Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La ragazza dai guanti bianchi
La ragazza dai guanti bianchi
La ragazza dai guanti bianchi
E-book482 pagine7 ore

La ragazza dai guanti bianchi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Affascinante e irresistibile.» Trisha Ashley

Dall' autrice del bestseller La strada in fondo al mare

1666. In una casa di campagna nel piccolo paese di Windebank, nello Yorkshire, sta nascendo una bambina. Il padre, in punto di morte, fa appena in tempo a darle un nome pieno di speranza, Rejoice. La piccola Joy cresce assistendo alle terribili persecuzioni religiose ai danni della comunità di campagna, finché, per sfuggire a quella violenza, non decide di imbarcarsi insieme a un gruppo di pionieri verso il Nuovo Mondo. Joy diventa una donna forte e appassionata, che combatte ogni ingiustizia con estrema determinazione. Quello che le manca è la serenità. E, soprattutto, l’amore. 
2014. Nascosto tra le mura della antica casa di Good Hope, in Pennsylvania, viene ritrovato un libro rilegato in pelle. Alcuni indizi lo collegano a una fattoria nelle valli dello Yorkshire. Ed è così che ha inizio una fitta corrispondenza tra Rachel Moorside e l’uomo che ha trovato il diario, Sam Storer. Rachel non sa ancora che scavare nel passato riporterà alla luce alcuni antichi segreti della sua famiglia...

Le vite di due donne, separate da secoli di storia, si intrecciano grazie a un diario perduto e ritrovato

«Leah Fleming è una maestra del racconto.»
Lancashire Evening Post

«Una storia commovente e intensa su un viaggio per ritrovare se stessi.»
Rachel Hore

«Un grandioso inizio e un finale ancora più straordinario.»
Historical Novel Society
Leah FlemingÈ nata in Inghilterra. Si dedica a tempo pieno alla scrittura e ha all’attivo sei romanzi. La Newton Compton ha pubblicato La strada in fondo al mare, che ha vinto il Premio Roma 2012 ed è stato per mesi ai vertici delle classifiche italiane, La mappa segreta dell’amore e L'ultima perla.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2018
ISBN9788822728708
La ragazza dai guanti bianchi

Correlato a La ragazza dai guanti bianchi

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La ragazza dai guanti bianchi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La ragazza dai guanti bianchi - Leah Fleming

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Cittadina di Good Hope, Pennsylvania

    Yorkshire

    1

    2

    3

    4

    5

    Good Hope

    6

    7

    8

    9

    10

    Good Hope

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    Gennaio 2015

    19

    20

    21

    22

    23

    24

    25

    26

    27

    28

    29

    30

    31

    32

    33

    34

    35

    36

    Aprile 2015

    37

    38

    39

    40

    41

    42

    Good Hope

    Ringraziamenti

    en

    2156

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: The Glovemaker’s Daughter

    Copyright © Leah Fleming, 2017

    The right of Leah Fleming to be identified as author of this work has been asserted in accordance with sections 77 and 78 of the Copyright, Designs and Patents Act, 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dall'inglese di Serena Stagi

    Prima edizione ebook: febbraio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2870-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Leah Fleming

    La ragazza dai guanti bianchi

    omino

    Newton Compton editori

    Lettore, che tu sia giovane o vecchio. Non credere sia troppo presto o troppo tardi per sfogliare le pagine della tua vita passata. E assicurati di meditare su ogni suo passo che riuscirà a toccarti…

    William Penn

    Prefazione a Some Fruits of Solitude, 1718

    Cittadina di Good Hope, Pennsylvania

    2014

    All’inizio pensò fosse uno scherzo della luce. Era fin troppo presto per trovarsi sul posto, ma in quegli ultimi mesi, da quando era andato in pensione, faceva fatica a dormire. Così, lasciato il furgone in fondo alla strada per prendere un po’ d’aria, Sam Storer aveva raggiunto la vecchia cappella. Fu allora che scorse l’indistinto profilo di qualcuno in un lungo mantello, che si condensò in una donna con indosso una di quelle cuffie amish, ferma a fissare le mura della cappella tenendo stretto al petto un libro o un registro.

    La richiamò pensando fosse una dei volontari del museo di storia e tradizioni locali che si divertivano a indossare i costumi coloniali, venuta a ispezionare il restauro di uno degli edifici più antichi della cittadina. Sbatté di nuovo le palpebre e la donna svanì.

    Che diavolo era successo? L’istinto gli suggerì di girare i tacchi e tornare sui suoi passi. Sentì i peli del collo rizzarsi, i tonfi del cuore. L’aveva sognata? Cosa in questo antico luogo l’aveva spinta a starsene lì in piedi, come di guardia? Era un volto né vecchio, né giovane, soltanto sfinito, e con occhi tremendamente ardenti. Era forse stato testimone di un bizzarro squarcio temporale su un’altra epoca?

