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Option B: Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia.
Option B: Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia.
Option B: Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia.
E-book270 pagine3 ore

Option B: Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia.

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Info su questo ebook

Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia.

Dopo l'improvvisa morte del marito, Sheryl Sandberg era certa che lei e i suoi figli non avrebbero più potuto trovare la vera gioia. "Ero come sospesa nel vuoto" scrive, "un immenso buco nero che ti riempie il cuore e i polmoni, che limita la tua capacità di pensare e ti impedisce persino di respirare". Poi il suo amico Adam Grant, psicologo e docente alla Wharton Business School dell'Università di Pennsylvania, le disse che esistono azioni concrete che una persona può intraprendere per guarire e riprendersi anche dalle esperienze più devastanti. Non siamo nati con una quantità fissa di resilienza. La resilienza è un muscolo, che ciascuno di noi può costruire e allenare.
Option B coniuga le intuizioni personali di Sheryl Sandberg con le ricerche illuminanti di Adam Grant su come trovare la forza di andare avanti nonostante le avversità. Partendo dal momento straziante in cui ha trovato il marito, Dave Goldberg, privo di vita sul pavimento della palestra, Sheryl apre il proprio cuore - e il proprio diario - per descrivere il profondo dolore e il senso di isolamento che ha provato subito dopo la sua morte. Ma "Option B" si spinge oltre l'elaborazione del lutto e indaga l'esperienza di persone che hanno saputo superare difficoltà significative come malattia, perdita del lavoro, aggressioni sessuali, disastri naturali, la violenza della guerra. Le loro storie testimoniano la capacità dello spirito umano di perseverare e..di riscoprire la gioia.
La resilienza nasce dal nostro intimo, ma anche dal sostegno di chi ci sta intorno:persino dopo le esperienze più devastanti è possibile crescere, trovando un significato più profondo e imparando ad apprezzare di più le nostre vite.
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2017
ISBN9788858971765
Option B: Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia.
Autore

Sheryl Sandberg

Imprenditrice, filantropa e direttore operativo di Facebook, è autrice del bestseller "Facciamoci avanti" e ha fondato Leanin.Org, un'associazione che si propone di aiutare le donne a raggiungere i propri obiettivi. È stata vicepresidente per le vendite online per Google e capo dello staff del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d'America. Vive in California con due figli.

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    Anteprima del libro

    Option B - Sheryl Sandberg

    Dave

    Premessa

    L’ultima cosa che gli ho detto è stata: «Mi sto addormentando».

    Conobbi Dave Goldberg nell’estate del 1996: mi ero trasferita a Los Angeles e un amico comune ci invitò da lui per cenare e vedere un film. Non appena cominciò, mi addormentai con la testa appoggiata sulla spalla di Dave. Ripeteva spesso che aveva pensato avessi una cotta per lui, finché non aveva capito che – come era solito dire – «Sheryl si addormenterebbe ovunque e addosso a chiunque».

    Iniziai ad ambientarmi a Los Angeles e Dave diventò il mio migliore amico. Mi presentava persone divertenti, mi mostrava tutte le scorciatoie per evitare il traffico e si assicurava che avessi sempre qualche programma per il weekend e per le vacanze. Mi rese un po’ più cool: mi fece scoprire internet e ascoltare musica che non conoscevo. Quando mi lasciai con il mio fidanzato, Dave non esitò a consolarmi, nonostante il mio ex fosse un Navy SEAL che dormiva con una pistola carica sotto il letto.

    Dave sosteneva che con me era stato amore a prima vista, che però aveva dovuto aspettare a lungo prima che io mi svegliassi, scaricassi quello sfigato e uscissi con lui. Dave era sempre un passo avanti rispetto a me, ma alla fine riuscii a raggiungerlo. Sei anni e mezzo dopo quel film, pianificammo un viaggio di una settimana, ben consapevoli che avrebbe potuto dare una svolta alla nostra relazione o rovinare una grande amicizia. Ci sposammo l’anno seguente.

