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Scrivere una sceneggiatura: Dalla teoria al film
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Scrivere una sceneggiatura: Dalla teoria al film
E-book315 pagine3 ore

Scrivere una sceneggiatura: Dalla teoria al film

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"Avevo iniziato a scrivere storie come autodidatta: ho comprato i manuali di sceneggiatura di Massimo Moscati in libreria" Paolo Sorrentino

Un bravo sceneggiatore per il cinema deve, al di là della sua naturale intuizione, affiancare una precisa conoscenza delle regole alla base della scrittura cinematografica: deve acquisire il "mestiere".

Questo manuale, quindi, intende aiutare l'esordiente sceneggiatore a districarsi in un settore difficile e pieno di insidie.

Non si rivolge ai cinéphiles, agli studiosi di teoria del cinema, ma a giovani sceneggiatori non necessariamente dotati di una cultura cinematografica specifica e vuole essere un utile strumento per i molti che vogliono avvicinarsi alla scrittura cinematografica con quell'adeguata professionalità che, in definitiva, è l'unico mezzo a disposizione per cercare di farsi notare.

Ma una considerazione, che riguarda l’esordiente, è inevitabile: se non ha le ali, questo libro non potrà mai costruirgliele.

LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2021
ISBN9788869347986
Scrivere una sceneggiatura: Dalla teoria al film
Autore

Massimo Moscati

Massimo Moscati,  giornalista e sceneggiatore, ha scritto numerosi libri sul cinema fra i quali: Manuale di sceneggiatura (Mondadori), Ammazza che fusto (Rizzoli, scritto con Alberto Sordi), Il monumentale Grande dizionario dei film (Hobby&Work), Filmania-Enciclopedia multimediale del cinema (Expert System), Introduzione al cinema (Lattes), Benignaccio con te la vita è bella (Rizzoli-Bur) e il libro-intervista collettivo Bollicine di futuro (Rizzoli-Bur). Creatore della serie mondadoriana Nero italiano, ha pubblicato inoltre Guida al cinema dell'orrore (Il Formichiere), Western all’italiana (Pan), I predatori del sogno (Dedalo), James Bond-Missione successo (Dedalo), Breve storia del cinema (Bompiani). Di prossima uscita: Manuale di sceneggiatura e Totò ’50 (Bibliotheka).  

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    Scrivere una sceneggiatura - Massimo Moscati

    Massimo Moscati

    Scrivere una sceneggiatura

    Dalla teoria al film

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, settembre 2021

    e-Isbn 9788869347986

    Progetto grafico e disegno di copertina:

    Riccardo Brozzolo

    Massimo Moscati

    Massimo Moscati, giornalista, direttore editoriale, ha scritto numerosi libri sul cinema fra i quali: La fantacoscienza - Il cinema di fantascienza dopo il 1968 (WoW), Guida al cinema dell’orrore (Il Formichiere), Western all’italiana (Pan), I predatori del sogno (Dedalo), James Bond-Missione successo (Dedalo), Manuale di sceneggiatura (Mondadori), Ammazza che fusto (con Alberto Sordi - Rizzoli), il monumentale Grande dizionario dei film (Hobby&Work), Filmania-Enciclopedia multimediale del cinema (Expert System), Breve storia del cinema (Bompiani), Introduzione al cinema (Lattes), Benignaccio con te la vita è bella (Rizzoli-Bur), Scrivere un romanzo (Bibliotheka). 

    È stato script-analyst di Reteitalia (per Carlo Bernasconi), creatore della serie mondadoriana Nero italiano, cura la collana di saggi Cinema del 900 (Bibliotheka)

    Ha esordito in narrativa con 1958-C’era una volta in Almeria (Golem).

    Avevo iniziato a scrivere storie come autodidatta:ho comprato i manuali di sceneggiatura di Massimo Moscati

    Paolo Sorrentino

    Da: Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon, 1976) di Elia Kazan.

    Sceneggiatura di Harold Pinter, con Robert De Niro nella parte di Monroe Stahr.