    Una cosa era certa: non l’avrebbe detto a nessuno o sarebbero arrivati acchiappafantasmi e svitati, col rischio di rallentare i lavori in corso. C’erano già stati abbastanza dibattiti su questo restauro, nessuno voleva che quel vecchio posto venisse compromesso. Non era la casa del silenzio originale, ma risaliva ad almeno trecento anni prima. La documentazione era sufficientemente accurata e si era reso necessario un ampliamento per accogliere la comunità in crescita. La squadra di volontari era sotto la sua supervisione, essendo una sorta di esperto sugli albori dell’architettura coloniale. Ogni pietra doveva essere numerata, rimossa e poi attentamente riposizionata per conservare l’autenticità dell’edificio. Sarebbe stata una tediosa fatica d’amore.

    Sam sorrise, pensando se solo queste mura potessero parlare: tutti quegli anni di adunanze silenziose, incontri trimestrali e preparatori, lacrimose confessioni, matrimoni lieti e tristi commiati.

    Nella tarda mattinata fecero una scoperta che avrebbe cambiato l’intera natura degli interventi.

    «Capo! Venga a dare un’occhiata», lo richiamò Dean, un volontario, indicando qualcosa che teneva in mano, avvolto in quella che aveva l’aria di essere tela cerata. «Era nascosto nel muro, infilato tra queste pietre».

    Si avvicinarono tutti per esaminarne la superficie esterna ricoperta di sassolini. Sam capì che era antico e lo sollevò delicatamente sulla panca. Intorno al panno c’era un laccio di cuoio, ma bastò un tocco e si ruppe mentre scartava l’involto, rivelando un libro rilegato in pelle e ingiallito dal tempo. Gli tremavano le dita per paura che gli si sfaldasse tra le mani.

    «Questo andrà messo al sicuro», disse.

    «Non diamo un’occhiata a cosa c’è dentro?»

    «No, meglio lasciare che se ne occupi un esperto. Credo sia antico quanto l’edificio».

    «Come fa a saperlo?».

    Sam scrollò le spalle. «Chiunque fosse voleva conservarlo per il futuro. Perché scomodarsi tanto per custodirlo nella parete?»

    «Potrebbe essere una mappa del tesoro o una capsula del tempo», ipotizzò Dean.

    «Non in una chiesa quacchera, non era cosa da loro. Si tratta probabilmente di un libro contabile. Dovrà andare al museo».

    «Immagino di sì». Dean tornò a ciò che stava facendo. «Chissà chi ce l’ha messo?»

    «Chissà», rispose Sam, sentendosi protettivo nei confronti della loro scoperta. Non era il momento di confessare che l’aveva già visto una volta quella mattina, stretto tra le braccia di un fantasma con cuffia e mantello.

    Yorkshire

    2014

    La lettera che le era stata inoltrata era intrigante. Rachel Moorside sollevò la busta esterna, incuriosita dal perché il museo locale gliel’avesse reindirizzata. Chi conosceva in Pennsylvania?

    A chi di competenza:

    Dall’Associazione storica di Good Hope.

    Nel corso del recente restauro della casa del silenzio degli Amici di Good Hope, è stato rinvenuto all’interno delle pareti un documento ben conservato e risalente al 1725. È firmato da una certa rmt e la prima parte del resoconto è ambientata nel West Riding dello Yorkshire, nei pressi del villaggio di Windebank.

    È per noi un eccezionale spaccato dei primi insediamenti coloniali, ma potrebbe rivelarsi importante anche per risalire alle famiglie giunte qui dall’Inghilterra per sfuggire alla persecuzione. Apprezzeremmo moltissimo qualsiasi informazione aggiuntiva sui Moorside di Scarperton e sul loro legame con i quaccheri. Se ci sono membri di questa famiglia ancora in vita, forse potrebbero essere tanto gentili da gettare luce su questa persona per poter approfondire la sua storia. Allego una copia del diario perché possiate esaminarlo.

    Non vediamo l’ora di ricevere vostre notizie.

    Vostro,

    Dr. Samuel Storer

    Rachel si riappoggiò allo schienale, scuotendo la testa. Chi era questa Moorside e come poteva essere imparentata con lei? Era un cognome abbastanza comune. Per quel che ne sapeva nella sua famiglia non c’erano quaccheri, erano tutti anglicani fino al midollo. Non era neanche sicura di dove si trovasse Windebank, forse da qualche parte più su nella valle.

    Non aveva avuto il tempo per immergersi nella storia di famiglia, essendo single, con un’attività da mandare avanti e non avendo alcun parente stretto con cui condividere eventuali scoperte. Quel ramo della famiglia finiva con lei, ma adesso, neo-pensionata, doveva ammettere di essere curiosa di scoprire se si trattava davvero di un’antenata.

    I suoi genitori erano morti e il cugino di suo padre si trovava da qualche parte nei pressi di York. Non erano mai stati una famiglia affiatata, preferendo spedire gli auguri a Natale e presentarsi ai funerali. Ma non c’era niente di meglio di un pizzico d’intrigante mistero per rischiarare una monotona giornata dello Yorkshire. Aprì il pacchetto e iniziò a leggere.

    Resoconto del mio viaggio dallo Yorkshire alla provincia della Pennsylvania.

    Queste sono le mie fedeli parole.

    rmt

    Nell’anno di nostro Signore

    1725.