    Dave era la mia roccia. Se io ero turbata, lui rimaneva calmo. Se ero preoccupata, mi diceva che tutto si sarebbe sistemato. Se non sapevo cosa fare, mi aiutava a trovare una soluzione. Come ogni coppia sposata avevamo i nostri alti e bassi, eppure con Dave mi sentivo davvero capita, amata. In modo completo e incondizionato. Credevo che avrei passato il resto della mia vita con la testa sulla sua spalla.

    Undici anni dopo le nozze, andammo in Messico per festeggiare il cinquantesimo compleanno del nostro amico Phil Deutch. I miei genitori si sarebbero occupati dei nostri figli, e Dave e io eravamo entusiasti al pensiero di avere un weekend solo per noi.

    Il venerdì pomeriggio ci stavamo rilassando a bordo piscina e giocavamo ai Coloni di Catan sull’iPad. Per una volta, incredibilmente, ero in vantaggio, ma mi si stavano chiudendo gli occhi. Non appena mi accorsi che la stanchezza stava compromettendo la mia vittoria, confessai: «Mi sto addormentando». Mi arresi e cedetti al sonno. Alle 15.41 qualcuno scattò una foto a Dave con l’iPad in mano seduto accanto a suo fratello Rob e a Phil. Io invece dormivo appoggiata a un cuscino proprio davanti a loro. Dave stava sorridendo.

    Quando un’ora più tardi mi svegliai, Dave non era più seduto su quella sedia. Raggiunsi i nostri amici per una nuotata, immaginando che fosse andato in palestra come da programma. Rientrata in camera per una doccia, non lo trovai; ero sorpresa, ma non agitata. Mi preparai per la cena, controllai le e-mail e chiamai i bambini.

    Nostro figlio era dispiaciuto perché lui e il suo amico, violando il regolamento del parco giochi, si erano arrampicati su un cancello e le scarpe da ginnastica si erano rotte. Confessò tutto tra le lacrime. Gli dissi che apprezzavo la sua onestà e che io e papà avremmo deciso quanto trattenere dalla sua paghetta per comprarne un nuovo paio. Il nostro ometto però ormai andava in quarta elementare e non voleva vivere nell’incertezza, così gli risposi che avrei dovuto discuterne con il padre, e che per questo motivo ne avremmo riparlato l’indomani.

    Lasciai la stanza e andai al piano di sotto. Dave non c’era. Camminai fino alla spiaggia e raggiunsi il resto del gruppo. Appena vidi che non era nemmeno lì, fui assalita dal panico. Qualcosa non andava. Urlai a Rob e a sua moglie Leslye: «Dave non c’è!». Lei esitò per un istante e gridò di rimando: «Dov’è la palestra?». Indicai i gradini e iniziammo a correre. Mi manca ancora il respiro se ripenso a quelle parole. Non potrò mai più ascoltare la frase «Dov’è la palestra?» senza provare un tuffo al cuore.

    Trovammo Dave a terra, accanto all’ellittica, con il viso leggermente bluastro rivolto a sinistra e una piccola pozza di sangue sotto la testa. Lanciammo tutti un urlo. Provai a rianimarlo, poi subentrò Rob, che fu sostituito da un medico.

    Quelli in ambulanza furono i trenta minuti più lunghi della mia vita. Dave era sdraiato su una barella e il medico tentava di rianimarlo. Io ero davanti, piangevo e supplicavo il dottore di dirmi che mio marito non era morto. Non mi capacitavo di quanto fosse lontano l’ospedale e di quante poche macchine si levassero di mezzo per lasciarci passare. Una volta arrivati, lo portarono via e sparirono dietro una pesante porta di legno, rifiutandosi di farmi entrare. Mi sedetti per terra mentre Marne Levine, la moglie di Phil e una delle mie più care amiche, mi stringeva forte.

    Dopo quella che mi sembrò un’eternità mi accompagnarono in una stanzina. Il medico si sedette alla scrivania. Sapevo cosa mi aspettava. Quando se ne fu andato, un amico di Phil mi si avvicinò, mi diede un bacio sulla guancia e sussurrò: «Mi dispiace per la tua perdita». Quelle parole e quel bacio mi proiettarono nel futuro. Ero consapevole che avrei provato quella sensazione ancora e ancora.