    STAHR (dirigendosi verso la biblioteca in un angolo della stanza): Supponga di essere nel suo ufficio, si è battuto in duello per tutta la giornata (agita le braccia), è sfinito…

    (Si lascia cadere su una sedia. Su Boxley che lo guarda, interdetto. Su Stahr seduto, sprofondato sul tavolo. Si rialza.)

    Questo è lei. (Tendendo un dito verso la porta.) C’è una donna alla porta. (Si alza, attraversa la stanza, esce, sbatte la porta, rientra di soppiatto, richiude la porta, si arresta. A voce bassa.) Entra e non la vede. (Si dirige alla scrivania.) Si toglie i guanti (compie i gesti di una donna che si toglie i guanti). Apre la borsa e la vuota sul tavolo (stessi gesti). Lei (indicando Boxley) la guarda. (Attraversa di nuovo la stanza, seguito dagli sguardi degli altri tre sbalorditi, e si risiede.) Questo è lei (si copre metà viso con una mano, poi si alza bruscamente e ritorna alla sua scrivania). Adesso… la donna ha due centesimi, dei fiammiferi e un nichelino (brandisce una moneta). Lascia il nichelino sul tavolo. Rimette i due centesimi dentro la borsa (finge di far cadere le monete in una borsetta). Poi prende i guanti, sono neri (riattraversa la stanza, si rannicchia). Li mette nella stufa. Accende un fiammifero (fa il gesto).

    A un tratto… il telefono suona…

    (Piano flash su Boxley che si aggrappa ai braccioli della poltrona.) Alza il ricevitore (fa il gesto), ascolta, dice: «Non ho mai avuto un paio di guanti neri in vita mia» (riattacca). Riattacca, si inginocchia vicino alla stufa, accende un altro fiammifero (stessi gesti). Improvvisamente lei si accorge che c’è un altro uomo nella stanza! (Stahr punta un dito verso la porta. Boxley si volta, fissando.) Un uomo che sta osservando ogni mossa che fa la donna.

    (Egli è contro la porta, arretra, passa davanti a Boxley a passi furtivi e va tranquillamente a risedersi alla sua scrivania. Boxley stupito, gli altri interessati lo guardano. Ride. Scambio di sguardi tra i quattro. Silenzio.)

    BOXLEY (con un’aria di disagio): Che succede poi?

    STAHR (le braccia aperte): Mah! Non lo so! Stavo solo facendo del cinema.

    BOXLEY: Il nichelino a che serviva?

    STAHR (alla sceneggiatrice): Jenny, tu sai a che serviva?

    JANE (sorridendo): Serviva a fare del cinema.

    BOXLEY (umiliato): Ma cosa mi paga a fare?

    (Flash su Stahr che si gratta le unghie con un’aria distaccata.)

    Queste strane storie non le capisco.

    STAHR: E invece sì. Se no non mi avrebbe chiesto del nichelino!

    (Fa finta di buttargli la moneta. Boxley fa il gesto di afferrarla. Stahr gli fa vedere che ce l’ha sempre in mano. Sorride.)

    Lo sceneggiatore dai nickelodeon a Netflix

    Scrivere una sceneggiatura, aggiornamento e rielaborazione del mio precedente Manuale di sceneggiatura (Mondadori, 1989/1995), appare in un momento particolarmente delicato per la professione. Per quanto nessuno metta più in secondo piano il ruolo dello sceneggiatore, di fatto è comune opinione (almeno a livello di massa) che nel cinema a fare la differenza sia il talento del regista. In fondo, è il retaggio della politica degli autori tanto cara negli anni ’50 ai Cahiers du Cinéma (Truffaut, Chabrol, Resnais…), che ha riverberato i suoi effetti per molti anni a seguire.

    Una svalutazione critica non assecondata dagli addetti ai lavori – che riconoscevano l’importanza della scrittura nella creazione filmica – , ma che comunque creò evidenti disarmonie economiche: lo sceneggiatore costava molto meno del regista.

    Chi non ricorda Viale del tramonto (Sunset Boulevard,1950), diretto da Billy Wilder, che lo ha scritto a quattro mani con Charles Brackett? Negli uffici della Paramount, simbolo dello studio system degli anni d’oro, gli sceneggiatori erano semplici impiegati, travet dell’orario fisso e del cartellino.