    1

    Mi piace pensare che il mio viaggio in questo mondo abbia avuto inizio alle prime luci del quinto mese dell’anno di nostro Signore 1666. Dal mare alla brughiera alla città, il sole del primo mattino inondò le torri della cattedrale di York con un tocco scarlatto, commisto al fumo che si innalzava da case e tuguri in una nebbia violacea. Le alte mura della città, riscaldate da settimane di afa, assorbirono altro calore come braci e le mura di pietra delle prigioni del castello di York sbadigliarono all’assalto di un nuovo giorno.

    Non ci fu alcuna fanfara quando i cancelli della prigione furono aperti e i miei genitori ne uscirono incespicando sull’acciottolato: gli occhi non più abituati alla luce, fuori con l’aria tagliente del primo mattino in narici avvezze alla paglia sporca impregnata del fetore degli escrementi umani.

    Le gallette d’avena e gli aiuti spinti attraverso le inferriate avevano allontanato la fame dalle loro ossa, ma niente di più. Mia madre rabbrividì, sapendo che c’erano ben sessanta miglia da percorrere se intendevano raggiungere Windebank prima della mia nascita.

    Come ero riuscita a sopravvivere a tali stenti, agitandomi e contorcendomi nel suo grembo, privandola di prezioso riposo? Forse nei suoi sogni era stata rilasciata da quelle pareti per vagabondare in libertà sulle brughiere circostanti la fattoria di Windebank. Magari i suoi sogni l’avevano riempita di gioia e speranza, come hanno fatto con me in molte occasioni simili.

    «Alzo gli occhi verso i monti», sospirò. Dopo sei mesi di reclusione, sessanta miglia non erano altro che pochi passi col Suo aiuto, non importava quanto fosse impervio il terreno.

    «Saluti, sorella», disse una vecchia dalla schiena curva come un arco, che le mise tra le mani un involto di pane e formaggio. «Che il Signore ti dia la forza per la strada che ti aspetta».

    Mio padre sorrise quando gli fu offerto un robusto bastone da passeggio da uno sconosciuto dall’alto cappello, uno degli Amici di York che si prendevano la briga di aspettare ogni mattina in caso uno dei loro venisse rilasciato.

    «Prendi questi stivali perché guidino i tuoi passi sulla retta via», disse un altro, abbassando uno sguardo impietosito sui piedi scalzi di mio padre, anneriti da croste e piaghe.

    «Là dentro ci sono calzini per tutti e due. Infila i piedi nell’abbeveratoio dei cavalli e asciugali con questa pezza. A forza di camminare a piedi scalzi, le piante ti si saranno indurite. Sono un calzolaio, ne ho viste di peggio», offrì un altro sconosciuto.

    «Come possiamo ripagarvi?», disse mia madre, sbattendo le palpebre nella luce.

    «Abbiate fede e forse un giorno toccherà a voi prendervi cura di noi in questo posto. Passate la prima notte in un fienile nei campi, lontano dalla strada e dalla città, o vi scambieranno per mendicanti e gira-palude e vi riporteranno dai conestabili. Quegli altri hanno un sacco di trucchetti per prenderci in castagna».

    «Gli Amici vicino Grassington vi aiuteranno. Prendete il mio mantello», disse la vecchia. «Sulle cime quello straccio non ti basterà per più di cinque miglia. Sarà anche estate, ma c’è aria di pioggia. L’alba è stata fin troppo sgargiante».

    Si affrettarono ad abbandonare quelle crudeli e anguste strade, evitando gli escrementi mattutini gettati nei canali di scolo dalle alte finestre e verso i viottoli di pietra che zigzagavano per la città, dando le spalle alle imponenti torri della cattedrale, oltre il ponte sul fiume e verso ovest, col sole che sorgeva dietro di loro.

    Quanto doveva essere stata diversa quella prima marcia forzata verso York, d’inverno e per sentieri innevati, la punizione per essersi sposati secondo coscienza e non in chiesa, sotto la guida di un prete. Con quanta paura doveva aver tremato mia madre al pensiero della prigione del castello di York che li attendeva. Mio nonno, il giudice Elliot Moorside, non si era sottratto al proprio dovere quando il suo unico figlio si era presentato al cospetto del magistrato locale. L’aveva supplicato di ragionare, di non sposare un’umile guantaia di condizione sociale inferiore alla sua. «Ci disonori con la tua disobbedienza. Di certo agli occhi del Signore un luogo vale l’altro, no?», aveva obiettato.

    «No, non nella nostra luce. Non approviamo promesse e cerimonie. Scegliamo di presentarci ai nostri pari, aspettando la volontà del Signore per entrambi, e non di pagare un qualche mercenario perché blateri su di noi le sue vacue dottrine», aveva risposto mio padre, ancora pieno di zelo per la sua nuova vocazione.

    «Non ti capisco. Non ti ho forse dato tutto: istruzione, abiti raffinati e il meglio della società? E adesso mi rinfacci ogni cosa?». Il magistrato aveva scosso disperatamente il capo. Come poteva un uomo non persuaso della verità comprendere perché suo figlio dovesse abbandonare gli studi di teologia per seguire George Fox e il suo movimento di cercatori?

    «Ti sono sinceramente riconoscente per tutte le tue premure, signore, ma adesso devo pensare per me stesso e scegliere un’altra strada. Sii contento che io abbia trovato la via della rettitudine e una compagna che camminerà al mio fianco. Nella sofferenza e nella testimonianza risiede la nostra gioia celestiale». Con queste parole, padre e figlio furono separati per sempre.

