Racconti visionari
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Thomas de Quincey
Despite being born into a wealthy family, Thomas De Quincey had a difficult childhood. He was forced to move quite often, and his father passed away when he was only eight years old. He attended several prestigious schools before running away when he was seventeen, returning home several months later. De Quincy studied at Oxford University for a short while, but he soon became addicted to opium, and dropped out in 1807; he would suffer from this addiction for the rest of his life. In 1821, De Quincey’s struggles inspired him to write Confessions of an English Opium-Eater, which was published in London Magazine and served as a professional breakthrough for him. After his wife passed away in 1837, De Quincey’s addiction became dramatically worse and his finances suffered as a result. He managed to write several more books, including a second memoir, Suspiria de Profundis, before passing away in 1859.
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Anteprima del libro
Racconti visionari - Thomas de Quincey
DIGITALI
Intro
«Thomas De Quincey fu, sin dalla giovinezza, uno dei più portentosi oppiomani, essendo arrivato a prendere persino 8.000 gocce di laudano al giorno; una abitudine che lo avrebbe ridotto sulla soglia della demenza e della miseria se non fosse intervenuta la famiglia a salvarlo… e che lasciò poi sempre in lui depositi di strane fermentosità spirituali e di sogni e di ricordi e di malinconie e che anche - diciamolo a onore dell’oppio - determinò la feconda potenza visionaria da cui sgorgarono le sue pagine più gagliardamente radiose». (Carlo Linati)
PREFAZIONE
Il lettore italiano, di Thomas De Quincey non conosce probabilmente che le Confessioni di un Mangiatore d’Oppio e L’Assassinio come una delle Belle Arti ; quest’ultima in un’assai infelice versione di Giovanni Vannicola, da una traduzione francese. E anche la Francia, oltre questa, non ha di lui altre versioni, se non qualche brano tradotto e rimaneggiato da Baudelaire dai Suspiria De Profundis , e aggiunto alla raccolta dei «Poèmes Paradisiaques»: poemi, diciamolo pure, derivati quasi radicalmente dall’ispirazione di De Quincey e, in un certo senso, pittoresco rifacimento delle sue «Confessioni». Perché poi, con tutta la smania del tradurre e la compiacenza nel riesumare autori dimenticati e scritture rare, oggi a nessuno è venuto in mente di andar un po’ a frugare nei quattordici volumi di prose fantastiche, autobiografiche, storiche e filosofiche del De Quincey, non si sa. Eppure in quel grande cafarnao, tra tanti fratas c’è anche di molta roba che si può rimetter fuori con onore e con gusto di un pubblico colto: dallo studio critico storico alla prosa di pura fantasia, dagli sketches autobiografici e memoriali ed umoristici al romanzo picaresco e alla discettazione filosofica o morale o retorica o letteraria, l’imbarazzo non è che nella scelta.
De Quincey era uno scrittore di quelli che in Inghilterra si chiamano Miscellaneous Writers , e, da noi, Poligrafi : una specie del nostro Algarotti, così per intenderci, con tanto più d’arte, fantasia, passione umana e spirito critico quanto l’altro è misero e diluito scrivano. A questo scrivere vagabondo e disparato un po’ lo portavano i tempi in cui era vissuto (1785-1859) ch’erano di ricostruzione e agitatissimi, un po’ la sua povera strapazzata vita piena di privazioni che lo obbligavano al gagne pain delle riviste e dei giornali. Come si sa, egli fu, sin dalla giovinezza, uno dei più portentosi oppiomani, essendo arrivato a prendere persino 8.000 gocce di laudano al giorno; una abitudine che lo avrebbe ridotto sulla soglia della demenza e della miseria se non fosse intervenuta la famiglia a salvarlo… e che lasciò poi sempre in lui depositi di strane fermentosità spirituali e di sogni e di ricordi e di malinconie e che anche - diciamolo a onore dell’oppio - determinò la feconda potenza visionaria da cui sgorgarono le sue pagine più gagliardamente radiose. Di quegli immensi palazzi dell’allucinazione e del sogno, il vagabondo e sensibilissimo De Quincey s’era formata una seconda dimora terrestre, una delirante favolosa reggia per la quale egli s’aggirava ad esaminare, analizzare, descrivere con lucidità le cose più folli e mostruose che ne tappezzavano le pareti e che spesso erano