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Lo Cunto De Li Cunti
Lo Cunto De Li Cunti
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E-book680 pagine9 ore

Lo Cunto De Li Cunti

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Info su questo ebook

“Sono costernato che questa che considero l’opera più bella del suo secolo e alla quale mi sono dedicato con grande impegno, non incontri l’interesse dei lettori”. Così scriveva in una lettera Benedetto Croce all’editore Laterza a proposito di Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, pubblicato per la prima volta a Napoli tra il 1634 e il 1636. L’opera riscuoterà il meritato successo solo più tardi e oggi, grazie a questa nuova traduzione, possiamo anche noi godere di tutta la sua tracimante bellezza. Si tratta di una raccolta di 50 fiabe popolari in lingua napoletana, destinate a un pubblico adulto, narrate in 5 giorni da 10 diverse oratrici (da cui il nome Pentamerone con cui Lo cunto de li cunti è conosciuto). Racconti fantastici, ai limiti del grottesco, popolati da animali parlanti, fate, orchi, principi e principesse, che in maniera ironica disvelano le fragilità, i vizi e i difetti di una umanità senza confini di spazio e tempo. Un’opera che, riscoperta, dispensa sorrisi e abili stilettate in uno stile unico, fedelissimo all’originale.

Pasquale Buonomo è nato il 23 aprile 1945 ad Alvignano, in provincia di Caserta. Dopo un regolare corso di studi si laurea in materie letterarie presso l’Università di Salerno il 31 luglio 1970; nell’anno 1972 si trasferisce a Bergamo, dove tuttora risiede. Ha svolto la professione di docente di materie letterarie nelle scuole medie, quindi di preside e, dal 2000, di Dirigente Scolastico, fino alla pensione nel 2006. Durante la sua carriera scolastica ha ricoperto ripetutamente l’incarico di presidente di commissione nei Concorsi a Cattedra. Ha svolto anche attività di critico d’arte sulle pagine di LA NOSTRA DOMENICA, settimanale del giornale L’ECO DI BERGAMO. Nel mese di giugno 2018 ha pubblicato con la casa editrice “Albatros” Il Decamerone secondo la nostra lingua.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2020
ISBN9788830627482
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    Anteprima del libro

    Lo Cunto De Li Cunti - Pasquale Buonomo

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2748-2

    I edizione elettronica settembre 2020

    In ricordo dei miei genitori

    Pomifer autumnus fruges effuderit, et mox

    bruma recurrit iners.

    (Orazio)

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione a cura di Aldo Cervo

    Quando nel 1575 nacque Giovan Battista Basile, erano trascorsi appena dodici anni dalla chiusura del Concilio di Trento, per cui la vita del narratore napoletano si svolse tutta intera in piena Controriforma, ovvero in quella stagione della storia dell’Europa Centro-occidentale nella quale il controllo della Chiesa di Roma sugli studi scientifici, sulla stampa in generale e sulla pratica della Fede parrocchia per parrocchia (le visite ad limina), si moltiplicò per mille. Tasso ne uscì depresso, e finì in manicomio; Galilei, per aver visto sotto l’etereo padiglion rotarsi/ più mondi e il sole irradiarli immoto…si salvò dal braccio di San Quintino ritrattando; Giordano Bruno, prima della sedia elettrica, si fece sette anni di carcere; Cartesio invece se ne andò a vivere nella solitudine dei Paesi Bassi, in Olanda, dove all’Inquisizione non era consentito, come in Francia, di interferire con la ricerca scientifica e filosofica; e Machiavelli, … quel grande/ che temprando lo scettro ai regnatori/ gli allor ne sfronda e alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue, dové, in Santa Croce, rivoltarsi nella tomba, quando seppe delle sue opere finite all’indice.

    In siffatto clima del sospetto, che ci poteva essere, per chi intendesse battere i sentieri dell’ars scribendi, di più rassicurante che il rifugiarsi in generi letterari refrattari per natura a veicolare pericolose tematiche contigue alla religione? Di tali generi, senza ombra di dubbio, la favolistica e la fiaba erano quelli che meglio si prestavano a tenere, chi se ne servisse, al riparo da occhiute vigilanze, da accuse di eresia, dal rogo.

    Basile allora, e insieme a lui un po’ tutti gli attori del Barocco letterario, optarono (come spesso è accaduto nella storia quando le cose si mettono male) per una letteratura che oggi diremmo d’evasione. E fu così che tra i lavori più notevoli di quella stagione nacquero, per la prosa, il Pentamerone, e tantissima produzione in versi, le cui stramberie metaforiche, come – per dirne una – quella di Giuseppe Artale: che crin s’è un Tago e son due soli i lumi/ Prodigio tal non rimirò natura:/ bagnaro i soli e rasciugar li fiumi, adottate per vezzo di moda, o per uno sperimentalismo linguistico ante litteram, mandarono in bestia Salvator Rosa.

    Tanto premesso per un quadro generale dell’epoca, noto con piacere che dopo aver rivestito di care, itale note (intendo: dell’italiano contemporaneo) il capolavoro di Giovanni Boccaccio, Pasquale Buonomo, sull’onda dei lusinghieri risultati conseguiti, si cimenta oggi proprio con il Pentamerone. Si cimenta – dicevo – e a buon diritto per due validi motivi, il primo dei quali sta nel disporre di un vasto corredo lessicale, acquisito in anni e anni di dimestichezza con la letteratura dei Grandi, in virtù del quale può permettersi quello che non a tutti riesce: di render cioè il più fedelmente possibile l’umana sensibilità dell’autore tradotto; il secondo sta nell’esser – Buonomo – corregionale del Basile, col quale condivide quella ineguagliabile koinè campana, che da sempre si esalta per effervescenza creativa, briosa e, diciamo anche, inimitabile.