    Qualcuno mi domandò se volessi vedere Dave per dirgli addio e accettai. Credevo che se fossi rimasta in quella stanza, se lo avessi stretto a me e mi fossi rifiutata di lasciarlo, mi sarei svegliata da quell’incubo. Quando Rob, anche lui sotto shock, mi disse che dovevamo andarcene, uscii dalla stanza, poi mi voltai e corsi di nuovo ad abbracciare Dave. Dopo un po’ Rob mi staccò con delicatezza dal suo corpo. Marne mi accompagnò lungo il corridoio bianco, sorreggendomi e impedendomi di tornare indietro.

    Fu così che cominciò il resto della mia vita. Era – ed è tuttora – una vita che mai avrei scelto, una vita per la quale non ero affatto preparata. Fu atroce annunciare a mio figlio e a mia figlia che il padre era morto. Udire le loro grida e gridare con loro. Il funerale. Sentire le persone che parlavano di Dave al passato. Vedere la casa riempirsi di volti familiari che mi si avvicinavano per baciarmi sulla guancia e pronunciare le parole di circostanza: «Mi dispiace per la tua perdita».

    Al cimitero i miei figli scesero dalla macchina e crollarono a terra, incapaci di muovere un altro passo. Mi misi sull’erba insieme a loro e li strinsi mentre si disperavano. I loro cugini si sedettero con noi: eravamo tutti lì, uno accanto all’altro a singhiozzare, mentre le mie braccia tentavano di proteggerli dalla sofferenza.

    La poesia, la filosofia e la fisica ci hanno insegnato che la gente non percepisce il tempo allo stesso modo. Il tempo continuava a rallentare. Giorno dopo giorno i pianti e le grida dei miei bimbi riempivano l’aria. Nei momenti in cui non piangevano, li osservavo con ansia e aspettavo l’istante in cui avrebbero avuto bisogno di essere confortati. I miei pianti e le mie grida – che perlopiù restavano muti, ma che talvolta non riuscivo a trattenere – colmavano lo spazio restante. Mi trovavo in una sorta di vuoto: un enorme nulla che ti intasa il cuore e i polmoni e che limita la tua capacità di pensare e perfino di respirare.

    Il lutto è un compagno esigente. In quei primi giorni, settimane e mesi era sempre lì, non sotto la superficie, ma sopra. Ribolliva, si intensificava, e non se ne andava. Poi, proprio come un’onda, si sollevava dentro di me e si abbatteva, quasi volesse strapparmi via il cuore. Sentivo allora di non riuscire più a sopportare quel dolore, nemmeno per un minuto, tantomeno per un’altra ora.

    Vedevo Dave a terra, sul pavimento della palestra. Vedevo il suo viso in cielo. Di notte lo cercavo e gridavo al vuoto: «Dave, mi manchi. Perché mi hai lasciata? Torna, ti prego. Ti amo…». Ogni notte piangevo fino allo sfinimento, poi mi addormentavo. Ogni mattina mi svegliavo e facevo tutto come un automa, non volevo credere che il mondo potesse andare avanti senza di lui. Com’era possibile che gli altri andassero avanti come se nulla fosse cambiato? Non se ne accorgevano?

    La vita era diventata un campo minato. Durante la serata per i genitori organizzata dalla scuola, mia figlia mi mostrò cosa aveva scritto otto mesi prima, il giorno in cui aveva iniziato la seconda elementare: «Mi chiedo cosa succederà in futuro». Fu come essere investita da un treno: all’epoca, né lei né io avremmo mai immaginato che avrebbe perso il padre ancor prima di finire la seconda elementare. La seconda elementare. Guardai la sua manina nella mia, il suo dolce viso rivolto verso di me che mi fissava per capire se mi fossero piaciute le sue parole. Mi sentii mancare e per poco non caddi a terra, feci finta di essere inciampata. Mentre camminavamo per la stanza, tenevo lo sguardo basso per evitare di incrociare quello degli altri genitori e risparmiarmi una crisi di nervi.

