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Il Cinquecento - Letteratura e teatro (48): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 49
Il Cinquecento - Letteratura e teatro (48): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 49
Il Cinquecento - Letteratura e teatro (48): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 49
E-book658 pagine8 ore

Il Cinquecento - Letteratura e teatro (48): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 49

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L’epoca drammatica e convulsa delle guerre d’Italia, inaugurata nel 1494 dalla spedizione di Carlo VIII, coincide con un periodo di straordinaria fioritura culturale. È nel corso del Cinquecento infatti che prendono vigore le grandi illusioni cosmopolite e universalistiche dell’umanesimo e si avvia il processo di formazione delle letterature nazionali moderne, che si irradia, con tempi ed esiti diversi, dall’Italia verso il resto d’Europa, mentre la nuova trattatistica critica, legata alla riscoperta della Poetica di Aristotele e alla grande e ininterrotta tradizione della retorica, fornisce un’adeguata teoria entro la quale si ordinano le letterature nazionali sull’esempio del classicismo greco e latino. Questo ebook esplora gli sviluppi tutt’altro che omogenei che il Rinascimento ha avuto nella diversificata realtà europea, con un occhio di riguardo per l’Italia, che, anche dopo il drammatico sacco di Roma del 1527, rimarrà il centro vitale di elaborazione di una cultura che si pone a modello dell’Europa intera. Tra le urgenze avvertite in questo secolo, come risposta alle grandi lacerazioni del secolo, vi è l’unità linguistica che in Italia trova il suo campione in Bembo, che negli anni Venti fissa i due modelli di riferimento per poesia e prosa in Petrarca e Boccaccio. Ma il Cinquecento è anche il secolo in cui brillano le due diverse poetiche di Ariosto e di Tasso, mentre nel dibattito politico, nell’ampia riflessione sull’uomo di governo e il ruolo dell’intellettuale si distinguono Baldassarre Castiglione, Machiavelli e Guicciardini. E proprio con Machiavelli e Guicciardini si afferma insieme alla storiografia moderna una scienza politica nuova, legata alle leggi e ai conflitti della realtà, con due proposte di uomo ben diverse: al vitalismo del centauro machiavelliano contrasta l’uomo di Guicciardini, arroccato nella difesa del proprio “particolare” dagli assalti della fortuna, nell’orizzonte di un pessimismo senza riscatto.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2014
ISBN9788897514763
Il Cinquecento - Letteratura e teatro (48): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 49

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    Il Cinquecento - Letteratura e teatro (48) - Umberto Eco

    copertina

    Il Cinquecento - Letteratura e teatro

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Cinquecento

    Letteratura e teatro

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla letteratura del Cinquecento

    Ezio Raimondi

    L’epoca drammatica e convulsa delle guerre d’Italia, inaugurata nel 1494 dalla spedizione di Carlo VIII che - come registra con dolente impassibilità Guicciardini - segna l’inizio d’innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti, coincide con un periodo di straordinaria fioritura culturale che, mentre segna la conclusione delle grandi illusioni cosmopolite e universalistiche dell’umanesimo, avvia il processo di formazione delle letterature nazionali moderne, irradiandosi, con tempi ed esiti diversi, dall’Italia verso il resto d’Europa.

    Premessa

    L’epoca drammatica e convulsa delle guerre d’Italia, inaugurata nel 1494 dalla spedizione di Carlo VIII che - come registra con dolente impassibilità Guicciardini - segna l’inizio d’innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti, coincide con un periodo di straordinaria fioritura culturale. Nel corso del Cinquecento, infatti, perdono vigore le grandi illusioni cosmopolite e universalistiche dell’umanesimo, e si avvia il processo di formazione delle letterature nazionali moderne, che si irradia, con tempi ed esiti diversi, dall’Italia verso il resto d’Europa. In effetti la nuova trattatistica critica, legata da una parte alla riscoperta Poetica di Aristotele e dall’altra alla grande e ininterrotta tradizione della retorica, fornisce un’adeguata teoria entro la quale si ordinano le letterature nazionali sull’esempio del classicismo greco e latino. L’imitatio, ossia la dottrina della riproposta dei modelli antichi nelle nuove lingue nazionali, è insieme il principio dell’aemulatio, ossia della gara e del superamento. Il ritorno ai classici predicato dall’umanesimo del Quattrocento italiano diviene il paradigma di una nuova esperienza tutta moderna. Va da sé, a questo punto, che all’interno della diversificata realtà europea il Rinascimento abbia modi dissimili e sviluppi tutt’altro che omogenei, anche per il diverso rifrangersi della cultura medievale e la forza perdurante dei suoi costumi e delle sue credenze.