    Lo cunto de li cunti, opera sistemata dall’autore (con qualche variante nella funzione della novella cornice) in una impalcatura boccacciana, ma con dimezzamento, nel numero, di narrazioni affidate al dialetto partenopeo del Seicento (echi del quale ancora si reperiscono nella parlata popolare dell’area compresa tra il medio e basso Volturno a nord e le pendici digradanti dello sterminator Vesevo a meridione), si pone in un filone stilistico che si connota per esser, di favola e fiaba, riuscita fusione, per quanto non privo di venature realistiche di stampo plebeo, che ne fanno (salvo mirate riduzioni per ragazzi) opera destinata – per così dire – a un pubblico adulto. Vi si reperiscono animali parlanti in una con fate, orchi, re; ed ancora prìncipi, principesse, castelli e incantesimi metamorfizzanti. Il tutto quale esito di un confluire di fonti diverse – persino cinesi – arricchite da un apporto fantastico che nel suo tracimare appare talvolta incontrollato, fino a diluire l’efficacia del messaggio moralistico-didascalico che si vuole trasmettere. Del Pentamerone – va detto – tennero conto altri favolisti e scrittori di fiabe, tra i quali sono da ricordare il francese Charles Perrault, il nostro Carlo Gozzi e i fratelli Grimm, tedeschi.

    La riproposizione del lavoro di Basile nella versione dell’italiano moderno, non potrà non riportare, come avvenne già con la traduzione del Croce, all’attenzione della Critica la silloge del novelliere napoletano, dalla vita avventurosa, nelle cui pagine è possibile cogliere, accanto a una esuberante inventio, accostamenti analogici e inediti sintagmi pregnanti di allusive significanze, alcune delle quali auscultabili ancora oggi nelle Voci più autorevoli (penso a Serao, Marotta, Rea, De Filippo etc.) di quella napoletanità popolare cresciuta all’insegna dell’edonè epicurea. Né poteva essere altrimenti nella Terra che diede i natali, ventuno secoli or sono, a Tito Lucrezio Caro, destinato a prodursi in un Inno a Venere (De rerum Natura) di superba bellezza: Genetrix Aeneadum, Hominum Divomque voluptas, alma Venus… per te quoniam omne genus animantum concipitur visitque exortum lumina solis…).

    La presente versione di Pasquale Buonomo si completa di note che chiariscono, a beneficio del lettore, riferimenti della tradizione letteraria classica, e significati di espressioni della vulgata secentesca partenopea dai non addetti ai lavori difficili a decriptarsi.

    Introduzione

    Un proverbio di antico stampo, di quelli più sperimentati, afferma che chi cerca quello che non deve trova quello che non vuole. Infatti la scimmia, che voleva infilarsi gli stivali, rimase intrappolata col piede. Allo stesso modo capitò a una stracciona di schiava che, pur non avendo mai calzato un paio di scarpe, volle mettersi una corona sulla testa. Siccome la mola raddrizza tutte le cose storte, succede che una le paga per tutte. Come successe con una schiava che aveva sottratto con la frode un bene che sarebbe toccato a un altro. Così accadde che finì nella giostra dei calci¹, e quanto più si era rizzata in alto,² tanto più rovinoso risultò il capitombolo, come emerge dal seguito del racconto.

    Si narra che c’era una volta il re di Valle Pelosa con una figlia che si chiamava Zoza. Questa ragazza non rideva mai, somigliando in questo a Zoroastro³ o Eraclito⁴. Perciò il povero padre, che non aveva altra aspirazione che quest’unica figlia, faceva di tutto per vincerne la malinconia. Allora, per procurarle piacere, faceva arrivare ora trampolieri, ora quelli che saltano nel cerchio, giocolieri, qualche volta un cantante, ora dei ginnasti, il cane che balla, Bracone che salta, ora l’asino che beve dal bicchiere, ora il balletto di Lucia canazza⁵, ora una cosa e ora un’altra. Ma era tutto tempo perso, tanto che neppure il toccasana di mastro Grillo⁶ e neanche l’erba sardonica⁷ o una ferita di spada al diaframma le avrebbe fatto digrignare un tantino la bocca. Non sapendo che altro provare, il povero padre, per tentare un ultimo esperimento, ordinò di montare una grande fontana d’olio davanti alla porta del palazzo con lo scopo di stare a guardare le persone che trafficavano come formiche per quella strada. Mentre la fontana schizzava, quelle persone, per non ungersi i vestiti, avrebbero fatto salti da grilli, balzi di capre e corse da lepre. Così, sbattendo l’una contro l’altra, poteva succedere qualcosa per cui Zoza scoppiasse a ridere.

    Dunque, installata questa fontana, mentre la ragazza stava alla finestra tutta compunta che sembrava una conserva di sottaceti, per combinazione arrivò una vecchia che, assorbendo l’olio con una spugna, ne riempiva un orciolo che aveva portato con sé. Mentre era tutta presa da questa occupazione, un certo paggio di corte, diavoletto tentatore, tirò un sassolino con tale precisione che colpì l’orcio e lo ridusse in frantumi.

    A questo punto la vecchia, che non aveva peli sulla lingua e non si faceva mettere sotto da nessuno, si girò verso il paggio e cominciò a inveirgli contro: "Ah farabutto, ragazzino moccicoso, cascamorto, merdoso, piscialetto, salterello di cembalo, straccione, individuo da forca, mulo canzirro⁸! Vedi un po’ che anche le pulci hanno la tosse! Vai e che ti prenda una paralisi e che tua madre senta la mala nuova, che tu non veda il primo di maggio⁹! Vai e beccati un colpo di lancia catalana, che ti venga inferta una strattonata di fune¹⁰, di modo che non si disperda il sangue, che incappi in mille malanni e tutto il resto a più non posso, che si disperda la tua razza, mascalzone, farabutto, pagliaccio, figlio di puttana ingabellata¹¹, mariuolo".

    Il ragazzo, che aveva poca barba e ancor meno prudenza, sentendo questa corposa sfuriata, ripagandola della stessa moneta le ritorse contro: Non vuoi tappare codesta chiavica, nonna di satanasso, vomita-braccini, strangolabambini, cacastracci, cogliscorregge?.