    I giorni importanti erano i più dolorosi. Per Dave il primo giorno di scuola era un evento importante: ogni volta scattava un sacco di fotografie ai bambini mentre uscivano di casa. Mi sforzai di trovare un po’ di entusiasmo per farne anch’io alcune. Il giorno del compleanno di mia figlia ero seduta sul pavimento della mia camera da letto con mia mamma, mia sorella e Marne. Mi sembrava impossibile scendere le scale e sopravvivere, figuriamoci sorridere e unirmi ai festeggiamenti. Sapevo che dovevo farlo per mia figlia. Sapevo che dovevo farlo per Dave. Solo che io volevo farlo con Dave.

    C’erano però degli attimi in cui riuscivo a sorridere. Un giorno dissi al parrucchiere che avevo problemi a dormire. Lui posò le forbici, aprì la borsa con fare teatrale e tirò fuori confezioni di Xanax di ogni tipo e formato. Declinai l’offerta, ma apprezzai moltissimo il gesto. Un giorno ero al telefono con mio padre e mi lamentavo del fatto che tutti i libri sul lutto avessero dei titoli orribili come: La morte è di vitale importanza oppure: Di’ di sì alla morte (come se potessi dire di no). Mentre eravamo al telefono eccone spuntare un altro: Dormire al centro del letto. Un giorno stavo guidando verso casa e accesi la radio per distrarmi. Le canzoni erano una peggio dell’altra: Somebody That I Used to Know. Qualcuno che conoscevo? Terribile. Not the End. Non è la fine? Permettetemi di dissentire. Forever Young. Giovani per sempre? Non mi sembra il caso. Good Riddance: Time of Your Life. Divertirmi? Non credo proprio. Conclusione: ho lasciato su Reindeer(s) Are Better than People, le renne sono meglio delle persone.

    Il mio amico Davis Guggenheim mi disse che, dopo anni passati a girare documentari, aveva imparato che le storie si rivelano da sole. Infatti, quando inizia un progetto, non sa mai con certezza come andrà a finire, perché il racconto deve svilupparsi a modo suo e con i suoi tempi. Secondo Davis dovevo provare non a controllare il mio dolore, ma ad ascoltarlo, tenerlo con me e fargli fare il suo corso. Mi conosce bene. Cercavo in ogni maniera di far cessare la mia sofferenza, di chiuderla in una scatola e di buttarla via. Le prime settimane e i primi mesi ogni mio tentativo fallì. L’angoscia prendeva il sopravvento. Anche quando sembravo calma e tranquilla, il tormento era presente. Potevo partecipare a una riunione o leggere un libro ai bambini, ma il mio cuore era sempre sul pavimento di quella palestra.

    «Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura» scrisse C. S. Lewis. La paura era costante e avevo l’impressione che il dolore non accennasse a placarsi. Quelle ondate continuavano a flagellarmi finché non riuscivo più a stare in piedi, finché non ero più me stessa. Due settimane dopo la morte di Dave, all’apice di quella sensazione di vuoto, ricevetti una lettera da una conoscente sulla sessantina rimasta vedova. Visto che era da molto più tempo di me in questa situazione, avrebbe tanto voluto darmi qualche consiglio, ma purtroppo non ne aveva. Il marito era morto qualche anno prima e anche una sua cara amica era vedova da una decina d’anni, eppure nessuna delle due pensava che il tempo avesse in qualche modo alleviato la sofferenza. Scrisse: Per quanto ci provi, non ce la faccio proprio a trovare una sola cosa che possa esserti di aiuto. Quella lettera, di sicuro spedita con le migliori intenzioni, distrusse la speranza che un giorno il mio dolore sarebbe finalmente svanito. Mi sentii sprofondare nel nulla: gli anni a venire mi si prospettavano vuoti e infiniti.

    Telefonai a Adam Grant, uno psicologo e professore alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania, e gli riferii il contenuto di quella lettera devastante.