    L’unità linguistica

    Il Rinascimento è a tutti gli effetti un fenomeno italiano e, almeno per la sua fase più splendida, di breve durata, dal momento che già nel 1527 il sacco di Roma mette drasticamente fine all’ambizioso sogno di unificazione politico-culturale dell’età di Leone X, lasciando i letterati in una condizione di permanente incertezza e precarietà. Ma, per quanto devastata dagli eserciti stranieri in lotta per la supremazia, anche dopo questo terribile episodio la penisola resta il centro vitale di elaborazione di una cultura che si pone come obiettivo la fondazione di una teoria generale della letteratura moderna: dall’Italia, giunta all’apice della propria forza espansiva nella sfera artistica e letteraria, il clima rinascimentale migra per l’Europa, assumendo caratteri distinti secondo le singole realtà politico-culturali. In particolare, le discussioni sull’unità linguistica, non più differibile nell’età della piena affermazione della stampa, costituiscono il punto di partenza comune nella nascita delle letterature nazionali moderne: se in Italia la questione della lingua, codificata dalla soluzione letteraria di Bembo e dalla sua consacrazione dell’esempio petrarchesco, risulta - per così dire - un risarcimento rispetto alla frammentazione e al particolarismo politico, nelle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Inghilterra) l’unificazione linguistica si lega invece proprio al consolidamento in senso assolutistico dello Stato, mentre in Germania costituisce uno degli effetti della predicazione di Lutero, straordinario inventore della lingua letteraria che sta alla base del tedesco moderno.

    La ricerca di un’unità politica, religiosa o linguistica rappresenta anche, d’altra parte, una risposta alle grandi lacerazioni che attraversano il Cinquecento, e soprattutto alla scissione della Riforma protestante che divide il mondo della cristianità occidentale, portando a compimento un processo che era già iniziato alla fine del Quattrocento. Ma l’inquietudine religiosa percorre tutto il secolo, tra il dilagare dell’eresia protestante e la controffensiva della Chiesa di Roma: la seconda metà del Cinquecento appare dominata dal Concilio di Trento e dalla riorganizzazione politica e religiosa promossa dalla Riforma cattolica, in un lungo processo nel corso del quale l’ansia di rinnovamento delle prime generazioni tende nel tempo a ripiegarsi su se stessa, contraendosi in un rigido apparato repressivo. Tuttavia anche per conservare viene richiesto un eccezionale sforzo innovativo, dal momento che le vecchie strutture istituzionali non hanno retto di fronte alla sfida di Lutero e di Calvino. I Gesuiti, che, a partire dalla metà del Cinquecento, formano l’élite intellettuale della Riforma cattolica, si assumono così il compito di affiancare al disciplinamento delle coscienze un’opera capillare di riconquista culturale da attuare sul campo attraverso la creazione di una fitta rete di scuole e collegi, nei quali educare le future classi dirigenti. Sul piano più propriamente letterario, la pedagogia gesuitica - a cui si lega, forse per la prima volta, la prassi di un’istituzione scolastica internazionale, dalla Spagna all’Europa orientale - ripropone le istanze di un classicismo moralistico che però non esclude il ricorso alle risorse dei sensi, unendo al docere didascalico del pensiero il movere affettuoso dell’immagine e della metafora. È proprio Ignazio di Loyola, il fondatore dell’ordine, a raccomandare di materializzare sensibilmente la metafisica, visualizzandola attraverso la compositio loci nella ricostruzione di uno spazio interiore. In questo modo la cultura gesuitica apre la strada all’analisi introspettiva della coscienza moderna, che comincia con il Rinascimento e, nell’arco del XVI secolo, trova due campioni straordinari quanto diversi in Montaigne e in Tasso: se il primo, dall’alto della torre del suo castello a Périgord, indaga attraverso se stesso l’universo mobile della soggettività, il secondo, dalla sua prigione ferrarese, ne sperimenta invece la controparte notturna, l’insidia della scissione, la melanconia esistenziale. E del resto il mondo della malinconia viene esplorato tanto dai filosofi quanto dai medici: è il mondo di Saturno, il mondo del ripiegamento interiore e della sterilità, che i nuovi moralisti indagano a fianco dei poeti. Il teatro della coscienza viene analizzato nel movimento e nel conflitto degli umori, cioè degli elementi che costituiscono l’uomo e il suo microcosmo, specchio psicologizzato del più grande macrocosmo. La nuova visione copernicana non modifica ancora l’immagine dell’uomo così come la propongono l’aristotelismo e il platonismo nelle loro combinazioni più o meno eclettiche. Accanto al classicismo apollineo di Raffaello o Ariosto - ma i Cinque canti sono già oltre l’ironia vitale dell’Orlando Furioso-, vi è anche un classicismo dionisiaco legato al pathos, al movimento drammatico delle emozioni, all’esplorazione degli spazi profondi e misteriosi dell’io: entro quest’orizzonte si situa per l’appunto il romance eroico e introspettivo della Gerusalemme Liberata, con la sua iconicità intima e patetica in cui la voce del narratore si adegua a una prospettiva teatrale partecipando in prima persona agli eventi narrati.

    Classicismo letterario e riflessione critica

    L’esperienza poetica e critica di Tasso è insieme culmine e sintesi di un lungo periodo di discussioni e ricerche intese a trovare una mediazione tra la fedeltà all’insegnamento di Aristotele e il gusto isvogliato dei moderni. E che dire della vitale sperimentazione di Ronsard e, accanto a lui, della Pléiade? In ogni ambito i letterati del Cinquecento sembrano optare per un classicismo che si anima di nuove ragioni: la rinascita dell’epos, legata al mito di un’Europa mediterranea e al processo storico di neofeudalizzazione, riscopre i temi dell’eroe, dell’onore e della guerra, ma li intreccia agli elementi avventurosi e sentimentali derivati dal romanzo ellenistico e dalla tradizione cavalleresca, proprio nel tentativo di definire in modi nuovi la classicità omerica e virgiliana.