    Ma la sozzura della paglia fetida, la polvere e gli stenti degli ultimi mesi non erano stati poi tanto celestiali; nonostante il caldo rovente all’esterno, il freddo di dentro colpì mio padre al petto, provocandogli brividi di febbre. Mia madre sperava che l’aria aperta avrebbe finalmente purificato quella sua tosse atroce.

    Il padre che ho immaginato era un uomo alto, adesso ingobbito dalla reclusione sotto a un tetto a malapena sufficiente a contenerne la statura. Presto si sarebbe avviato di gran carriera per valli e colline, stiracchiandosi nuovamente in salute e vigore.

    Quest’uomo aveva attraversato il paese per la sua vocazione, era stato picchiato e offeso, malmenato e umiliato, ma mai domato. La prigione, come so fin troppo bene, non è per i deboli di cuore.

    I miei genitori si erano conosciuti alla casa del silenzio di Windebank: mia madre vi aveva fatto ritorno dopo il suo apprendistato presso un guantaio di Scarperton, ardente di zelo per aver udito le parole del nuovo predicatore. Proprio in quel momento Matthew Moorside era in piedi in un raggio di sole, come se le fosse stato indicato. I loro sguardi si erano incrociati da un capo all’altro della stanza e lei aveva compreso che in questa vita il suo posto sarebbe stato per sempre al suo fianco. Nel vederla nella sua congregazione, anche lui era stato folgorato dallo stesso fulmine. Il Signore aveva fatto un’ottima scelta per entrambi. È così che dovrebbe essere tra i cercatori.

    Mio zio Roger aveva riso nel vederli e li definì sempre una coppia di tortore. Era nel suo granaio che si erano sposati ed era nella sua fattoria che speravano nascesse il loro bambino. Sarebbe stato piacevole riposare un poco e raccogliere le forze prima che il Signore li richiamasse alla missione successiva. Se solo la schiena non le avesse fatto tanto male e la testa non fosse stata tutta uno svolazzare di piume.

    Durante quel viaggio verso casa, ebbero il loro primo colpo di fortuna quando un carrettiere di lana acconsentì a lasciarli sedere sul retro del suo carico, tra velli morbidi e unti e il profumo della tosatura fresca, sull’elevato crinale del sentiero per Skipton. Li lasciò a un crocicchio, non distante dalla curva settentrionale dove si dissetarono nel cortile sul retro di una locanda e trovarono un altro passaggio verso nord. Era davvero opera del Signore, che risparmiava loro le gambe per il terreno più impervio.

    «Sta per piovere», li aveva avvertiti il carrettiere, ma il cielo era azzurro e le allodole gioiose nell’aria. Sederono per divorare il pane e il formaggio ricevuti dagli sconosciuti per il loro sostentamento. Poi il caldo li sopraffece e trovarono un po’ di ombra in un boschetto di basse querce per cercare riparo e stringersi l’un l’altra, soli per la prima volta dopo tanti mesi.

    «Continueremo a camminare finché non mi dirai altrimenti», bisbigliò Matthew. «Il tuo carico è prezioso e le colline elevate. Un giorno in più non farà differenza, non dopo così tanto tempo». Lei guardò nei suoi occhi azzurri e vi trovò la forza.

    «Ti amo», fece segno con la bocca.

    «E io te, Alice». La baciò sulle labbra riarse e spaccate. Fu allora che sferrai un calcio e li separai con un sobbalzo.

    «L’ho sentito anche io», rise lui. «Chi sarà mai il combinaguai che disturba la nostra pace?»

    «Un tesoro, non un combinaguai, un conforto e una consolazione, non un tormento, Matthew. Il Signore l’ha protetto per la Sua gloria, di questo sono certa, per spingere gli altri fuor di ogni dubbio e verso la certezza della Sua verità. È tempo di rimetterci in viaggio finché c’è ancora luce», aggiunse mia madre, sempre pragmatica.

    Imboccammo il sentiero dei mandriani, con le pecore che fuggivano in ogni direzione a quei passi estranei sulle cime dimenticate da Dio della brughiera, tetre persino in piena estate. I chiurli gridarono i loro lamenti, mentre le prime gocce di pioggia cominciavano a cadere. In quell’acquazzone fu come essere lavati da tutta la polvere e la sporcizia, il fango e la sozzura di York. Alice alzò il viso verso lo scroscio con sollievo.

    Nessuno, se non le pecore allarmate, li guardò mentre si spogliavano dei vestiti laceri e lasciavano che la pioggia impregnasse le sottovesti e lavasse i capelli infestati dai pidocchi. Dopo altre tre miglia di cammino, individuarono un deposito di foraggio e vi entrarono di soppiatto per asciugarsi i vestiti e accoccolarsi nell’aria asciutta e polverosa, sfiancati ma contenti di aver ricevuto in dono quel primo giorno di libertà. Avevano il resto della vita da godersi servendo fianco a fianco. Nessuno li avrebbe biasimati per un giorno di riposo, ma io stavo già negoziando per la mia libertà.