    Due anni prima Dave aveva letto il libro di Adam Più dai più hai e lo aveva invitato a parlare alla SurveyMonkey, la società di cui mio marito era amministratore delegato. Quella sera poi ci raggiunse per cena. Adam studia il modo in cui le persone riescono a trovare un senso e una motivazione, quindi parlammo delle sfide che le donne affrontano quotidianamente e di come Adam avrebbe potuto trattare l’argomento nei suoi libri; cominciammo a scrivere insieme e diventammo amici.

    Quando Dave morì, Adam salì su un aereo e attraversò il Paese per partecipare al funerale. Gli confidai che la mia più grande paura era per i miei figli: temevo che non sarebbero mai più stati felici. Già altre persone avevano provato a rassicurarmi con storie personali, Adam però mi espose dei fatti concreti: dopo aver perso un genitore molti bambini dimostrano una resilienza sorprendente, vivono un’infanzia felice, crescono e diventano degli adulti equilibrati.

    La disperazione nella mia voce lo spinse ancora una volta a prendere un aereo e ad attraversare gli Stati Uniti per convincermi che quel vuoto – per me infinito – aveva invece un fondo. Voleva dirmi di persona che, per quanto lo strazio fosse inevitabile, c’erano delle cose che potevo fare per ridurre la mia angoscia e quella dei miei figli. Disse che nel giro di sei mesi, più della metà di coloro che perdono il proprio partner supera quella che gli psicologi chiamano la fase del lutto acuto. Adam mi persuase che il mio lutto avrebbe dovuto fare il suo corso, tuttavia i miei pensieri e le mie azioni potevano indirizzare i miei movimenti nel vuoto e scandirne il ritmo.

    Non conosco nessuno che abbia avuto una vita rose e fiori. Tutti incontriamo delle difficoltà; alcune le possiamo prevedere, altre ci colgono alla sprovvista. Può trattarsi di un evento tragico come la morte improvvisa di un figlio, o doloroso come la fine di una relazione, oppure può semplicemente essere la delusione per un sogno che si infrange. La domanda è: quando queste cose accadono, cosa facciamo?

    Pensavo che la resilienza fosse la capacità di sopportare il dolore, perciò domandai a Adam come fare a capire quanta ne avessi. Mi spiegò che la quantità di resilienza dentro di noi non è fissa, e che piuttosto dovevo chiedermi come diventare resiliente.

    La resilienza è l’insieme di forza e velocità con cui reagiamo di fronte a un’avversità, e possiamo costruircela. Non si tratta di avere una spina dorsale, piuttosto di rafforzare i muscoli che le stanno attorno.

    Da quando Dave è venuto a mancare, moltissime persone mi hanno detto: «Non riesco neanche a immaginarlo». Nel senso che non sono in grado di immaginare come si possa vivere qualcosa del genere, non immaginano come io possa essere ancora lì in piedi a parlare con loro piuttosto che rannicchiata da qualche parte. Ricordo di essermi sentita allo stesso modo davanti a una collega tornata al lavoro dopo aver perso un figlio, o il giorno in cui vidi un amico bersi un caffè dopo che gli era stato diagnosticato un cancro. Quando mi trovai dall’altra parte, la mia risposta fu: «Non riesco a immaginarmelo neanche io, ma non ho altra scelta».

    Non avevo altra scelta che alzarmi ogni giorno, superare lo shock, attraversare il periodo di lutto e affrontare il senso di colpa del sopravvissuto. Non avevo altra scelta che non fosse cercare di proseguire con la mia vita e provare a essere una brava madre o un’ottima collega.

    La perdita, il dolore e la delusione sono esperienze profondamente personali. Ogni circostanza è unica, e reagiamo tutti in modo diverso. Eppure la gentilezza e il coraggio di chi ha condiviso con me il proprio vissuto mi hanno aiutata. Alcune delle persone che mi hanno parlato con il cuore in mano sono ora tra i miei amici più cari. Altri invece erano estranei che dispensavano consigli e parole di saggezza, a volte perfino dentro libri dal titolo orribile. E poi c’è stato Adam, molto paziente, che mi ripeteva di continuo che l’oscurità si sarebbe dileguata, ma che io avrei dovuto fare la mia parte. Anche di fronte alla tragedia più sconvolgente della mia vita, potevo controllare almeno un po’ l’impatto che aveva su di me.