    Ci ritornerò più in dettaglio, ma mi piace anticipare come già durante la Prima guerra mondiale il cinema americano individui nella sceneggiatura l’elemento cardine – se non primario – dell’intero meccanismo produttivo che ruota intorno al film. Spesso venivano ingaggiati giornalisti, ritenuti i migliori professionisti della scrittura in circolazione, con il compito di stendere copioni dettagliati in grado di trasformarsi in preziosi strumenti per la pre-produzione. La realizzazione di sceneggiature si trasforma in un’attività in serie, perlopiù affidata a personale femminile: sceneggiatrici donne che non abbandonano le loro creazioni fino all’ultimo ciak, rimanendo presenti sul set per ogni necessità o correzione dell’ultimo minuto. In questo particolare momento storico i registi sono solo esecutori: spesso le sceneggiatrici hanno un tale potere che determinano il casting e selezionano i registi stessi. Ma intorno ai primi anni ’30, con l’affermarsi del sonoro, la necessità di doversi dotare di testi ben scritti e, soprattutto, provvisti di dialoghi ben strutturati convincono lo studio system a ricorrere a professionisti della scrittura (letterati o di estrazione teatrale) e di archiviare l’esperienza delle sceneggiatrici.

    E dato che gli studios investono fortune sulla scrittura, e che il meccanismo non può incepparsi, nascono i Writers Building organizzati come uffici da catena di montaggio, condizionati da ferrei orari lavorativi, che sfornano sceneggiature a ripetizione.

    È la Hollywood che conosciamo, appena ricordata con Viale del tramonto, che celebra le gesta di produttori del calibro di Louis B. Mayer e Irving Thalberg (che inaugurarono la prassi di coinvolgere più scrittori su una stessa sceneggiatura) o di Darryl F. Zanuck, ras della 20th Century Fox che dava molta importanza alla scrittura. Indubbiamente in contrapposizione con Jack Warner, che considerava gli sceneggiatori cretini presuntuosi con la macchina da scrivere, e non si faceva scrupoli nel riciclare più volte (in film differenti) le storie che commissionava.

    In breve, salvo rare eccezioni (Ben Hecht, Dudley Nichols…), gli sceneggiatori sono a contratto con gli studios e rappresentano – nel meccanismo industriale – solo una pedina all’interno di una scacchiera fortemente irreggimentata. Ma una pedina essenziale per vincere la partita, e per questo ben remunerati.

    Non sono comunque coinvolti sul set, che anzi viene loro precluso. E non hanno nessun controllo sulla loro creazione. Un contesto frustrante che porterà alla nascita di un vero e proprio sindacato, lo Screen Writers Guild, che cercherà di introdurre maggiori tutele nella professione. E non saranno pochi coloro che, per meglio proteggersi creativamente, si trasformeranno in registi.

    Ma con l’avvento della Tv, lo studio system entra in crisi: nella seconda metà degli anni ’50 gli spettatori diminuiscono significativamente, la Corte Suprema penalizza le major perché considerate monopoliste, molte realtà produttive falliscono o si ridimensionano. È l’avvento degli indipendenti e di un modo diverso di concepire l’aspetto creativo. Nasce la figura del regista-sceneggiatore, particolarmente distintivo del cinema d’autore europeo.

    Nel cinema statunitense è la stagione di autori assurti a simbolo di una nuova stagione, come Stanley Kubrick, Francis Ford Coppola, Woody Allen, Martin Scorsese, Steven Spielberg.

    Artisti che, se non sempre sono sceneggiatori puri, lavorano a stretto e costante contatto con lo sceneggiatore. Senza naturalmente dimenticare l’antesignano di tutti: Alfred Hitchcock. Pur non avendo mai scritto una riga dei suoi film, non può non esserne definito il creativo assoluto.

    Autori che avevano il controllo totale del testo, che modificavano in qualunque momento se l’ispirazione mutava durante le riprese.

    E così, in questo veloce ed ellittico tragitto, si arriva a sceneggiatori-registi del calibro di M. Night Shyamalan o Quentin Tarantino.