    La vecchia che si sentì riportare le faccende di casa sua, si infuriò talmente che perse la bussola della calma e, sfuggendo dalla stalla della pazienza, sollevò il sipario e mostrò la scena silvestre, dove Silvio poteva dire: "Ite sveglianno gli occhi del corno¹²".

    Quando Zoza vide quella scena le scoppiò una tale risata che stava per svenire.

    La vecchia, vedendosi ben servita, si arrabbiò talmente che si girò verso Zoza con un grugno da far rabbrividire e le disse: Vai, che tu non possa mai vedere lo spuntare di un marito, se non sposi il principe di Campo Rotondo.

    Zoza, sentendo queste parole, fece chiamare la vecchia e volle sapere ad ogni costo se l’avesse ingiuriata o scagliato una maledizione.

    E la vecchia le rispose: Ebbene sappi che questo principe che ti ho nominato è una incantevole persona che si chiama Tadeo che, per la maledizione di una fata, ha portato a termine il corso della sua vita ed è stato sepolto in una tomba fuori delle mura della città. Un epitaffio inciso su una pietra riporta che qualsiasi donna riempia di lacrime una brocca, che si trova proprio lì appesa a un gancio, lo farà ritornare in vita e lo prenderà per marito. Siccome risulta impossibile che due occhi umani possano stillarne tante da riempire un’anfora di cinque litri, dato che mi sono vista derisa e sbeffeggiata da voi, vi ho scagliato contro una maledizione e prego il cielo che vada a segno per vendicarmi dell’offesa che ho subìto. Così dicendo svicolò giù per le scale per paura di qualche solenne bastonatura.

    Ma Zoza, rimuginando le parole della vecchia e nello stesso tempo brontolando, fu presa da uno spirito maligno nella testolina. Su questa vicenda fece un giro di riflessioni al mulino del dubbio e alla fine, trascinata con una slitta da una passione che acceca il giudizio e paralizza il raziocinio dell’uomo, prese una manciata di scudi dalla cassaforte del padre, si allontanò dal palazzo e tanto camminò che arrivò al castello di una fata.

    A lei aprì il suo cuore. Costei, mossa a compassione per una giovane così bella, che i due speroni dell’età e dell’eccessivo amore per una cosa sconosciuta potevano disarcionare da cavallo, le diede una lettera di raccomandazione per sua sorella, anche lei fatata. La mattina successiva, dopo che la Notte fa emanare dagli uccelli il bando con cui promette che ci sarà una buona ricompensa per chi avvista un gregge di ombre nere, che si sono smarrite, la fata le fece molti auguri e le donò una bella noce. Le spiegò: Tieni, figlia mia, tienila cara, ma non aprirla mai se non al momento di grande necessità.

    Con un’altra lettera la raccomandò all’altra sua sorella. Dopo un lungo viaggio, arrivò da questa fata e fu accolta con lo stesso affetto. La mattina seguente le diede un’altra lettera per la terza sorella assieme a una castagna e con il medesimo avvertimento che le era stato indicato con la noce.

    Dopo aver camminato giunse al castello della terza fata che le fece mille carezze. Al momento della partenza le consegnò una nocciola con la solita raccomandazione, cioè di non aprirla mai se non fosse arrivata con l’acqua alla gola.

    Ottenute queste cose, si mise le gambe in spalla, girò tanti paesi e attraversò tanti boschi e fiumare. Di lì a sette anni arrivò quasi trafelata a Campo Rotondo proprio nel momento in cui il Sole, destato dalle trombette dei galli, montò la sella al cavallo per correre nei soliti giri. Qui Zoza, prima di entrare in città, scorse un sarcofago di marmo ai piedi di una fontana che, vedendosi imprigionata in un carcere di porfido, piangeva lacrime di cristallo. La ragazza prelevò la brocca, che vi stava appesa, la sistemò fra le gambe e pianse tanto che, assieme alla fontana, sembravano i due gemelli¹³. Senza mai alzare la testa dall’imboccatura della brocca, in meno di due giorni era arrivata a due dita dal collo e, perciò, mancava pochissimo per riempirla tutta. Ma essendo sfinita per le troppe sofferenze, contro la sua volontà, fu ingannata dal sonno per cui per un paio d’ore fu costretta a ripararsi sotto la tenda delle palpebre.

    In quel frattempo una schiava gamba di grillo¹⁴, che veniva spesso a riempire un barile a quella fontana, e che sapeva la storia dell’epitaffio di cui si parlava dappertutto, come vide Zoza piangere tanto che faceva due rivoli di lacrime, si mise a spiare in attesa che la brocca fosse a buon punto per poi approfittarne e strapparle questa bella occasione, facendola restare con un pugno di mosche in mano.

    Appena la vide addormentata, sfruttando il momento, le sottrasse con destrezza la brocca, ci appoggiò gli occhi sopra e in un attimo la riempì tutta.

    Appena fu colma, il principe, come se si fosse svegliato da un lungo sonno, si sollevò da quella cassa di pietra bianca, si aggrappò a quel cumulo di carne nera e la portò subito al suo palazzo. Dove fece festeggiamenti e luminarie degne di un trono e se la prese per moglie.

    Quando si svegliò, Zoza trovò la brocca vuota, e con la brocca svuotate anche le sue speranze. Poi, quando vide il sarcofago aperto, le si chiuse tanto il cuore che fu a un passo dal disfare i bagagli dell’anima alla dogana della morte.

    Alla fine, resasi conto che ai suoi guai non c’era rimedio e che non poteva crucciarsi se non dei suoi occhi, che avevano custodito male la vitella¹⁵ delle sue speranze, si avviò passo dopo passo verso la città.

    Lì fu informata dei festeggiamenti del principe e di che bella razza di moglie si era preso. Subito immaginò come era andata questa faccenda e, sospirando, disse che due cose nere l’avevano messa nei guai: il sonno e una schiava.

    Comunque, per tentare tutto il possibile contro la Morte, dalla quale ogni animale si difende come può, prese una bella casa dirimpetto al palazzo del principe da dove, non potendo vedere l’idolo del suo cuore, almeno contemplava le mura del tempio dove stava racchiuso il bene desiderato.