    Intanto, sul fronte della riflessione critica, dopo l’ingresso ufficiale di Aristotele nella cultura del Rinascimento (fra la traduzione della Poetica, apprestata nel 1498 da Giorgio Valla, e il primo commento del 1548), un dibattito vivace e articolato promuove la fondazione di uno spirito critico moderno, attualizzando i paradigmi del pensiero aristotelico in rapporto alla pluralità dell’esperienza.

    All’estetica platonica, vaga e dogmatica nella sua ripugnanza alla varietà e al molteplice, e alle poetiche di ascendenza oraziana fa così riscontro vittorioso il programma di Aristotele, ricco di concrete e lucide distinzioni, regolate sempre da criteri razionalmente scientifici. E proprio l’apporto della nuova dottrina filologica di Trissino, Speroni, e Castelvetro, con il suo senso del passato riscoperto o risorto, favorisce l’aggiornamento della Poetica aristotelica, quanto più essa sembra adattarsi all’universo dei moderni e fornire l’unità di misura critica per scrutinare i nessi o i grovigli tra poesia e vita, parola e prassi. Il Cinquecento è anche il secolo di una scienza filologica sempre più rigorosa che, dopo lo splendore delle generazioni umanistiche, soprattutto in Francia, in Inghilterra e in Germania, si rivolge tanto ai testi antichi quanto e più ancora al testo sacro della Bibbia e alla sua interpretazione. La razionalità critica aggredisce così anche la verità storica della parola divina, invoca l’esattezza e la libertà della coscienza.

    In questa dimensione di pensiero si muovono e crescono i problemi più appassionati della teoria letteraria del Cinquecento: dalla mimesi, che investe non più semplicemente un fenomeno testuale ma tutta la sfera emotiva dell’uomo, alla catarsi come processo antropologico d’identificazione tra immagine e coscienza che contempla, fino al meraviglioso che deve rappresentare la magnificenza e la solennità dell’inatteso in modo sempre coerente al disegno della peripezia. Con pari acutezza si discute la natura morale e gnoseologica della poesia, il divario ontologico fra l’universale poetico e il particolare storico, l’ardua conciliazione del verisimile idealizzato con l’attendibilità razionale, giungendo a definire un’ampia tassonomia che accanto ai generi consacrati dalla tradizione aristotelica, ossia l’epica e la tragedia (ma l’elemento drammatico proviene ora anche dalla storia, sicché il teatro può scegliere la stessa realtà contemporanea come luogo dei conflitti), fa spazio anche a tipologie nuove come il romanzo o la tragicommedia. Così ai vecchi generi si aggiungono nuove forme e nuovi processi combinatori, mentre al mondo della fantasia si aggrega anche quello della storia e della sua verità fattuale. Il teatro diventa allora uno dei luoghi in cui si rispecchia e si indaga una storia nazionale, nel passato come nel presente.

    Linguaggio lirico e prosa letteraria

    Per quanto riguarda il linguaggio lirico e quello della prosa letteraria, già negli anni Venti Bembo, sostituendo la Poetica aristotelica non ancora operante con un’opzione platonico-ciceroniana, elabora un codice normativo attraverso una scelta genialmente storica. Le Prose della volgar lingua, per l’appunto, ordinano e sistemano l’universo delle forme letterarie, assumendo ad archetipo assoluto il Petrarca e il Boccaccio attraverso un triplice processo di semplificazione, accentramento e intensificazione, con cui sembra chiudersi definitivamente ogni ipotesi prammatica di osmosi tra scrittura e oralità, letteratura e uso. Tuttavia la codificazione di Bembo, per quanto destinata a prevalere tanto sul piano linguistico quanto su quello retorico, trova contestazioni e dissensi, provenienti soprattutto da fronti culturali divergenti, inclini piuttosto alla commistione dei linguaggi, al pluristilismo e alla sperimentazione, nell’orizzonte di quello che è stato definito, volta per volta, il controrinascimento o l’antirinascimento. Ma, se anche la tendenza al coagulo delle forme finisce con l’imporsi quanto più ci si inoltra nel secolo, l’allargamento della mappa della produzione letteraria prova che non si tratta di un superamento dialettico delle alternative, anche per la persistenza, sul piano del dibattito critico, di istanze platoniche a più valenze che proclamano il primato della natura sull’arte come entusiasmo, eros e vitalità.

    Lo stesso ritratto ideale del perfetto gentiluomo, delineato nel Cortegiano di Castiglione, è una sorta di mito platonico, trasferito però nell’universo sociale e mondano della corte, con il suo rituale pubblico di comportamenti e relazioni mutevoli.