    In Mank (id., 2020), vincitore dell’Oscar, viene descritto come realmente nacque Quarto potere (Citizen Kane, 1941), sceneggiato da Herman J. Mankiewicz, ma per la gloria totalmente attribuito al suo regista Orson Welles.

    Mankiewicz approdò a Hollywood negli anni ’20, dopo una rispettata attività di critico per il New Yorker e il New York Times. Sembra ormai accertato che fu l’unico autore di Citizen Kane, anche in virtù della sua personale conoscenza con il miliardario William Randolph Hearst (cui si ispira, come è noto, il personaggio principale del film). E, nonostante le interferenze di Welles, Mank ottenne dalla RKO di poter condividere il credito come sceneggiatore nei titoli.

    Fu Pauline Kael, nel 1971, a ribaltare la politique des auteurs con un saggio che restituisce a Mankiewicz la centralità creativa di Citizen Kane, fino ad allora riconosciuta esclusivamente a Welles. Poi verrà il turno di Ben Hecht, al quale il critico Richard Corliss restituirà i giusti meriti creativi di sceneggiatore. In seguito sarà un fiume in piena di rivalutazioni. E di precisazioni e messe a punto: gli stessi sceneggiatori, spesso, sono la sintesi di un’attività corale tra soggettisti, adattatori e dialoghisti. A volte una vera e propria folla, che nei crediti non compare. Evidente che il concetto di autorialità si fa sfumato.

    All’interno del film, diretto da David Fincher da uno script di suo padre Jack (caporedattore di Life, e sceneggiatore di secondo piano a Hollywood), c’è l’essenza di un’intera industria espressa da una frase attribuita a Louis B. Mayer: «Questa è un’attività in cui l’acquirente con i suoi soldi non ottiene altro che un ricordo. Quello che compra appartiene ancora a chi gliel’ha venduto. È questa la vera magia del cinema». Una sintesi precisa sulla valenza economica e le modalità produttive dell’industria cinematografica. Che rilancia il quesito non troppo banale: di chi è la sceneggiatura di un film?

    Di chi l’ha prodotto? Di chi l’ha acquistato (lo spettatore)? O di chi l’ha scritto?

    Se ci concentriamo sull’Italia la situazione attuale della professione è controversa. Pupi Avati può permettersi di non essere diplomatico: "Il cinema italiano in realtà è gravemente malato. Ha il virus della cattiva scrittura. Buoni attori, registi, operatori non mancano, ma non abbiamo più i migliori sceneggiatori del mondo. Inoltre una volta facevamo tutti i generi. Oggi è solo commedia. Anzi, commediola. Perfetti sconosciuti ha successo? Non si fa altro che tentare di riprodurlo, ossessivamente".

    Il Maestro non ha torto, ma dovrebbe orientare il mirino contro le perversioni del meccanismo produttivo. Molto spesso le idee innovative che giungono dai professionisti della scrittura vengono bocciate non per mancanza di ispirazione ma perché si preferiscono percorsi che si ritengono consolidati (da qui, per esempio, l’inflazione della commedia… che non è certamente la commedia all’italiana degli anni ’60!).

    Ma, quindi, come funziona il mercato della sceneggiatura (ora, con alcune differenze, si può parlare di mercato globale: un tempo di Hollywood, Francia, Italia, Spagna…)?

    Sono possibili varie opzioni: lo sceneggiatore spedisce il suo script all’agente, che la propone al produttore; lo sceneggiatore di prestigio s’incontra direttamente col produttore; spesso è il produttore ad avere l’idea che sottopone al professionista, ingaggiandolo (magari partendo dall’adattamento di un romanzo, del quale ha acquistato i diritti).

    Ma, soprattutto all’inizio di una possibile carriera, spesso lo sceneggiatore europeo inizia a scrivere senza aver ricevuto un mandato e propone la sua creazione al buio. Un po’ come accade al romanziere esordiente. A questo punto il copione incomincia a circolare per riuscire a trasformarlo in un progetto vero.

    Comunque la si voglia vedere, risulta tuttavia scontato che il film nasce da un testo (che nel tempo potrà trasformarsi in ben altro).