    Ma un giorno Tadeo, che volava attorno a quella nera notte della schiava come un pipistrello, la vide e diventò un’aquila nel memorizzare le fattezze di Zoza, le storture dei privilegi della natura, per poi rassegnarsi a rinunciare alla gara di bellezza.

    La schiava si accorse della faccenda e fece cose dell’altro mondo, poi, essendo stata già messa incinta da Tadeo, minacciò il marito dicendo: Se fenestra no levare, me pugni a ventre dare e Giorgetiello maciullare.

    Tadeo, che era tutto premuroso verso la sua discendenza, tremando come un giunco all’idea di darle un dispiacere, si scostò dalla vista di Zoza come l’anima dal corpo.

    Lei si vede sottrarre quel misero sollievo alle sue già deboli speranze. Non sapendo che decisione prendere in questo estremo bisogno, le vennero in mente i doni delle fate. Aprì la noce e ne uscì fuori un nanetto grande come un pupazzetto, la più deliziosa figurina che si fosse mai vista al mondo che, piazzatosi sulla finestra, cantò con tanti trilli, gargarismi e gorgheggi che sembrava compare Biondo, meglio di Pezzillo e superava il Cieco di Potenza¹⁶ e il re degli uccelli.

    La schiava, che per caso lo aveva visto e sentito, se ne incapricciò tanto che chiamò Tadeo e gli disse: Se non avere quella piccinossa che cantare, me pugni a ventre dare e Giorgetiello maciullare.

    Il principe, che si era fatto mettere sulla groppa la sella da Bernaguallà¹⁷, mandò subito a chiedere a Zoza se glielo voleva vendere. Lei rispose che non faceva la commerciante ma, se lo voleva in dono, se lo prendesse pure perché glielo regalava. Tadeo, che smaniava per accontentare la moglie per farle portare a termine la gravidanza, accettò l’offerta.

    Dopo quattro giorni Zoza aprì la castagna e ne venne fuori una chioccia con dodici pulcini d’oro e la mise sulla stessa finestra. La schiava la vide e ne ebbe un tale desiderio che le arrivava fino alla punta dei piedi. Chiamò Tadeo, gli fece vedere quella cosa così bella e gli disse: Se quella chioccia non prendere, me pugni a ventre dare e Giorgetiello maciullare.

    E Tadeo, che si lasciava accalappiare dalle trame e ingannare dalla coda di questa cagna feroce, fece andare di nuovo a chiedere a Zoza quanto pretendeva come prezzo di una così bella chioccia. Lei gli rispose come aveva risposto prima: Che se la prendesse in dono, perché la proposta di venderla era soltanto una perdita di tempo.

    Lui, che non poteva rinunciarci, spinto dalla necessità fece uno strappo alla discrezione, afferrò quel bel boccone, anche se rimase stupefatto dalla generosità di una donna. Infatti le donne per natura sono così avare che non si contenterebbero di tutto l’oro che proviene dalle Indie.

    Passato lo stesso numero di giorni, Zoza aprì la nocciola dalla quale venne fuori una pupattola che filava oro, una cosa veramente strabiliante. Non appena fu posata sulla stessa finestra la schiava, appena l’ebbe adocchiata, chiamò Tadeo e gli disse: Se pupattola no comprare, me pugni a ventre dare e Giorgetiello maciullare.

    E Tadeo, che si lasciava raggirare come la ruota di un arcolaio e tirare per il naso dalla superbia della moglie, da cui si era fatto soggiogare, non ebbe la sfrontatezza di mandare a chiedere la pupattola. Ci volle andare di persona, ricordandosi del detto secondo cui non c’è migliore ambasciatore di se stesso (chi vuole va e chi non vuole manda e chi pesce vuole masticare si deve bagnare la coda). Allora la pregò immensamente di perdonare la propria impertinenza provocata dalle voglie di una donna gravida.

    Zoza, che si beava accanto all’origine dei suoi guai, fece forza su se stessa per lasciarsi strapregare per rallentare la vogata della barca e godere più a lungo della vista del suo signore, che le era stato rubato da una brutta schiava. Alla fine gli consegnò la pupattola come aveva fatto con le altre cose. Però prima di dargliela pregò che quell’oggettino di terracotta suscitasse nel cuore di quella schiava il desiderio di ascoltare racconti.

    Tadeo, che si vide in mano la pupattola, senza sborsare neppure una lira, restò stupefatto di tanta cortesia e le offrì il suo stato e la sua vita in cambio di tante cortesie.

    Tornato a palazzo consegnò la bambola alla moglie che, appena la mise in braccio per godersela, le sembrò Amore nelle sembianze di Ascanio nelle braccia di Didone¹⁸. Così le si accese un tale fuoco nel petto da non poter resistere al cocente desiderio di ascoltare racconti.

    Preoccupata di toccarsi la bocca e perciò di fare un figlio così chiacchierone¹⁹ da ammorbare una nave di straccioni, chiamò il marito e gli disse: Se non venire gente e racconti raccontare, me pugni a ventre dare e Giorgetiello maciullare.

    Tadeo, per togliersi di torno questo tormento di marzo²⁰, fece immediatamente emanare un bando con cui invitava tutte le donne di quel paese a presentarsi il giorno indicato. Alla data stabilita, allo spuntare della stella Diana, che sveglia l’Alba per ornare le strade dove deve passare il Sole, si ritrovarono nel luogo fissato.

    Ma Tadeo, a cui non sembrava conveniente tenere impegnata tanta marmaglia per una soddisfazione particolare della moglie, senza considerare che si sentiva soffocare da tanta folla, ne scelse soltanto dieci, le migliori della città, che gli sembrarono le più capaci ed espressive cioè: Zeza la sciancata, Cecca la storta, Meneca la gozzuta, Tolla la nasona, Popa la gobbona, Antonella la bavosa, Ciulla bocca larga, Paola la strabica, Ciommetella la tignosa e Iacova cacasotto.