immagini di lontananze disperate o spasimi per irraggiungibili cieli. A questa facoltà di visione e di reviviscenza si mescolava poi, nello scrittore, una calda e penetrante cultura classica, una curiosità dei più svariati argomenti, un umorismo railleur ed à rebours , e quell’aristocratico senso del ritmo e dello stile che fanno della sua prosa forse la più bella, luminosa e classica prosa inglese. Vi si sente la nobile armonia di Milton, più stretto e oltraggioso, il sarcasmo di Heine, e, quanto al fervore dialettico nell’approfondire problemi d’arte e di critica, Coleridge. Ma restò sempre lui: e poche prose inglesi hanno un carattere più originale della sua, una distinzione più singolare. Come Blake, come Carlyle, nella sensibilità delicatissima e capricciosa di questo scrittore l’atmosfera drammatica dell’epoca in cui visse si dovette rispecchiare lugubremente e conferire quegli ondeggiamenti alla sua fantasia e quel tono biblico e profetico che hanno talvolta le sue immagini. Nei suoi periodi certi lividi corruscamenti come di pietra funeraria o di mosaico antico, certe voci d’abisso, e ghirlande d’immagini nuvolose, tonanti come attraverso un’apocalisse e certe risate di diabolica ironia che sembrano squillare da un sabba sanculottesco di fuoco e di sangue si placano poi in oasi improvvise di sentimentali tenerezze o in pitture linde e miniate di paesi nordici e di orizzonti silvani o in disegni di belle figure muliebri gravate da catene di ricordi, o d’impetuosa giovinezza, o abbozzi d’ilari caricature swiftiane come balzate dai table-talks d’una cena d’umoristi londinesi.
Conviene accennare a una singolarità dell’arte letteraria di De Quincey. Egli riconosceva soltanto tre generi di prosa degni veramente del nome di arte letteraria: la prosa-eloquente, la prosa-fantasia e poesia, e la prosa-retorica . E per quest’ultima intendeva «l’arte dello stile ricco e ornato, l’arte di giocar d’intelligenza e d’invenzione col proprio soggetto, di non abbandonarlo sinché non fosse sovraccarico il più possibile di pensieri sussidiari, di facezie, di fantasie, d’ornamentazioni e d’aneddoti». Ora giudicato alla stregua di questo criterio, De Quincey appare veramente il più retorico degli scrittori. Non v’è saggio di lui, a qualunque genere appartenga, che non sia più o meno tormentato da questa passione della fioritura e della divagazione. Le sue pagine hanno l’aria di fughe in cui la parte detta divertimento sia così sviluppata da pigliarsi il posto del soggetto e del controsoggetto . Inforcato il suo tema, il poeta sente a ogni tratto la necessità di battere intorno a quello tutti i viottoli anche più insignificanti, di addentrarsi in un ginepraio di questioncelle, pensieri, immagini secondarie: ricreazioni della memoria o sfoghi della sua enorme erudizione. Ed è strano che scrittore tutto gettato nella immaginazione lirica e patetica trovasse opportuno e piacevole questo fare delle sue immagini altrettanti problemi di dialettica o di metafisica spirituale, e di analizzare, sezionare fino a inaridirlo il fiore della fantasia. Per modo che i suoi scritti acquistano talora aspetti di vaniloqui o sembrano degenerare nella chiacchierata intellettuale.
Ma questo contrasto lo si deve, a mio parere, all’indole dello spirito inglese in cui la finezza mistica e sognatrice dell’ispirazione celtica che, massime negli scrittori romantici, forma il fondo della sua natura, viene a contrastare col bisogno dell’evidenza logica, del fatto, della documentazione che vi ha sovrapposto il protestantesimo anglosassone. In De Quincey, poi, l’incongruenza assunse aspetti anche più grandiosi poiché egli era un appassionato studioso dei metafisici tedeschi e della scolastica, e il vezzo dialettico e la compiacenza alla speculazione trascendentale doveva mescolarsi stridendo con la passionalità poetica vagabonda e laghista del suo spirito.
Ho insistito su questo carattere anche per dimostrare che con tutte quelle divagazioni non era poi facile cavare dall’opera di De Quincey intere pagine costruite in unità e pienezza d’armonia. Ed era ancor più difficile farlo in una traduzione, poiché quello che nello scrittore originale è sfogo umoristico o erudito e gli si perdona come una gustosa scappatella in compenso dei momenti di pura poesia ch’egli ci regalerà durante il cammino, in una versione, dove quell’aria di ricreativa gaiezza