    Ritornando alla Storia, il cinema parte dagli albori con una prassi che è rimasta immutata nel tempo: la Biograph nel 1897 ingaggiava scrittori e acquistava contenuti: il testo permetteva di pianificare e, quindi, ipotizzare un budget del film da produrre. Se la figura dello sceneggiatore professionista giungerà negli anni ‘30, lo scrittore parte da subito a collaborare col cinema (proponendo storie, e scrivendo dialoghi per i cartelli dei film muti): […] Un copione è lungo da una a tre pagine dattiloscritte, se ne trovano esemplari incollati su cartoncino e piegati in tre, in modo da stare comodamente in tasca al regista. Il testo elenca il luogo della scena e, a grandi linee, il contenuto dell’azione; più che di sceneggiatura potremmo parlare di una storia divisa in quadri (Giuliana Muscio). In sostanza, si trattava di sinossi non più lunghe di un paragrafo (spesso ispirate dalla letteratura e dal teatro), con la descrizione dei personaggi e delle azioni da mostrare, secondo una suddivisione di scene numerate. Ma se le prime sceneggiature per film da due bobine erano lunghe una pagina e mezza, già nel 1916 i testi arrivavano a quaranta pagine.

    Del resto, già intorno agli anni ’10 (del Novecento) i compiti di regista e sceneggiatore si biforcano: il primo si occupa esclusivamente della direzione degli attori e della troupe, il secondo di ideazione e scrittura. Ma, in realtà, già da molto prima le film companies si erano dotate di dipartimenti di sceneggiatura dedicati alla lettura e scrittura di storie (formando editor ad hoc, ma anche utilizzando scrittori). Il tutto si sarebbe consolidato con il sorgere dei grandi studios con l’avvento del sonoro (una pratica che viene mutuata anche in Europa).

    Per tutti gli anni ’20 è il regista a mantenere una posizione dominante e a decidere il découpage tecnico e a condizionare creativamente la riscrittura del film in sede di montaggio.

    Ma è chiaro che con l’avvento di una maggior complessità (film più lunghi, sonori, più costosi…) il produttore si riappropria anche della centralità creativa: sono in ballo ingenti investimenti.

    E non mi soffermo sulla creazione delle didascalie (cartelli) del film muto, che hanno rappresentato una professionalità di scrittura ben precisa.

    Gli storici identificano, per quando riguarda l’Europa, in George Méliès il creatore della sceneggiatura (o di qualcosa di molto simile): i sujets composés e qui, indubbiamente ci troviamo in un connubio molto stretto regista-scrittore. Méliès, d’altronde, conia il termine scénario cinematographique.

    Il cinema europeo prima dell’avvento del sonoro, inevitabilmente, assume le modalità dell’industria d’oltreoceano con impercettibili varianti: sceneggiatori dal background letterario, script moderatamente dettagliati (per esempio, nei cartelli vengono indicati anche riferimenti sonori oltre ai dialoghi), sceneggiature di circa 15 pagine per rullo (più bobine allungano il film, e più complessa e dettagliata diventa la costruzione di una sceneggiatura avviandosi ad assomigliare a quella contemporanea).

    In breve, lo scenario diventa l’elemento centrale e insindacabile della realizzazione filmica. Ma fino alla seconda metà degli anni ’20 (del Novecento) lo scenarista non compare nei credits. Le sceneggiature acquisiranno un preciso format con l’affermarsi del lungometraggio.

    L’avvento del sonoro – che sancisce la separazione tra regista e sceneggiatore – , poi, apre la porta alla voce ovvero al dialogo. E la professione dello sceneggiatore (e del dialoghista) assume contorni nuovi e fino ad allora inesplorati. La sceneggiatura raggiunge la maturità: stesura scena per scena, in un copione sempre più dettagliato nei dialoghi e nelle indicazioni di ripresa e montaggio. Il cinema si trasforma definitivamente in industria.

    E il mondo del cinema si anima (a Hollywood come in Europa) di infinite risorse creative: giornalisti, poeti, musicisti, pubblicitari, professionisti della radio, e romanzieri (William Faulkner, John Dos Passos, Dorothy Parker, Francis

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