    Nell’universo ludico della festa rinascimentale ogni uomo di corte si adegua a un protocollo, alla parte assegnatagli da una raffinata etichetta, inventando una maschera da indossare con totale coerenza, perché ogni gesto riproduce il carattere di prestigio a esso legato, in quanto simbolo della gerarchia del potere. Il teatro delle apparenze risulta quindi garantito dalla perfetta identità tra il soggetto e il ruolo che di volta in volta esso si trova a rappresentare, mentre l’ideale della sprezzatura diviene il codice comportamentale più adeguato per tale gioco di ruoli, in un difficile e mobilissimo equilibrio tra naturalezza e artificio, spontaneità e finzione, verità e dissimulazione. Così il Cortegiano rifugge da ogni normativa scolastica, affidandosi piuttosto, platonicamente, a un dialogo aperto e fertile, capace d’inverare i suoi moventi edonistici nella difesa conflittuale di opposti argomenti. Ma di questo sogno arioso e magnanimo sopravviverà soltanto, con il mutare del clima culturale e delle situazioni politiche contingenti, un’ideologia che analizza i rapporti sociali come forma del vivere, rintracciando nella sprezzatura di Castiglione le premesse esplicite dell’inganno e della concorrenza spietatamente cortigiana, in uno spazio sempre più buio, già pronto ad accogliere la dissimulazione onesta. Al dialogo si sostituisce di conseguenza una trattatistica minuziosa, in cui spira una temperie più dimessa e comune: se il Galateo di Della Casa, con la sua dettagliata e manualistica normativa, corrisponde meglio alle esigenze di una società aristocratica in crisi, la fortunatissima Civil conversazione di Guazzo - ormai al declinare del Rinascimento - auspica addirittura un’integrazione della classe nobiliare con gli altri ceti, ipotizzando un modo di favellare che valga non solo nel mondo cortigiano, ma anche nei più modesti interni borghesi.

    La corte, peraltro, non è soltanto il luogo della conversazione e della festa, ma anche il centro della vita politica e dei rapporti di potere: alla riflessione sociologica sul perfetto cortigiano si deve dunque affiancare l’analisi e la definizione del principe ideale. Il Rinascimento è per l’appunto il secolo in cui, con Machiavelli e Guicciardini, si afferma insieme alla storiografia moderna una scienza politica nuova, legata alle leggi e ai conflitti della realtà. Nel pensiero vigoroso e implacabile dell’autore del Principe, la nova methodus (come la chiamerà poi Bodin) rinnova attraverso l’esperienzia delle cose moderne la lezione delle antique, trasformando il concetto umanistico d’imitazione in uno studio critico del passato che riscontra di volta in volta i paradigmi storici con la verità effettuale. Ma per assicurare nella prassi la vittoria della virtù sulla fortuna non è sufficiente la razionalità: per quanto ferma e acuminata, essa deve sempre unirsi all’impeto, alla gagliardia, alla violenza generatrice di vita, secondo l’emblema - caro a Machiavelli - del centauro che denota non solo il volto ferino della lotta politica, ma la stessa natura duplice dell’uomo.

    Rispetto al vitalismo machiavelliano, l’uomo di Guicciardini, arroccato nella difesa del proprio particulare dagli assalti della fortuna, sembra collocarsi nell’orizzonte desolato di un pessimismo senza riscatto. Eppure, proprio dal risoluto antiumanesimo di Guicciardini, negatore di ogni verità universale, nasce il grandioso sforzo ermeneutico della Storia d’Italia, con la sua architettura organica e calcolata, retta anche da un’inesorabile logica narrativa. Così, mentre l’opera di Machiavelli - pur messa all’Indice e tacciata di empietà - fornirà ai teorici successivi della ragion di stato, da Botero a Paruta, i presupposti di un’autonoma scienza della politica, il capolavoro di Guicciardini potrà costituire il modello insuperabile della storiografia laica dei secoli a venire. Intanto, già nel Cinquecento il campo d’indagine della storia si allarga verso spazi e oggetti radicalmente nuovi, arricchendosi di informazioni sui mondi esotici e primitivi delle Americhe e dell’Oriente, grazie alle relazioni dei viaggiatori (presto raccolte nella grande silloge di Ramusio) o dei missionari, per i quali la diffusione della fede non è meno importante, in certi casi, di uno studio quasi etnografico che fa conoscere tradizioni diverse dal filone classico-cristiano incentrato nel Mediterraneo, dando luogo anche a forme singolari di sincretismo culturale, per esempio nella predicazione dei Gesuiti.

    Conclusione

    Nel corso del Cinquecento, il pensiero di Platone non viene soppiantato da quello aristotelico, ma convive con esso secondo varie sfumature spaziali e temporali, mentre parallelamente, a fronte di una vigorosa ripresa dello scetticismo, si moltiplicano le concordiae tra le scuole filosofiche.