    Questo libro è il tentativo mio e di Adam di condividere tutto ciò che abbiamo imparato sulla resilienza. Lo abbiamo scritto insieme, ma per semplicità e chiarezza la storia è raccontata da me (Sheryl), le parti di Adam invece sono in terza persona. Non pretendiamo che la speranza riesca a prevalere sul dolore. Non sarà così. Non partiamo dal presupposto di aver affrontato qualsiasi tipo di perdita e incontrato ogni ostacolo. Non è così. Non c’è una maniera giusta di fronteggiare un lutto o una sfida, non abbiamo delle risposte esatte da darvi: non esistono.

    Sappiamo anche che non tutte le storie hanno un lieto fine. Per alcune piene di fiducia, ce ne sono altrettante dalle circostanze troppo dolorose, come le guerre, la violenza, il sessismo e il razzismo che distruggono vite e decimano comunità. La triste verità è che le avversità non sono distribuite equamente: i gruppi emarginati combattono molte più battaglie e devono affrontare più sofferenze rispetto agli altri.

    Per quanto traumatica sia stata la mia vicenda, sono consapevole che siamo fortunati ad avere un sistema di sostegno esteso che comprende famiglia, amici, colleghi, e perfino l’accesso a risorse finanziarie che pochi hanno a disposizione. So anche che parlare di come trovare la forza in un momento di difficoltà non ci solleva dalla responsabilità di impegnarci a prevenirlo. Tutto ciò che facciamo all’interno delle nostre società – le politiche pubbliche che attuiamo, il modo in cui ci aiutiamo – può far sì che meno persone debbano soffrire.

    Eppure, per quanto cerchiamo di prevenirle, avversità, disuguaglianze ed esperienze traumatiche esistono, e a noi resta il duro compito di fronteggiarle. Per vedere un cambiamento domani, dobbiamo costruire la nostra resilienza oggi.

    Gli psicologi hanno studiato come riprendersi e rimettersi in piedi dopo una serie di avversità, che si tratti di una perdita, un rifiuto, un divorzio, un infortunio, una malattia, o perfino un fallimento professionale o una delusione. Durante la nostra ricerca, Adam e io abbiamo rintracciato individui e gruppi che erano stati in grado di superare situazioni difficili, sia ordinarie sia straordinarie, e i loro racconti hanno cambiato il nostro modo di concepire la resilienza.

    Questo libro parla della capacità di perseverare. Prendiamo in considerazione i passi che la gente può fare per aiutare se stessa e gli altri. Vogliamo esplorare la psicologia della guarigione, la facoltà di riacquisire sicurezza e riscoprire la gioia. Tentiamo di spiegare quale sia la maniera migliore per parlare di una tragedia e come confortare un amico che soffre. Parliamo anche di come creare delle comunità resilienti, come crescere bambini coraggiosi e come tornare ad amare.

    Adesso so che è possibile crescere grazie a un’esperienza traumatica. Dopo le disgrazie più devastanti le persone possono davvero trovare un senso e diventare più forti di prima. Credo anche che sia possibile vivere una sorta di crescita pre-traumatica, ovvero che non necessariamente si debba passare attraverso un’esperienza tragica per costruire la propria resilienza.

    In questo momento mi trovo soltanto a metà del mio percorso. La nebbia del lutto acuto si è sollevata, ma sento ancora la mancanza di Dave e la tristezza non mi abbandona. Mi sto sforzando di non cedere e di imparare le lezioni racchiuse in queste pagine. Come tutti gli individui che hanno vissuto una tragedia, spero anche io di trovare un senso, e perfino la gioia, e di aiutare gli altri a fare altrettanto.

    Se mi volto indietro e ripenso ai periodi più bui, ora mi rendo conto che comunque c’erano dei segnali di speranza. Un amico mi ha ricordato che, quando i miei bambini erano scoppiati

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