    Registrò questi nomi su un documento e allontanò le altre. Le prescelte si alzarono, con la schiava da sotto il baldacchino, e si avviarono pian pianino verso un giardino nello stesso palazzo, dove i rami fronzuti erano così folti che risultavano impenetrabili alla pertica dei raggi del Sole.

    Si sedettero sotto un padiglione coperto da una pergola d’uva, in mezzo al quale scorreva una grande fontana maestra di scuola dei cortigiani, ai quali ogni giorno suggeriva di sparlare.

    A questo punto Tadeo cominciò a dire così: "Al mondo non c’è niente di più desiderabile, mie gran signore, quanto ascoltare i fatti degli altri. Aveva ragione quel gran filosofo²¹ che riconobbe come la più grande felicità dell’uomo consista nell’ascoltare racconti piacevoli, perché ficcando il naso in storie divertenti evaporano gli affanni, si sloggiano i pensieri fastidiosi e si allunga la vita. Per tale desiderio vedi l’artigiano abbandonare il magazzino, il mercante i commerci, gli avvocati le cause, il bottegaio l’attività e tutti vanno a bocca aperta nelle botteghe dei barbieri e nei capannelli dei chiacchieroni ad ascoltare fandonie e annunci campati in aria.

    Perciò devo scusare mia moglie se si è schiaffata in testa questa passione di ascoltare racconti per vincere la malinconia. Quindi, se vi fosse gradito compiacere al massimo le voglie della mia principessa e di colpire al centro dei miei desideri, siate accondiscendenti in questi quattro o cinque giorni, che ancora mancano per sgravidare la pancia. Narrate in ogni giornata un racconto ciascuna, proprio di quelli che le vecchie solitamente raccontano per intrattenere i bambini. Ci si ritrova sempre in questo stesso posto e, dopo aver pranzato, si darà inizio alle narrazioni e si terminerà con qualche egloga che sarà recitata dagli stessi nostri sfrattapanelle²² per trascorrere allegramente la vita e pazienza per chi muore!".

    A queste parole tutte le donne con un cenno della testa accolsero l’ordine di Tadeo. Nel frattempo, arrivata la mangiatoria, si misero a mangiare e quando finirono di inghiottire, il principe diede il segnale a Zeza la sciancata di dar fuoco alle polveri. Lei fece un grande inchino al principe e sua moglie e così cominciò a raccontare.


    1 Un girotondo di bambini con largo uso di calci.

    2 Nel testo sagliuta ‘mperecuoccolo.

    3 Fondatore della religione mazdeista.

    4 Filosofo greco che si mostrava sempre pensieroso.

    5 Lucia canazza: antica tarantella.

    6 Medico famoso.

    7 Erba Euforbia che provoca contrazioni ai muscoli facciali per cui il viso si atteggia a un falso sorriso. Appunto il riso sardonico.

    8 Ibrido di un cavallo e un’asina. Mulo particolarmente inaffidabile e testardo.

    9 Festa popolare particolarmente sentita.

    10 Sottintesa la forca.

    11 Prostituta matricolata che pagava la gabella.

    12 Dal poema Pastor fido (1590) di G.B. Guarini. Allusione ai genitali femminili.

    13 Nel testo i due simili. Si tratta della commedia plautina I Menecmi molto rappresentata a quei tempi. I Menecmi erano due gemelli che sembravano uno la copia dell’altro.

    14 Un modo spregiativo per indicare una schiava dalle gambe sottili.

    15 Ovidio, nelle Metamorfosi racconta della giovenca rubata da Mercurio ad Argo, il cane dai cento occhi.

    16 Nomi di famosi cantanti del tempo.

    17 Dispregiativo di schiava moresca.

    18 Dall’Eneide di Virgilio. Venere mandò il figlio Eros/Amore, sotto le sembianze di Ascanio da Didone, per farla innamorare di Enea.

    19 Come da credenza popolare.

    20 Mese particolarmente tormentoso.

    21 Non si specifica quale.

    22 Ci riferisce alla consuetudine dei signori di fornire il pane ai servitori.

    Il racconto dell’orco

    Primo intrattenimento della prima giornata

    Antuono di Marigliano, siccome era il portabandiera degli scemi, fu cacciato di casa dalla madre e allora si mise al servizio di un orco. Ogni volta che Antuono voleva tornare a vedere la propria famiglia questi gli faceva regali. E puntualmente Antuono si lasciava infinocchiare dal taverniere. Alla fine l’orco gli fornì un bastone che castigò la sua stupidità, arricchì la sua famiglia e punì l’oste per la sua malvagità.

    Chi ha affermato che la fortuna è cieca era più informato di mastro Lanza²³ (vada a quel paese!), perché dà veramente botte da orbi, solleva di grado gente che non scacceresti da un campo di fave e atterra persone che, come vi racconterò, sono il fiore degli uomini.

    Si racconta che c’era una volta nel paese di Marigliano una donna di buona famiglia che si chiamava Masella. Oltre a sei figlie zitelle, sciacquette che assomigliavano a sei pertiche, aveva un figlio maschio così ottuso (campa cavallo che l’erba cresce!) che non era buono neppure a giocare a palle di neve; tanto che se ne stava come una scrofa che porta una mordacchia di legno in bocca e non passava giorno che lei non lo rimproverasse: Che ci fai in questa casa? maledetto il pane che mangi! Sparisci buono a niente, sgombera maccabeo, sprofonda portaguai, togliti dai piedi scola-castagna, tu che mi sei stato sostituito nella culla in cambio di un bel frugoletto, di un bambolotto paffutello. Al suo posto ci hanno messo un maialone pappalasagna.

    Però, nonostante tutto, Masella parlava e lui se ne infischiava.

    Resasi conto che non c’era speranza che Antuono (così si chiamava il figlio) mettesse la testa a posto, un giorno come un altro, dopo avergli fatto senza sapone una buona lavata di testa, afferrò un mattarello e cominciò a prendergli la misura del vestito.

    Antuono, che neppure se lo immaginava, si vide bastonare, pettinare e foderare.

