Il gioco segreto
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Anteprima del libro
Il gioco segreto - Michele Valdrè
info@youcanprint.it
A proposito di me
Le definizioni mi vanno strette.
I curricula ci inquadrano rigidamente, suscitando giudizi basati sul passato e ponendo limiti al nostro avvenire. Alimentano in noi e in chi ci osserva punti di vista fissi, come sassi gettati sul letto di un fiume, che ci costringono tra rapide, dighe e strettoie.
Mi rendo conto che in molti potrebbero aspettarsi delle credenziali: sappiano allora che ho avuto delle ottime insegnanti di italiano, oltre ad un paio in famiglia.
Dopo essermi divertito con le riviste scolastiche, sono passato all’editoria specializzata curando diverse pubblicazioni, inerenti l’architettura contemporanea; in seguito ho avuto qualche esperienza in ambito giornalistico e pubblicitario.
Sono stato anche un operaio e un disoccupato; durante quegli anni ho scritto manuali e ambientazioni per giochi di ruolo, fatti circolare liberamente tra appassionati.
Mi occupo anche di varie tecniche olistiche.
Sono felice, eppure a volte ho quasi paura di dirlo.
È qui che ci hanno portato: a dover dare giustificazioni alla felicità, o addirittura a nasconderla. Sembra che non possiamo essere felici senza un Pacchetto Felicità
certificato, acquistabile in comode rate: vent’anni a crearsi delle aspettative, venti a cercare di realizzarle, altri venti a insegnare a tutti che le favole non si avverano. Superata questa soglia il progresso ci viene finalmente incontro, dandoci modo di spendere i nostri risparmi in medicinali, fino al giorno dell’ultima domanda: Sono stato felice?
.
È tra le domande più comuni che ci si pone in punto di morte, se non la prima in assoluto.
Mi hanno insegnato a non farmi mai questa domanda, ma a pensare a cosa avrebbe reso felici gli altri: parenti, insegnanti, amici, la società. Se fossi stato bravo, col tempo avrei potuto guadagnare abbastanza da soddisfare i miei desideri, nelle poche ore di tempo libero.
Ma io volevo gioire del tempo, non col tempo. Non sapevo cosa fare da grande, né mi importava; volevo solo godermi un giorno dopo l’altro e seguire il mio istinto.
Così non si fa, mi dicevano. Così ragionano i cattivi, i disadattati. Un vero ometto, invece, si sacrifica e obbedisce.
Alla fine mi hanno convinto: ho sudato sette camicie per portare a casa un diploma di liceo. Credevo che finalmente avrei potuto cominciare a vivere la mia vita, anziché quella degli altri. Ma non era abbastanza: mentre eravamo impegnati a trastullarci su libretti per ragazzi, ci dissero, il mondo era cambiato.
Occorreva anche una laurea per essere qualcuno
.
L’università costava un occhio della testa, ma un vero uomo
non poteva limitarsi ad evitare le situazioni sgradite. Doveva combattere e soffrire; sputare sangue, se necessario.
Mi sono messo a cercare un lavoro per potermi pagare gli studi, come insegnavano gli altri
, e mi sono sentito rispondere che ci voleva la laurea che non avevo, oltre all’esperienza che non avevo avuto modo di fare.
L’unica possibilità, per un ragazzino come me, era buttarsi nel lavoro anima e corpo. Un lavoratore a tempo parziale non poteva ritenersi affidabile, a meno che non abbandonasse gli studi. È il mercato, bellezza.
Una volta lasciata l’università, mi sono sentito dire che nessuno avrebbe puntato su un ex studente: nel mondo del lavoro i rinunciatari non sono ben visti, specialmente chi viene dal liceo.
Non so come ho fatto a ricevere la prima proposta di impiego, dopo un lungo periodo da inoccupato. Editor e copywriter… in un certo senso è stato come vincere alla lotteria. Per qualche mese sono stato letteralmente al settimo cielo, ma poi è arrivato il precariato. Ho un ricordo particolarmente vivido di quel periodo: la generazione mille euro
, così ci chiamavano. Quelli che non avrebbero avuto una pensione, né una vera vacanza che non fosse solo una pausa tra un contratto e l’altro.
Di chi era la colpa? Nostra, ovviamente.
Eravamo figli di papà
che si erano messi in testa di fare finti lavori
, perché non avevamo voglia di rimboccarci le maniche. Un vero uomo sarebbe andato a zappare la terra o a fare il falegname, altro che università!
Così sono andato a fare l’operaio. Ho lavorato in condizioni estreme, ho conosciuto il mobbing e mi sono fatto venire i calli sulle mani. Speravo che almeno così sarei stato accettato e trattato