    Entro la stessa temperie si colloca la fortuna cinquecentesca della mnemotecnica che esplora i nessi analogici tra parola e immagine, così come il successo che arride, proseguendo poi per tutto il secolo successivo, alle discipline connesse dell’emblematica e dell’impresistica (di cui Paolo Giovio è il primo a fornire un prontuario nel Dialogo dell’imprese militari et amorose del 1555), ove la mistica della sapienza riposta, unita al razionalismo analitico della retorica, divengono strumenti di un raffinato ed esoterico gioco di società. Ma il processo di fusione fra tradizioni di pensiero differenti risulta ancora più evidente nell’universo dell’enciclopedismo scientifico: dal De revolutionibus copernicano, che a metà Cinquecento infrange la solida compattezza del cosmo aristotelico - tolemaico, sino all’affermazione della nuova scienza, che individuerà nella matematica lo strumento d’indagine della natura, la rivalutazione dell’esperienza diretta nello studio e nella catalogazione del mondo naturale si accompagna inestricabilmente al riemergere di concezioni magico ermetiche, mistiche e neoplatoniche. Sull’esempio di quanto accade nel mondo della pittura dove, dopo Raffaello e Michelangelo, si afferma lo stile della cosiddetta Maniera, anche nella letteratura e nell’universo delle forme culturali s’impone un gusto, uno stile della raffinatezza e dell’introspezione esasperata, a cui molti oggi amano dare il nome di manierismo. La cosa certa è che la soggettività sta cercando nuove forme di espressione, con una libertà che vuole definirsi attraverso un dialogo nuovo con la tradizione e i suoi canoni formali istituzionalizzati. In tutto questo ha forse anche parte il problema di una religiosità più individuale, in antitesi con i principi d’ordine imposti soprattutto nei Paesi cattolici dalla Controriforma, anche nella sua prima versione, intensa e severa, di Riforma cattolica.

    Fra queste tensioni la letteratura del tardo Rinascimento tenta di esplorare il proprio spazio inventivo con un nuovo senso della lirica e con un impulso intimamente drammatico che si esprime tanto nel teatro quanto in un nuovo genere romanzesco, in parallelo e poi in contrapposizione con l’epos delle origini e la sua riproposizione nel presente di Carlo V e di Filippo II. Ma anche in questo caso la modernità continua a riconoscersi attraverso il rapporto con il passato e con il suo museo straordinario di idee, di figure e di temi.

    Di tutto questo può essere un paradigma quasi simbolico la cosmologia magica e copernicana di Giordano Bruno, con il rogo che chiude tragicamente a Roma la sua vita di nomade europeo, proprio nell’anno 1600, mentre già sta nascendo la nuova scienza di Galilei e il linguaggio non più magico della matematica. Le aspirazioni e le conquiste si intrecciano ancora ai conflitti e alle contraddizioni della coscienza e della società.

    I grandi temi

    Manierismo e anticlassicismo

    Lucia Rodler

    Direttamente mutuata dalla critica d’arte, la nozione di manierismo indica una serie cospicua di testi letterari che mostrano un rapporto complesso con il classicismo, tra mimesi e variazione. Decisamente polemico nei confronti del canone dell’imitazione risulta invece l’anticlassicismo che deforma la tradizione a livello del comico.

    Origine del termine manierismo

    Nel XVI secolo il termine maniera – che deriva dal francese antico manière, usato per indicare sia il modo di comportarsi in società, sia le categorie sociali caratterizzate da particolari tipi di comportamento – ha un’accezione positiva e una negativa. Nell’uso del Vasari la maniera indica principalmente lo stile di un artista e in particolare la capacità di alcuni pittori di combinare insieme singoli elementi di bellezza; ma nel Cinquecento il termine designa anche atteggiamenti eccessivamente studiati e cerimoniosi. In questo significato di affettazione il termine si diffonde nel Seicento e alla fine del XVIII secolo il manierismo definisce gran parte dell’arte del secondo Cinquecento, giudicata come deformazione dell’arte classica del Rinascimento.

    Solo negli anni Venti del Novecento alcuni studiosi di storia dell’arte, in primo luogo l’ungherese Max Dvorák, hanno applicato la parola manierismo a una diversa interpretazione delle tendenze artistiche sviluppatesi a partire dal 1520-1530, rinvenendo nella loro apparente artificiosità i segni di una crisi spirituale e di una nuova sensibilità: il carattere soggettivistico della maniera non appare più un fenomeno di decadenza, ma indica il ridestarsi della fantasia individuale e creatrice in antitesi alle norme classiche. Nelle arti figurative i massimi esponenti di tale tendenza sono Michelangelo, Tintoretto e soprattutto El Greco; in ambito letterario Tasso, Rabelais, Shakespeare e Cervantes.

    L’ipotesi di Dvorák viene raccolta anche da altri studiosi, tra cui Arnold Hauser, che definisce il manierismo come l’espressione artistica della crisi politica, economica e intellettuale che investe l’Occidente nel Cinquecento, e la prima manifestazione dell’arte moderna, caratterizzata dalla separazione tra reale e ideale e rappresentata in modo suggestivo dalla figura insieme ridicola e sublime di don Chisciotte.

    Per Hauser, inoltre, il manierismo è intellettualistico e aristocratico, diversamente dal barocco che mostra una tendenza sensuale e popolare. La letteratura manieristica tenderebbe a circolare solo all’interno di ambienti ristretti, fra i letterati, e a essere scritta in un linguaggio difficile, ambiguo, a scegliere forme di comunicazione per iniziati, come l’emblema e il geroglifico; quella barocca, invece, cercherebbe di sollecitare la meraviglia e il piacere del pubblico mediante un uso edonistico di mezzi artistici con cui rafforzare il contatto con il mondo degli oggetti. La necessità di distinguere il manierismo dal barocco ha portato a specificare che il primo è un fenomeno prevalentemente cinquecentesco, mentre il secondo inizia negli ultimi decenni del Cinquecento per prolungarsi variamente sino al Settecento. Comune a entrambi sembra essere lo stravolgimento degli schemi e dei modelli equilibrati del classicismo: ma il manierismo agisce all’interno delle forme classiche, consumandole ed estenuandole; il barocco tende invece a far esplodere quelle forme, proiettandole all’esterno, variandole e moltiplicandole, in una ricerca ossessiva del nuovo.