    Appena potè scapparle di mano, girò i calcagni e tanto camminò finchè verso le 24 ore, quando per le botteghe di Cinzia si cominciavano a illuminare le lucerne, arrivò ai pendii di una montagna così alta che giocava a scontrarsi contro le nuvole. Là, sopra una grossa radice di pioppo, ai piedi di una grotta lavorata di pietra pomice, ci stava seduto un orco (mamma mia quanto era brutto!).

    Era nano, secco come uno vincastro da paniere, aveva la testa più grossa di una zucca indiana, la fronte bitorzoluta, gli occhi strabici, le sopracciglia attaccate, il naso ammaccato con due froge, che sembravano due grandi fogne, una bocca grande quanto una palmento²⁴ da cui uscivano due zanne, che arrivavano fino ai malleoli, il petto peloso, le braccia di aspo²⁵, le gambe ad arco come la volta di un soffitto, i piedi piatti come una papera. Insomma sembrava uno spirito maligno, un diavolaccio, un brutto pezzente, un fantasma che avrebbe fatto rabbrividire un Orlando, atterrire uno Scannarebecco²⁶ e impallidire un campione della scherma.

    Ma Antuono, che non si lasciava smuovere nemmeno da un colpo di fionda, fece un inchino e gli si rivolse dicendo: Dio sia con te, come va? Come stai? Vuoi niente? Quanto manca da qui per raggiungere il posto dove devo andare?.

    L’orco, che stette a sentire questo discorso strampalato, si mise a ridere e, siccome gli era piaciuta l’indole della bestia, gli chiese: Vuoi stare a servizio?. Antuono ribatté: Quanto vuoi al mese?.

    E l’orco rispose: Comportati bene, servimi onoratamente e andremo d’accordo e avrai vita facile.

    Perciò, concluso questo patto, Antuono restò al servizio dell’orco, dove il cibo era così abbondante da sbrodolarsi e per il lavoro si stava che era una delizia.

    Per questa ragione Antuono in quattro giorni si fece obeso come un turco, rotondo come un bue, tronfio come un gallo, rosso come un gambero, verde come l’aglio e corpulento come una balena, cosi tracagnotto e grasso che gli si chiudevano gli occhi e quasi non ci vedeva più.

    Ma, trascorsi due anni, infastidito dal grasso, gli venne lo sfizio e la grande voglia di dare una sbirciatina a Pascarola e, mentre pensava alla sua casetta, era tornato quasi come prima. L’orco, che vedeva i suoi intestini e a naso avvertiva il fruscìo del deretano, che lo faceva stare come davanti a un piatto mal servito, lo chiamò in disparte e gli disse: "Antuono mio, io so che tu hai un bruciante desiderio di vedere i tuoi parenti. Perciò, siccome ti voglio bene quanto le mie viscere, mi sembra giusto che tu ci faccia una visita e ti prenda questa soddisfazione. Prenditi quest’asino che ti solleverà dalla fatica del viaggio. Ma fai attenzione a non dirgli mai arri cacaoro perché te ne pentiresti, quant’è vera l’anima di mio nonno".

    Antuono si prese l’asino e, senza neppure dire buona sera, gli montò in groppa e si mise a trottare. Non aveva fatto neanche un centinaio di passi che scese dal somaro e cominciò a dire: Arri, cacaoro.

    Appena aprì la bocca, l’asinello cominciò a evacuare perle, rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti, ognuno grosso quanto una noce.

    Antuono, con tanto di bocca aperta, attento a quegli splendidi svuotamenti di corpo, alle magnifiche espulsioni e alle ricche dissenterie dell’asinello, tutto contento riempì uno zaino con quei gioielli. Poi ricominciò a cavalcare di buon passo fino a quando arrivò a una taverna. Qui scese a terra e la prima cosa che disse all’oste fu: "Lega quest’asino alla mangiatoia, fallo mangiar bene e non dire mai arri cacaoro, se non vuoi pentirtene, e poi conservami queste cosette in qualche posto sicuro".

    Il taverniere, che era uno che la sapeva lunga²⁷, un uomo scaltro e malizioso, sentita questa strampalata raccomandazione ed esaminati i gioielli che valevano tantissimo, gli venne la curiosità di verificare cosa volessero dire quelle parole. Perciò gli servì un ottimo pranzo, lo fece tracannare in abbondanza, poi lo fece imbacuccare fra un saccone e una coperta di panno grosso. Quando lo vide addormentato e che russava a tutta forza, corse nella stalla e disse all’asino: Arri, cacaoro. La bestia, con lo stimolo di queste parole, fece la solita operazione spillando dal corpo evacuazioni d’oro e diarree di gioielli.

    Il taverniere, vista questa deiezione così preziosa, pensò di scambiare l’asino e truffare quel semplicione di Antuono, convinto che fosse facile accecare, sgomentare, irretire, ingannare, imbrogliare, infinocchiare, raggirare, dare a vedere lucciole per lanterne a un maialone rincitrullito, babbeo, pecorone, boccalone come quello lì che gli era capitato fra le mani.

    Perciò quando la mattina Antuono si svegliò, nel momento in cui l’Aurora esce a vuotare alla finestra d’Oriente il vaso da notte pieno di arenella rossa del suo vecchio amante²⁸, si stropicciò gli occhi con le mani, si stiracchiò per mezz’ora e fatto una sessantina di sbadigli e peti a ripetizione, chiamò il taverniere e gli disse: Vieni qua, compare, conti spesso e amicizia lunga, restiamo amici e lasciamo le liti alle borse: fammi il conto e fatti pagare.

    E così, conteggiato tanto per il pane, tanto per il vino, questo per la minestra, quello per la carne, cinque per lo stallaggio, dieci per il letto e quindici di mancia, sborsò il denaro e si prese l’asino sbagliato con un sacchetto di pietra pomice, in cambio delle pietre da anello. Poi trottò verso il casale.

    Prima di mettere il piede in casa cominciò a gridare come se fosse stato ustionato dalle ortiche: Corri, mamma, corri perché siamo ricchi, sistema le tovaglie, stendi le lenzuola, spiega le coperte perché vedrai tesori.