    Mia madre si svegliò presto, cercando di mettersi comoda. Aveva un dolore lancinante alla schiena che non sembrava volersi placare. Si sentiva a un tempo affamata e nauseata, ansiosa di rimettersi in marcia. Fuori pioveva a dirotto, pioggia intensa e temporalesca, e le nuvole ne promettevano ancora.

    «Dobbiamo muoverci, voglio essere a Windebank prima del calar della notte», tirò la manica di mio padre, che però si girò su un fianco.

    «Che fretta c’è?», mormorò.

    «Ho dei dolori», rispose e lui si rimise a sedere di scatto, cosa che gli provocò un accesso di tosse.

    «Ci fermeremo da alcuni amici a Scarperton. Puoi riposarti là», rispose, ma lei scosse la testa.

    «No, voglio andare da Roger e Margery. Se camminiamo di buon passo ce la faremo».

    «Non con questa pioggia, il sentiero sarà ridotto a un pantano».

    «Appena raggiunta la valle, conosco la strada più elevata. Alle pecore non piace bagnarsi le zampe, sanno come evitare la fanghiglia. Ricorda, tu sei il ragazzo di città, io la figliola di un contadino», lo prese in giro.

    Tra loro c’era sempre buonumore; motteggi, canzonature e buona compagnia, così come c’erano sempre affabili discussioni tra Margery e il suo sposo, Roger. Ogni coppia tirava avanti a modo proprio.

    La sofferenza non aveva fatto altro che avvicinarli ancora di più, nella convinzione di star compiendo l’opera del Signore e di trovarsi sotto la Sua protezione.

    Si affrettarono oltre sentieri sconosciuti intuendo la direzione giusta, fino a quando non scorsero con sollievo una pietra miliare e un crocevia noto e gradito. Si abbeverarono in una stamberga dal tetto di paglia, da una donna che dapprincipio lì osservò con sospetto e poi con la compassione per chi era in viaggio in una mattina tanto umida e tempestosa.

    Temo che il dolore alla schiena di mia madre stesse peggiorando, accorciandole il respiro, ma non potevano fermarsi. Se si fosse messa a pensare alla stanchezza, sarei nata nel bel mezzo della strada maestra. Soltanto la prospettiva della mia incolumità e di un caldo benvenuto – di latte caldo e birra, di una fetta di prosciutto salato e di uova, o di un po’ di pasticcio di corvo davanti al focolare – continuava a sospingerla in avanti sul sentiero scivoloso. Mio padre soffocò i suoi colpi di tosse, cercando di guidarla giù per il pendio della collina e nella valle successiva.

    Sulle alte colline del nord il maltempo si abbatte duramente su rocce ed erba, il vento piega gli alberi e scaglia i rami nell’aria. Non era una pioggia come tante altre, ma una tempesta di fulmini che avrebbe ridotto i ruscelli in piena e i fiumi in gonfi torrenti. Non era il momento di andarsene in giro, ma non osarono attardarsi per trovare un riparo.

    All’improvviso un fiotto d’acqua calda le si rovesciò tra le gambe per annunciare il mio arrivo. Erano ancora a uno o due miglia dalla fattoria di Windebank, in alto tra l’erba bagnata e le rocce calcaree che si estendevano come un pavimento lastricato, a uno o due miglia dalla salvezza di un materasso di piume pulito, lenzuola di lino e i servizi di donna Ketley, la levatrice del villaggio. Non c’è dubbio che al momento del parto una donna cammini tra la vita e la morte. Dovevano proseguire e mia madre ricominciò a cantare il salmo per rallegrare il suo fiacco spirito. «Il Signore è il mio pastore: non manco di…». Inciampò e per poco non cadde.

    «Cosa c’è che non va?», chiese lui, ma mia madre si sforzò di sorridere. Non c’era alcun motivo di allarmarlo. I dolori sopraggiungono in ogni caso, che siano stati fatti preparativi in termini di fasce e biancheria o meno. Non c’era niente da fare se non appoggiarsi al braccio di Matthew, mentre il cielo si spalancava e la pioggia scrosciava su di loro finché non furono bagnati fradici.

    Guadare il ruscello per il percorso più rapido sarebbe stata una follia; non restava altro che un’impervia salita sulle sponde, il giro più lungo. Essere così vicini e allo stesso tempo tanto lontani era insopportabile.

    «Non ce la faccio più», mia madre rimase senza fiato, mentre una doglia le afferrava il ventre. «Va’ a chiamare aiuto, sono stanchissima».

    «No, donna, l’ultimo miglio è sempre il più lungo. Non vado da nessuna parte senza di voi, anche se dovessi portarvi in braccio. Forza… Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode». Quand’era spaventato mio padre si dimenticava spesso di dare del tu, così come succede anche a me ormai da molti anni.

    «Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d’Israele», esalò lei, senza fiato.

    «Il Signore è il tuo custode…».

    «Il Signore è come ombra che ti copre e sta alla tua destra».

    Poi videro i fili di fumo che uscivano dal camino del focolare, l’odore di un fuoco di legna che ardeva da qualche parte nelle vicinanze. Edifici familiari accalcati gli uni agli altri sul fianco della collina e, ben presto, scorsero la casa di pietra in cui Roger e Margery avrebbero dato loro alloggio.

    Erano salvi. Erano a casa. Sarebbe stata una notte di duro travaglio, ma con la mattina sarebbe arrivata la gioia.