    Verso la metà del Novecento al manierismo, come pure al barocco, è stato attribuito anche un significato non storicamente delimitato, ma extrastorico, tipologico. Ernst Robert Curtius lo intende come una categoria retorica che ritorna costantemente e sotto la quale si possono raccogliere fenomeni anche lontanissimi nel tempo e nello spazio, ma unificati dalla comune opposizione al classico e da una stilistica esasperata dell’ornatus. Sulle sue orme, Gustav René Hocke, nel 1959, ha ricostruito un’affascinante fenomenologia del manierismo, ossia dell’irregolare, anormale, disarmonico e labirintico, dall’anticlassicismo dell’età alessandrina alla poesia del Novecento, attraversando la latinità argentea, il tardo Medioevo, l’età di Góngora, Shakespeare e Marino, il romanticismo. Il fatto è che ogni tentativo di interpretazione globale del manierismo sembra destinato all’insuccesso sino a quando non siano compiute quelle analisi specifiche delle singole tradizioni nazionali che sole possono dare alla varietà del fenomeno un rigoroso e preciso fondamento storico: il culto della forma di Montaigne, il petrarchismo sensuale di Fernando de Herrera, la prosa introversa e preziosa di John Donne, quella corrosiva e scettica di Francesco Guicciardini, l’anticlassicismo tragico di Pietro Aretino forniscono alcuni esempi della multiforme metamorfosi stilistica che ha luogo all’interno del modello rinascimentale, allorché l’individuo tenta di esprimere una visione problematica del reale.

    Gli artifici manieristi: caratteri distintivi e ricorrenti

    Usando il termine manierismo in senso ristretto, per indicare una pratica retorica e stilistica, si possono comunque fissare alcuni caratteri distintivi e ricorrenti: l’attenzione alla tecnica letteraria anche indipendentemente dalla semantica; la frammentazione dell’unità tra i singoli elementi del testo per il gusto del particolare, del non finito, del capriccioso e del bizzarro; l’accumulo di elementi, presentati attraverso la figura retorica dell’elenco e dell’enumerazione (per asindeto e polisindeto); l’elocuzione fondata sull’ornatus in verbis conjunctis (discorso figurato che si basa sulla disposizione delle parole); la mancanza di gerarchia tra gli elementi costitutivi del discorso; la tendenza all’uso di strutture aperte, come il madrigale; la tensione verso l’eroico e il magniloquente, con l’accentuazione ossessiva di alcuni elementi decorativi. È però necessario sottolineare che con questi artifici lo scrittore manierista resta dentro la tradizione classica, ne segue i modelli senza mai né scartarli né sostituirli, ma ne esaspera alcuni aspetti, mutando la misura in dismisura, l’armonia in disarmonia, l’equilibrio in eccesso.

    Basta leggere, solo per addurre un esempio, una quartina illustre di Luigi Groto, tragediografo di gusto senechiano, oltre che versificatore ammirato da Giambattista Marino: A un tempo temo, e ardisco e ardo e agghiaccio / quando a l’aspetto del mio amor mi fermo / e stando al suo cospetto, allor poi fermo / godo, gemo, languisco, guardo e taccio. Un uso analogo di allitterazioni, pluralità e correlazioni si riconosce in una serie di testi che deformano la lezione di Francesco Petrarca attraverso la seriazione continua degli istituti retorici della parola poetica e del suo ornatus. Ma come altri petrarchisti ben più raffinati, Groto non si sottrae al principio dell’imitazione, che viene invece rifiutato dai poeti barocchi.

    I manieristi accentuano la mimesi in senso emotivo e individualistico, attraverso un montaggio inedito di intarsi, preziosismi sintattici, iperbati brachilogici, intrecciando, anziché spezzare, le norme della tradizione in una sorta di nuova sprezzatura stilistica, al modo poi di Torquato Tasso. A illustrare questo concetto di imitazione creativa o fantastica provvedono tra gli altri Camillo Pellegrini e Gregorio Comanini, mentre Galileo Galilei collega genialmente il poeta dell’Aminta al mondo del manierismo figurativo, contrapponendo la galleria regia, ornata di cento statue antiche del Furioso ariostesco allo studietto tassiano, adorno di cose peregrine al pari di qualche schizzetto di Baccio Bandinelli o del Parmigianino, ma immobilizzato nel gelido filtro della letteratura così come un granchio pietrificato, un camaleonte secco, una mosca, un ragno (...) in un pezzo d’ambra.