    La mamma, tutta contenta, aprì un baule dove era riposto il corredo delle figlie da marito, tirò fuori le lenzuola, così fini che volavano con un soffio, tovaglie profumate di bucato, coperte che ti abbagliavano in faccia e ne fece una bella mostra per terra. Antuono ci mise sopra l’asino e incominciò a intonare: Arri, cacaoro. Ma l’asino, senza curarsi dello Arri cacaoro, teneva verso queste parole la stessa considerazione del suono della lira²⁹.

    Nonostante tutto Antuono replicò tre o quattro volte queste frasi ma era come parlare al vento. Allora afferrò un nerbo e cominciò a tormentare la povera bestia e tanto pestò, bastonò e picchiò lo sfortunato animale che non si trattenne e fece una bella evacuazione gialla sopra i panni bianchi.

    La povera Masella, che vide questo alleggerimento di corpo, là dove contava di sconfiggere la sua povertà, si trovò davanti una ricchezza così generosa da ammorbarle tutta la casa. Allora prese un bastone e, senza dargli neppure il tempo di mostrarle la pomice, gli fece una buona ricucita. E fu così che Antuono subito se la svignò dall’orco.

    Quest’ultimo, vedendolo arrivare più di trotto che di passo, siccome aveva poteri magici, sapeva quello che gli era successo per cui gli fece una solenne lavata di testa, visto che si era lasciato imbrogliare da un taverniere. Lo chiamò buono a nulla, mamma-mia-imboccami, sciocco, bestia, rudere in rovina, pezzo di ignorante, scola-castagne, babbeo, scimunito, rincoglionito che, per un asino prodigo di tesori, si era fatto rifilare un animale generoso di mozzarelle irrancidite.

    Antuono inghiottì questa pillola e giurò che mai più, mai più si sarebbe lasciato imbrogliare o prendere in giro da uomo vivente.

    Ma non passò un altro anno che gli tornò lo stesso dolore di testa e cominciò a struggersi dal desiderio di rivedere la propria famiglia.

    L’orco che era brutto di faccia e bello di cuore, mentre gli dava il permesso gli regalò un bel tovagliolo dicendogli: "Porta questo a tua madre, ma stai attento a non ripetere quello che facesti con l’asino e finché non arrivi a casa tua non dire né apriti chiuditi tovagliolo perché, se ti succede qualche altra disgrazia, peggio per te. Ora va’, tanti auguri e torna presto".

    E così Antuono partì ma subito, poco lontano dalla grotta, stese il tovagliolo a terra e disse: apriti e chiuditi tovagliolo. Nell’aprirsi ci vide tante insuperabili bellezze, tanto splendore, tante preziosità che era una cosa incredibile.

    Nel vedere tutte queste meraviglie Antuono subito disse: Chiuditi tovagliolo. Dopo averci custodito tutto dentro filò dritto alla stessa taverna. Entrando ordinò all’oste: "Tié, conservami questo tovagliolo e ti raccomando di non pronunciare apriti e chiuditi tovagliolo.

    Il taverniere, che era un furbo di tre cotte, replicò: Lascia fare a me. Poi gli diede da mangiare bene e, facendogli afferrare la scimmia per la coda³⁰, lo mandò a dormire. Intanto l’oste si prese il tovagliolo e disse: Apriti tovagliolo e, aprendosi, cacciò fuori tanti preziosi che fu una meraviglia da vedere. Perciò, trovato un altro tovagliolo simile a quello, appena Antuono si fu svegliato glielo rifilò.

    Antuono, camminando di buon passo, arrivò alla casa di sua madre e le disse: Ora sì che daremo un calcio in faccia alle privazioni, ora sì che mettiamo rimedio agli stracci, ai cenci e alle toppe.

    Detto questo, stese il tovagliolo in terra e cominciò a dire: Apriti tovagliolo. Ma poteva dirlo da oggi a domani che era tutto tempo perso e non ne ricavava niente e neanche briciole.

    Perciò, visto che l’affare andava contropelo, disse alla mamma: Ben mi sta, perché l’oste mi ha fregato un’altra volta! Ma occhio, io e lui siamo due! Meglio per lui se non fosse mai nato! Meglio se fosse finito sotto una ruota di un carro! Che io possa perdere il miglior mobile di casa mia se quando passo da quella taverna non gli riduco in briciole le sue stoviglie per ripagarmi dei gioielli e dell’asino rubato!.

    La madre resasi conto di questa nuova somaraggine, tutta presa dall’ira sbottò: Rompiti l’osso del collo, figlio scomunicato, rompiti le ossa della spalla, sparisci, perché io vedo le mie budella e non ti posso più digerire, tanto che mi si gonfia l’ernia, mi cresce il gozzo ogni volta che mi vieni tra i piedi. Smettila subito e fa che per te questa casa sia come fuoco, perché di te me ne scuoto i panni e faccio conto di non averti mai cacato.

    Il povero Antonio, che aveva visto il lampo, non volle aspettare il tuono e come se avesse rubato il bucato, abbassando la testa e sollevando i tacchi, galoppò nella direzione dell’orco.

    Lui, vedendolo arrivare moscio, depresso e scoraggiato, gli fece un’altra rintronata di cembalo aggredendolo: "Non so chi mi tiene dal cavarti un occhio, gola puzzolente, bocca petonica, carne fradicia, culo di gallina, chiacchierone, trombetta da banditore della Vicaria, che mette in piazza ogni cosa, che vomita tutto quello che ha in corpo e non riesce a trattenere neppure un cece. Se tu alla taverna fossi stato zitto non sarebbe successo quello che poi ti è accaduto, ma per servirti della lingua come un taccariello da mulino³¹ hai macinato la felicità che ti era pervenuta da questa mano".

    Il povero Antuono mise la coda fra le gambe, si sciroppò questa suonata e restò per tre anni tranquillo al servizio dell’orco e pensava alla sua casa come avrebbe pensato di diventare conte.