    Il crepuscolo era già passato e la fattoria era sbarrata per la notte quando i cani cominciarono ad abbaiare nel granaio, destando la casa col loro baccano. Nan, la domestica, stava già tremando per il rumore imprevisto e si allungò per prendere la scopa, temendo per la propria vita. Lo zio Roger Windebank incespicò fuori dai tendaggi del letto, imprecando, sbattendo le dita dei piedi e dimenticando le sue pie maniere alla ricerca di una mazza e dei suoi calzoni, troppo taccagno per accendere un mozzicone di candela.

    «Chi ci fa visita a un’ora tanto ingrata!», gridò mia zia Margery, nascondendosi sotto al copriletto col cuscino sulla testa, come per soffocare i colpi. Nessuno l’avrebbe biasimata per la sua angoscia dopo anni di allarmi e sonni irrequieti, quando le teste rotonde e i maligni vagabondavano per la brughiera a tutte le ore, schermaglie con spade e pistole che portavano i feriti fino alla loro porta in cerca di alloggio. Ora, con la restaurazione del re, sperava che simili disordini fossero superati.

    Sentiva Roger gridare dietro la porta dalle grandi borchie di quercia e la spranga fissata sopra. Curiosa, si mise una stola di lana sulle spalle e sgusciò sul pianerottolo superiore.

    «Apri in nome della misericordia, Roger… Siamo tuo cognato, Matthew Moorside, e Alice. Il suo tempo è scaduto e non possiamo fare un altro passo con questa tempesta!».

    Margery sfrecciò giù per le scale. «Misericordia! Falli entrare… Nan, al fuoco e al mantice… Benedetto Salvatore, apri quella porta…».

    Barcollarono dentro casa come due ratti affogati, terrei in volto e fradici fino al midollo, impalati in una pozza d’acqua sul lastricato. Lasciarono una scia di gocce sui giunchi appena sparpagliati, mentre la zia li conduceva nella sala comune dove Nan stava facendo del suo meglio per alimentare fiamme e calore.

    «Mi si sono rotte le acque», sussurrò mia madre. «E in questo fagotto non ho altro che poche pezze». Cercava di non piangere per la paura e la stanchezza.

    Non era il momento per sermoni o domande. Mio padre tossiva quasi fino a scoppiare ed entrambi avevano l’aspetto di un mucchietto di ossa ricoperto di stracci. Era questa la bella coppia che si era presentata davanti alla congregazione per promettersi fedeltà neanche dieci mesi prima?

    La delicata bellezza di Alice era rovinata, la pelle ingrigita per la mancanza di sole, gli occhi infossati nelle guance, ma ancora con lo scintillio di quella ferrea volontà che l’aveva condotta in salvo fino alla porta. Quando aveva quell’espressione, contrastarla era impossibile.

    Con tutti i preparativi da fare, Margery non ebbe il tempo di vestirsi. Il salotto doveva essere sufficiente per una partoriente allettata, anche se ancora non c’erano né il letto, né il fuoco. Se solo avesse avuto un qualche preavviso di un’emergenza simile!

    Mia madre si accasciò svenuta sul pavimento e fu necessario un tonico caldo; doveva farsi bastare il cordiale di liquirizia col miele. La scatola delle erbe dell’anziana dama Emmott venne convocata dalla sua nicchia accanto al caminetto. Nan aprì il baule delle coperte e portò una bracciata di lenzuola filate. Margery rimise a posto le migliori a favore di quelle rattoppate: ci sarebbe stato grande disordine e Alice non avrebbe recriminato per la qualità inferiore. Aprì il paravento per nasconderle le parti intime mentre la spogliavano e Matthew andò a cercare dei vestiti asciutti insieme al padrone di casa. La sottoveste di Alice era tutta bucherellata e lei puzzava più di una latrina pubblica. Il bagno nella tinozza avrebbe dovuto attendere: avevano bisogno dell’acqua calda per lavare il neonato.

    Dama Emmott, la vecchia madre di Margery, ora destata dal rumore, iniziò ad agitarsi e a stare tra i piedi di tutti, ma una volta tanto Margery fu contenta della sua assistenza, non avendo ancora ricevuto la benedizione di figli suoi, né mai visto prima una donna partorire.

    Essere una cercatrice l’aveva bandita da quel genere di riunioni femminili al villaggio, con tutti i loro parti, visite alle puerpere e pettegolezzi. Sarebbe stato inutile mandare qualcuno a chiamare donna Ketley, giacché era sotto le grinfie del prete locale e non avrebbe osato contrastare il suo volere. Dovevano arrangiarsi al meglio delle loro possibilità e pregare d’essere in grado di accompagnare Alice nel parto sana e salva.

    Sentendosi un’inutile astante, restò a guardare mentre Nan si accertava che sua cognata fosse asciutta e comoda, stesa com’era sul tappeto davanti al camino, lo spesso tappetino di stracci cuciti insieme che le era stato regalato come dono di nozze da alcuni compagni di fede. Provò a far scivolare qualche sorso di tè di bacche tra le labbra di Alice, per riscaldarle le viscere in vista della lunga fatica a venire. Sia lode al Signore, Nan – la domestica – aveva assistito alcuni dei suoi sei fratelli e sorelle sia in arrivo che in partenza da questo mondo. Non ebbe paura di ispezionare le parti intime di Alice e di tastarle il ventre per le avvisaglie del parto.