    La tecnica manierista non corrisponde solo a una psicologia introversa e malinconica, ma risente anche dell’influsso del neoplatonismo e della sua estetica della phantasia. Non per nulla il termine maniera interferisce con mania, che in greco significa pazzia, e per Giordano Bruno definisce il furore creativo: nel dialogo anticlassico Degli eroici furori (1585) egli afferma che il vero poeta trova ispirazione dentro di sé e non ammette di essere soggetto a regole precise. Il suo pensiero violentemente antiaristotelico trova larga diffusione in Inghilterra, dove John Lyly ha già composto l’affettata e preziosa opera Euphues, the Anatomy of Wit (1578) che dà origine al termine eufuismo, spesso considerato sinonimo di manierismo, in quanto tale tecnica riprende dalla prosa di Giovanni Boccaccio, degli umanisti italiani e spagnoli la struttura latineggiante e la impreziosisce con artifici retorici, aggettivi ricercati e ardite metafore.

    Giordano Bruno

    Dialogo tra Cicada e Tansillo

    De gl’ heroici furori, Dialogo primo

    CICADA: Dite: che intende per quei che si vantano de mirti ed allori?

    TANSILLO: Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori; alli quali, se nobilmente si portano, tocca la corona di tal pianta consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili.

    CICADA: Dunque, son più specie de poeti e de corone?

    TANSILLO: Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché, quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani.

    CICADA: Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio, ed altri molti in numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele.

    TANSILLO: Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie; perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare, e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori de diversi geni.

    CICADA: Sì che, come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regola che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero, non di propria musa, ma scimia de la musa altrui.

    TANSILLO: Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.

    CICADA: Or come dunque saranno conosciuti gli veramente poeti?

    TANSILLO: Dal cantar de versi; con questo che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme.

    CICADA: A chi dunque servono le regole d’Aristotele?

    TANSILLO: A chi non potesse, come Omero, Exiodo, Orfeo ed altri, poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero.

    CICADA: Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto, e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere ch’essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarebbono gli veri poeti, ed arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore.

    TANSILLO: Or per non tornar là donde l’affezione n’ha fatto al quanto a lungo digredire, dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti ed invenzioni umane, alli quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma ed oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri, ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sacrifici e leggi, di pioppa, olmo e spighe per l’agricoltura, de cipresso per funerali, e d’altre innumerabili per altre tante occasioni.

    in Cinquecento minore, a cura di R. Scrivano, Bologna, Zanichelli, 1966

    Altrettanto complessa risulta la nozione di anticlassicismo, cui possono essere ricondotti autori diversi, quali Teofilo Folengo, Ruzante e Francesco Berni: la loro rivolta ai modelli dà origine a un vero e proprio genere letterario, quello della poesia bernesca e giocosa, che conosce notevole fortuna nella letteratura italiana. Rifiutando esplicitamente il canone del classicismo, questi scrittori rovesciano i modelli poetici seri e, prospettando una vita indifferente agli ideali, sullo sfondo di immagini deformate e strampalate della realtà, si ricollegano a meno note tradizioni folkloriche o di origine medievale. Dal punto di vista stilistico essi si concentrano su una sperimentazione linguistica che fa ricorso ai dialetti e a linguaggi marginali ed eterogenei: giochi di parole, doppi sensi comici, amplificazioni scherzose e parodie documentano la lacerazione dell’egemonia del classicismo, in modo diverso ma non meno profondo rispetto al manierismo. Vale allora la pena ricordare che lo stilizzato crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura e gli irreali occhi soavi e più chiari che ’l sole, / da far giorno seren la notte oscura della giovane dedicataria di un sonetto del petrarchista Pietro Bembo caratterizzano nella parodia di Berni le fattezze di una vecchia arruffata, piangente e strabica.

    I principi propri del classicismo di misura, eleganza, equilibrio tra artificio e naturalezza rappresentano solo un aspetto del Cinquecento, che comprende anche altre forme di cultura alternativa che costituiscono quello che è stato chiamato controrinascimento o antirinascimento e che cercano di rendere conto della varietà del reale; così Niccolò Machiavelli, Erasmo da Rotterdam, François Rabelais, Johann Fischart e numerosi altri irregolari mostrano i limiti di una visione unitaria e assoluta dell’uomo e gli aspetti ridicoli del formalismo, non solo letterario.

    Pietro Bembo

    Allusione a Petrarca

    Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura

    Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,

    ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole,

    occhi soavi e più chiari che ’l sole,

    da far giorno seren la notte oscura,

    riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,

    rubini e perle, ond’escono parole

    sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle,

    man d’avorio, che i cor distringe e fura,

    cantar, che sembra d’armonia divina,

    senno maturo a la più verde etade,

    leggiadria non veduta unqua fra noi,

    giunta a somma beltà somma onestade,

    fur l’esca del mio fofo, e sono in voi

    grazie, ch’a poche il ciel largo destina.

