faccia piazza pulita dei complessi di colpa, indennizzi le vittime e tenga i delinquenti in galera».

    «Bella arringa, avvocato, ma il delinquente sarà qui tra mezz’ora al massimo, intanto che aspettiamo questa legge, che facciamo?».

    Massa arrossì un poco. «Ha ragione, mi scusi». Esitò un momento, cercando di valutare le implicazioni di ciò che aveva appena ascoltato. «Tutto sommato, la sua offerta mi pare il meglio che si possa avere, nella situazione data, e per questo la ringrazio. Le chiedo solo di tenermi al corrente, per quanto possibile, di eventuali sviluppi».

    «Certo, avvocato. Sulla pianificazione privata della protezione della signora Nava, le sarei grato se mantenesse un opportuno riserbo, soprattutto con lei; in ogni modo la sua cliente sarà libera di telefonarle quando vorrà».

    Renzo prese il biglietto da visita di Massa e gli mandò un sms con il proprio numero di cellulare, poi tutti e due tornarono nella sala. Trovarono Bianca seduta sul divano accanto a Claudia e colsero le sue ultime parole, pronunciate in tono tranquillo: «Hai fatto la cosa giusta».

    Renzo chiese alla collega di spiegare alla padrona di casa ciò che lui aveva già illustrato al suo legale. I poliziotti avevano concordato in precedenza che, per il momento, non fosse il caso di rivelarle il carattere ufficioso dell’operazione.

    Fu meno complicato del previsto. Presa la decisione più difficile, quella di denunciare un marito violento, Claudia era già entrata nell’ordine di idee di abbandonare quella parte della sua vita e quindi, nonostante lo shock provocato dal precipitare degli eventi, aveva accantonato le sue certezze (salvo la convinzione che quell’individuo che diceva di amarla e la riempiva di botte non sarebbe cambiato) per prepararsi al salto nel buio.

    Non le costava più di tanto, quindi, abbandonare da un momento all’altro quella casa, dove pure aveva vissuto periodi felici, senza sapere cosa le riservasse il futuro.

    «Per il suo lavoro, non si deve preoccupare - intervenne Renzo alla fine -, parleremo noi con i responsabili dell’azienda e credo che ci ascolteranno».

    La donna accennò un sorriso, era poca cosa ma aveva un grande significato, mostrava la sua forza e la percezione di non essere più sola. I quarantacinque minuti successivi, Claudia, aiutata da Bianca, li trascorse a preparare le sue cose, mentre l’avvocato Massa confidava a Renzo il suo ottimismo circa la possibilità che i domiciliari venissero revocati, dato che la situazione era chiaramente penalizzante nei confronti della sua cliente che, da vittima, invece di essere tutelata, veniva di fatto punita dal provvedimento del giudice. Ma i tempi non sarebbero stati tanto brevi quanto richiedeva l’incolumità psicofisica di Claudia Nava.

    Quando suonò il campanello, erano tutti pronti.

    Andò ad aprire l’avvocato Massa. Nel vano della porta apparve la figura alta e possente di Marotta e, dietro, la faccia da bravo ragazzo di Antonio, detto Tony, Cabella, il persecutore di Claudia, seguito dall’agente Canepa.

    Quando entrò il marito, Claudia distolse istintivamente gli occhi, incrociando quelli di Bianca che forse le trasmisero coraggio perché la donna girò nuovamente la testa e fissò il proprio sguardo in quello dell’uomo, che abbassò il suo.

    Marotta ruppe il silenzio, esibendo alcuni fogli: «Signora Nava, le consegno il provvedimento che obbliga suo marito a risiedere in questa casa».

    «Dia pure a me - disse l’avvocato Massa -. Signora, dovrebbe firmare per presa visione. Non significa in alcun modo che condividiamo la decisione del giudice».

    Claudia Nava firmò in fretta poi disse, con voce piatta: «Se abbiamo finito, io vado».

    «Certo, signora

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