    «Non manca molto, signora», sorrise, ma i suoi occhi si accesero fin troppo mentre guardava Margery con apprensione.

    «Toglietele gli anelli dalle dita e allentatele i lacci per favorire il passaggio», suggerì la vecchia dama. A quei tempi era davvero smemorata.

    «No, madre, noi cercatori non portiamo fedi nuziali, né raffinate allacciature. Dovrebbe partorire con agio». Margery parlò più per auspicio che per certezza, poiché Alice era sfinita dal viaggio e dal freddo. Iniziò a gemere e aveva la fronte bollente, contorcendosi per farsi strada nel dolore, mentre le spettatrici alimentavano le fiamme e le asciugavano il viso.

    «Dov’è Matthew?», si lamentò Alice, guardando in pena verso la porta. «Non deve assistere alla mia vergogna». Non c’era da preoccuparsi: tutti sanno che il parto è affar di donne. Mio padre era occupato ad aiutare Roger a mettere in sicurezza la casa contro la tempesta. Mi sono spesso chiesta se non sarebbe meglio che gli uomini fossero testimoni del parto per il travaglio che è.

    Da qualche parte nel profondo di sé, mia madre raccolse le energie per un ultimo, lungo sforzo che vide spuntare la mia testa, prima di ributtarsi all’indietro in preda allo sfinimento.

    «Continua a spingere, signora! È quasi nato… Spingi ancora una volta e vedrai il tuo bambino», gridò Nan, per incoraggiare il suo fiacco spirito. Con un grido e un improvviso fremito, proruppi di colpo sul panno che mi aspettava, paffuta e imporporata come un cucciolo appena nato che si tingeva di rosa proprio sotto i loro sguardi. Margery sentì gli occhi riempirsi di lacrime, lacrime di sollievo, stupore e invidia, mentre fuori infuriava la tempesta e il tuono rombava sopra le loro teste.

    Tutti presero bene la notizia che ero una bambina, non un bambino. Nan mi lavò nella tinozza di acqua calda, ispezionando accuratamente il mio corpo, recidendo il cordone con uno dei coltelli per la carne e facendo pressione sulla ferita per arginare il flusso.

    Dama Emmott mi avvolse la pancia con una cintura e mi fasciò col lenzuolo strappato, sollevandomi perché mia madre potesse ammirare il suo trofeo. Aveva gli occhi offuscati dalla stanchezza e dalla febbre. Mi piace pensare che mi abbia sorriso, ma lo sforzo di sorreggermi era troppo per lei.

    «Andate a chiamare i signori! Ha bisogno di un medico», disse duramente Nan, interpretando i sintomi con aria allarmata. Margery chiamò dalla porta laterale dove gli uomini erano raccolti in attesa di notizie e Matthew zoppicò al suo fianco, inginocchiandosi e bisbigliandole parole d’amore all’orecchio, mentre gli altri restavano in piedi a pregare perché il Signore ravvivasse il suo debole respiro.

    Urlavo con strilla talmente vigorose che non c’era alcun timore di una mia prematura dipartita. Era come se sapessi che sarei stata privata del suo latte e del suo conforto prima dell’alba, di un viola furibondo sul pendio della collina.

    Quella mattina a Windebank, dopo tutto il subbuglio della notte, non ci fu gioia alcuna, ma la tempesta si era placata e la copertura di brugo sui tetti del vecchio granaio aveva resistito. I braccianti si prestarono silenziosamente alle loro faccende e Nan, per errore, rovesciò l’acqua del bagno fuori dalla porta.

    «Adesso guarda cos’hai combinato», gridò dama Emmott. «Ora la bambina errerà lontano dal focolare… L’acqua del bagno di una femmina va sempre buttata nel fuoco per farla rimanere a casa».

    «Ma signora, il fuoco ci serve per riscaldare la donna là dentro», protestò Nan, le guance paonazze per la vergogna.

    «Ormai niente può riscaldare Alice», sussurrò Margery, guardando la novella madre che si spegneva poco a poco. Era come se l’imbottitura che le era stata strappata tanto bruscamente avesse ridotto il suo corpo a un sacco vuoto.

    Roger piangeva, facendo su e giù all’aria aperta, e il mio povero padre restò aggrappato al focolare, pregando per un miracolo. «La colpa è mia che le ho inflitto una simile sciagura», sussurrò Matthew. «La prigione era fredda anche nel caldo dell’estate e piena di pestilenza».

    «Ma la bambina è forte e robusta. La chiamerai come Alice?», disse Margery.

    «Se fosse stato maschio, avrebbe dovuto chiamarsi Giosuè», si intromise Roger. «Avete visto in che condizioni sono i muri là fuori? Ci sono buchi tanto grandi da poterci passar dentro con carrozza e cavalli. La siccità ha seccato le pietre e adesso l’inondazione le ha gonfiate e fatte cadere. La bambina porterà guai, non c’è dubbio. I muri che cadono sono di pessimo auspicio, ecco cosa».

    «Zitto, Roger!», disse sua moglie, mentre mio padre mi portava sotto la luce e si sforzava di sorridere.