    P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966

    Rimandi

    Volume 46: Una filosofia personale: Michel de Montaigne

    Volume 46: Giordano Bruno

    Volume 47: I percorsi della Maniera

    Volume 47: Michelangelo Buonarroti

    Volume 47: La pittura veneziana nella seconda metà del Cinquecento

    Volume 47: El Greco

    La storiografia

    François Rabelais

    Il poema cavalleresco

    Ludovico Ariosto

    Torquato Tasso

    Volume 54: Il classicismo letterario

    Volume 54: Epica ed eroicomico

    Volume 54: La poesia italiana

    Volume 54: La poesia spagnola

    Volume 54: La poesia inglese

    Volume 58: Denis Diderot: arte e interpretazione della natura

    Volume 58: Estetica: nascita e sviluppo della scienza del bello

    Volume 60: Poetica, critica letteraria, erudizione

    Volume 60: Samuel Johnson

    Volume 60: Alexander Pope

    Volume 60: Sensismo, sublime e neogotico

    Volume 66: Classico e romantico

    Volume 66: Il nuovo sistema dei generi letterari

    Volume 66: Realismo, naturalismo e positivismo

    Volume 72: Le lingue della poesia

    Poetiche e critica letteraria

    Lucia Rodler

    Nel Cinquecento le varie esperienze della letteratura vengono regolamentate e istituzionalizzate, trovando una loro precisa codificazione nelle poetiche. Con la nascita di una teoria della letteratura, ha inizio anche un’attività critica che si occupa di analizzare testi e generi contemporanei.

    Nel rispetto delle regole

    La poetica del Rinascimento, sorta in Italia nel Cinquecento e poi diffusa negli altri Paesi e specialmente in Francia, si fonda sull’imitazione dei modelli antichi e sull’obbedienza alle regole proprie dei singoli generi letterari. Muovendo dal principio aristotelico in base al quale l’arte imita la natura, e poiché gli antichi sono stati perfetti imitatori della natura, si conclude che i moderni devono modellare le loro opere su quelle degli antichi. Inoltre la letteratura dei classici sembra presentare ai teorici del Cinquecento una netta distinzione tra i generi letterari, per ognuno dei quali valgono regole particolari. Così, mentre una classificazione sistematica dei generi esulava dalle intenzioni di Aristotele che si era concentrato sulla tragedia e sull’epica, nel XVI secolo, sulle orme di Cicerone, i generi vengono considerati forme chiuse, e l’originalità dello scrittore si manifesta entro i limiti di regole spesso arbitrariamente desunte dallo Stagirita.

    Di fatto la fortuna del pensiero aristotelico è anche la storia di un continuo travisamento, che prosegue anche dopo che i suoi testi di poetica vengono diffusi e commentati, scalzando il modello dell’Ars poetica di Orazio.

    Persino in un’opera di notevole livello teoretico quale i Poetices libri VII (1561) di Giulio Cesare Scaligero, si legge una sistemazione delle tematiche aristoteliche ottenuta anche a costo di smentire lo stesso Aristotele: l’origine divina della poesia, fondata sull’ispirazione e sulla tecnica; la necessità dell’imitazione della natura, o piuttosto dello scrittore che meglio rappresenta l’ideale di una poesia ragionevole, regolata e decorosa, ossia Virgilio; lo scopo educativo dell’arte, la definizione della tragedia, il concetto di verosimiglianza divengono gli elementi di una teoria letteraria che appare spesso astratta e arbitraria. Una conseguenza rilevante dell’interpretazione normativa di Aristotele è l’importanza data, nel genere drammatico, all’unità di azione (intesa come svolgimento di un’unica trama) e di tempo (per cui l’azione deve compiersi nello spazio di una sola giornata), e l’aggiunta, ad opera di Ludovico Castelvetro, di un’unità di luogo, in base alla quale viene escluso ogni cambiamento di scena.

    Manifestazioni sporadiche di insofferenza verso la concezione precettistica dei generi si hanno già nel Cinquecento: in qualche caso al giudizio secondo le regole si oppone quello secondo l’effetto dell’opera sul pubblico (Gian Battista Guarini), ma solo nel Seicento esso troverà ampia diffusione. Anzi, intorno agli anni Quaranta del Cinquecento, dopo la riscoperta della Poetica (commentata da Francesco Robortello nel 1548) e della Retorica di Aristotele, le discussioni teoriche, specialistiche e tecniche si infittiscono, promuovendo una definizione particolareggiata dei generi letterari, nel rispetto spesso anacronistico della classicità. Tipico di questa fase di massima istituzionalizzazione della letteratura è un rigido atteggiamento normativo che trova appoggio anche nella precettistica di tipo contenutistico e morale, elaborata dalla Chiesa in campo artistico dopo il concilio di Trento. Così, di fronte a testi irregolari come la Divina commedia di Dante, l’Orlando furioso di Ariosto, la Gerusalemme liberata di Tasso e il Pastor fido di Guarini si delineano tre atteggiamenti possibili: far rientrare l’opera in uno dei generi conosciuti; condannarla quando la prima operazione appare impossibile (ciò accade spesso nei confronti di Dante); creare una forma nuova, contrapponendo ad esempio al poema epico secondo i modelli antichi, il poema romanzesco con regole particolari. In tale contesto nasce anche il problema del rapporto tra retorica e poetica: per Francesco Patrizi, di formazione neoplatonica, la prima è solo un’ancella della dialettica e non può limitare in alcun modo il carattere creativo del pensiero; più comunemente, invece, si diffonde un’errata interpretazione di Aristotele, secondo la quale la retorica va identificata nell’ornato, nella forma piacevole che può rivestire qualsiasi discorso, prestando un valido aiuto tecnico alla

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