    Nonostante tutto, alla fine di questo periodo, gli ritornò la solita febbre con il capriccio di fare un giro fino a casa sua e perciò chiese il permesso all’orco che, per togliersi di torno questa seccatura, fu ben lieto di lasciarlo partire. Gli consegnò una bella mazza decorata e gli raccomandò: "Portati questa per mio ricordo, ma stai attento a non dire alzati mazza coricati mazza perché io non voglio avere niente da spartire con te".

    Antuono, prendendola, rispose: Stai tranquillo che ho messo il dente del giudizio e so quante paia fanno tre buoi! Non sono più un bambino piccolo e chi vuole abbindolare Antuono si vuole baciare il gomito.

    Allora l’orco gli rispose: È l’opera che loda il maestro; le parole sono femmine e i fatti sono maschi, staremo a vedere. Tu mi hai sentito meglio di un sordo. Uomo avvisato è mezzo salvato.

    Mentre l’orco continuava a parlare Antuono se la svignò verso casa sua. Ma non si allontanò di mezzo miglio che disse alzati mazza.

    Ma queste non erano soltanto parole ma una formula magica. Infatti subito la mazza, come se avesse avuto dentro il midollo scazzamauriello³², cominciò a lavorare di tornio sulle spalle dello sfortunato Antuono, come se piovessero bastonate a cielo aperto e a ogni colpo ne seguiva un altro. Il poveretto, che si vide pesato e conciato come pelle di Cordova, subito pronunciò coricati mazza e così la mazza smise di fargli contrappunti sopra la schiena. Perciò, istruito a sue spese, annunciò: Sia zoppo chi fugge, giuro che stavolta non gliela farò passare liscia! Ancora non è andato a letto chi deve avere la mala sera.

    Così dicendo arrivò alla solita taverna, dove fu ricevuto con la più grande accoglienza del mondo perché l’oste sapeva quale sugo produceva quel cotechino.

    Appena Antuono fu arrivato subito disse all’oste: "Tieni conservami questa mazza, ma attenzione a non pronunciare alzati mazza se non vuoi passare un brutto quarto d’ora! Stai attento e poi non ti lamentare più di Antuono perché io me ne lavo le mani".

    Il taverniere, tutto contento per questa terza fortuna, lo abbuffò di minestra e gli fece vedere il fondo del boccale poi, dopo averlo buttato su un lettino, corse ad afferrare la mazza e chiamò anche la moglie per godersi la festa. Disse Alzati mazza e quella cominciò a raddrizzare le ossa ai tavernieri e tuffete di qua e tiffete di là, gli fece un’andata e ritorno di tutto rispetto tanto che, trovandosi a mal partito, corsero, sempre inseguiti da quella calamità, a svegliare Antuono chiedendo misericordia. Lui, vedendosi cadere il formaggio sui maccheroni e i broccoli nel lardo, commentò: Non c’è niente da fare, voi morirete crepati per le bastonate, se non mi restituite le mie cose. E l’oste, che era tutto livido, gridò: Pigliati tutto quello che ho e toglimi queste carezze dalle spalle!. E per meglio convincere Antuono fece arrivare tutto quello che gli aveva razziato.

    Lui, come ebbe la sua roba tra le mani, pronunciò coricati mazza e quella si accucciò in un angolo. Poi prese l’asino e le altre cose e se ne andò a casa della madre, fece una esibizione degna di un re con il culo dell’asino, un controllo sicuro sul tovagliolo, si fece una buona provvista di soldi, maritò le sorelle, arricchì la madre e avvalorò il detto:

    I pazzi e i bambini Dio li aiuta


    23 Cantastorie.

    24 Ampia vasca utilizzata per la fermentazione del mosto.

    25 Bastone affusolato per avvolgere il filo in matassa.

    26 Storpiatura dialettale di Skanderbeg: eroe nazionale albanese esaltato per il suo coraggio.

    27 Nell’originale de li quattro dell’arte. Erano i quattro consoli a capo delle corporazioni arti e mestieri.

    28 Nella mitologia il vecchissimo Titone. Secondo il mito l’Aurora chiese e ottenne l’immortalità per il suo amante ma dimenticò di chiedere per lui l’eterna giovinezza.

    29 Come da favola di Fedro. Non tenere in nessuna considerazione.

    30 Notoriamente le scimmie esibite negli spettacoli erano scimpanzé, prive di coda. Perciò lo imbrogliava.

    31 Barretta che si metteva tra i denti per impedire di parlare. In senso figurato: mormorare, parlare a vanvera.

    32 Diavoletto maligno.

    La mortella

    Secondo intrattenimento della prima giornata

    Una campagnola di Miano partorisce una mortella. Un principe se ne innamora ed essa si trasforma in una bellissima fata. Lui parte e la lascia nella pianta di mortella con un campanello attaccato.

    Entrano nella camera del principe certe donnacce gelose di lui. Toccano la mortella, ne esce fuori la fata e la uccidono. Quando torna il Principe trova questo scempio per cui vuole morire per il dolore. Ma per uno strano evento ritrova la fata e la prende per moglie, dopo aver fatto morire le cortigiane.

    Non si sentiva fiatare nessuno mentre Zeza continuava a parlare. Ma dopo che ebbe messo fine al suo racconto si sentì un grande chiacchiericcio e non si interrompevano i commenti di meraviglia sulle deiezioni dell’asino e della mazza magica. Furono tutti d’accordo nel dire che se ci fosse stata una selva di queste mazze più di quattro mariuoli non suonerebbero più il cembalo³³ e più di altri quattro metterebbero la testa a posto e non si troverebbero al tempo d’oggi più asini che bagagli.

    Dopo qualche discussione su questo tema, il signore ordinò a Cecca di continuare la serie dei racconti e lei parlò così: "Se l’uomo pensasse a quanti danni, quante rovine, quante distruzioni succedono per colpa di quelle maledette femmine del mondo, starebbe più attento a scansare i passi di una donna disonesta piuttosto che la vista di un serpente e non sciuperebbe l’onore per una feccia di bordello, non metterebbe in pericolo la vita in un ospedale per colpa delle malattie e tutte le sue ricchezze per una

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