    «Il suo nome è Rejoice. Perché tutti in questa vita hanno delle tribolazioni da affrontare prima di trovare la vera gioia. Siate sempre lieti¹ nel Signore…», bisbigliò.

    «È un nome bello pesante per uno scricciolo tanto piccino», arricciò il naso l’impassibile dama Emmott, sperando che le dessero il suo nome.

    «Così deve essere. Privato come sono della mia consorte, troverò conforto in questa piccola anima. Adesso sarà lei la mia compagna di vita», sospirò, baciando per l’ultima volta la gelida fronte di mia madre.

    Ma non era destino, giacché l’anima di lei aveva appena fatto in tempo a uscire dalla porta, che Matthew fu colpito da un violento accesso di tosse, strozzato e sommerso com’era dal suo dolore, tanto che smise di respirare: giacevano insieme, fianco a fianco nel gelido salotto, in attesa d’essere sepolti tra i meli del piccolo frutteto.

    Gli Amici si riunirono per onorare i martiri e calarli insieme nella terra anonima nel rispetto delle loro usanze. Per quest’atto di ribellione a Roger venne inflitta un’ammenda di una sterlina e dieci scellini, che scelse di non pagare. Il conestabile si portò via due ottime vacche da latte per il valore di tre sterline e dieci scellini, ma Roger ricacciò indietro la sua rabbia per un sequestro tanto egoistico.

    Urlai notte e giorno finché nel villaggio non fu trovata una balia disposta a sfamare la figlia di cercatori. Continuai a crescere robusta, mentre il calore dell’estate tornava, ignara della mia perdita.

    Con sua sorpresa, zia Margery trovò grazia e conforto nel prendersi cura di me, mi dicono, al punto da ritrovarsi finalmente incinta e dare alla luce un figlio, Mallory, subito seguito da una figlia, Diligence. La casa un tempo silenziosa era animata dal ciangottio infantile e invasa da fasce e biancheria per bambini.

    Il Signore dà e il Signore prende. Benedetto sia il nome del Signore.

    Il presente è il resoconto più fedele che conosca, giacché non ne ho alcun ricordo: il mio primo viaggio in questo mondo, che però ha segnato tutta la mia vita. Talvolta essere figlia di una tempesta che fece crollare tutti i muri, una bambina nata nel dolore e condannata a errare lontano, il cui arrivo aveva privato della vita i suoi genitori, fu un peso sfiancante. Non aver mai conosciuto il conforto dell’abbraccio di una madre è stato per me un grande dolore.

    Negli anni ho ricomposto questo resoconto dagli stralci racimolati da Roger, Margery, Nan e altri. Ogni frammento è cucito con amorevole filo in una trapunta patchwork di ricordi di cui far tesoro. Nei periodi bui della mia vita mi sono avvolta in queste memorie per consolarmi: hanno riscaldato molte prigioni e oscuri luoghi dell’anima.

    1 Il nome della protagonista, Rejoice, significa proprio gioire, essere lieto. (n.d.t.)

    2

    Ero nel mio decimo anno quando la persecuzione della nostra gente iniziò a farsi sempre più vicina a casa. La consapevolezza di essere diversi da molti dei nostri vicini del villaggio sottostante non fu un accecante lampo di intuizione, ma una rivelazione graduale, come la foschia che dopo la pioggia risale sul pendio delle colline svelando una giornata perfetta.

    La fattoria di Windebank giaceva nascosta alla vista a due miglia di distanza dalla cittadina, posta sull’altura rivolta a sud per ricevere solo il tempo migliore. Eravamo alquanto completi: la nostra casa di pietra era stata da poco ampliata con l’aggiunta di camere al piano superiore, al posto del solaio, e un solido tetto di pietre, ottimi stipiti per il camino che ci teneva al caldo d’inverno e un imponente fienile con grandi travi che resistevano da più di cento anni.

    Sui declivi affacciati a sud-ovest c’era l’orto recintato in cui zia Margery coltivava le erbe necessarie alla nostra sopravvivenza: menta, tanaceto, ruta, consolida e molte altre verdure e fiori dai dolci profumi che sfamavano le api. Le nostre pecore avevano lunghe pellicce che venivano tosate in estate; ne pulivamo i velli e ne filavamo la lana per lavorare a maglia calze e guanti caldi. C’erano sempre candele da inzuppare e burro da sbattere, giunchi freschi da raccogliere e poco tempo per starsene sui pascoli con le mani in mano, ma il Primo Giorno della settimana – che i mondani chiamano domenica – il lavoro veniva messo da parte per un’adunanza dei devoti, dove sedevamo in silenzio finché qualcuno non si sentiva ispirato a rivolgersi all’assemblea.

    A volte sedevamo per un’ora intera, o anche di più, senza che venisse detto alcunché, quindi era difficile impedire ai miei pensieri di divagare o a Dilly di agitarsi. Nessuno di noi era mai stato nella chiesa giù al villaggio. Lo zio Roger sosteneva che niente di ciò che diceva il prete avrebbe parlato della nostra condizione spirituale.

    Allora imparai che ogni assenza deve essere pagata e che proprio per questo Joseph Swinstey, il conestabile, veniva spesso alla nostra porta per incassare l’ammenda. Quando

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1