Guida senza patente
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Anteprima del libro
Guida senza patente - Daniele Marzano
teatro.
Premessa
Perché nasce questo libro
Perché mi piace scrivere e perché non so fare molto altro. Ma anche per smontare alcuni luoghi comuni cari alle persone comuni.
Quando sei single ti dicono che devi mettere su famiglia perché il tempo passa inesorabile. Quando ti fidanzi ti dicono che hai finito di divertirti. Quando ti sposi, che rimpiangerai la vita da fidanzatino. Quando fai un figlio, che rimpiangerai la vita da sposino. Quando il bimbo sta crescendo ti dicono che rimpiangerai i primi momenti, che sono i più belli
. Quando fai il secondo che la vita sarà impossibile.
La domanda di partenza, dalla quale ha avuto inizio tutto quanto, è: ma qual è la vita che vale la pena di essere vissuta per questi guru dell’egocentrismo? Io continuo a sposare la filosofia di Bruno Cortona nel film Il Sorpasso:
"A Robe’, che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta… si capisce".
Da questa idea nasce il libro. Un libro che vuole ridere e sorridere dei nostri vizi, delle nostre debolezze, ma anche di quei superpoteri che ti arrivano in dotazione nel momento in cui diventi genitore. Un libro che raccoglie racconti, riflessioni, aneddoti e pillole di vita quotidiana. La vita di un ragazzo sognatore, poi di un fidanzato, poi di un marito, poi di un padre e ora di un padre bis, che ha deciso di mettersi a nudo con tutte le sue certezze ma anche con le sue paure e debolezze. Con i suoi sogni e con le sue illusioni perché, fondamentalmente, sono e resto un illuso.
Ma un illuso che non smette e non smetterà mai di sognare.
Il manifesto dell’illuso
Io penso che il più grande male della civiltà moderna sia la disillusione.
Siamo ormai disillusi da tutto: i politici sono corrotti, i cristiani retrogradi, i migranti ladri, i musulmani terroristi, gli ebrei usurpatori, gli sportivi dopati; i medici al soldo delle lobby, i professori inadatti, gli arbitri venduti, i media manipolatori, le donne facili, gli uomini buoni a nulla, le mamme un peso sul lavoro, i mariti traditori, la famiglia un luogo inutile, i vecchi un peso e i giovani vuoti a perdere.
Il calcio è finto, la politica è finta, la religione è finta, i concorsi sono finti, la scuola è finta, l’amore familiare è finto, l’amore in generale è finto… siamo stati bravi, grazie alla cronaca, ad amplificare i casi negativi che riguardano una piccola minoranza di queste categorie e, di conseguenza, siamo stati bravissimi a creare un vuoto. Un vuoto cosmico. Poi ci stupiamo se le nuove generazioni provano a riempire questa enorme voragine con il mito del soldo facile, del compromesso per tutto fino ad arrivare, nei casi peggiori, a giochi suicidi o follie simili.
E se invece provassimo a smettere di essere disillusi e tornare a illuderci? Ad amare con il sorriso, pregare con il sorriso, accogliere con il sorriso, fare figli con il sorriso, lavorare con il sorriso, insegnare con il sorriso, imparare con il sorriso, governare con il sorriso, tifare con il sorriso e persino illudersi con il sorriso?
L’infelicità di troppe esistenze amplifica i mali del mondo e, spesso, l’infelicità nasce proprio dalla disillusione. Dalla mancanza di speranza.
Lasciatemi continuare a essere un povero illuso, uno che ci ha sperato e non un disperato. Uno che ha sempre cercato il lato comico della vita, o quantomeno quello tragicomico.
1. Introduzione
Ma chi sono davvero?
Sono Daniele Marzano, così è scritto sui miei documenti, e ho trentatré anni appena compiuti. Devo cambiare lo spazzolino da denti ogni due settimane, mi si bucano sempre i jeans in mezzo alle gambe, macchio quasi sempre i vestiti con l’olio, le tovaglie con il vino e non so abbinare i colori del mio guardaroba. In macchina mi innervosisco quando cambio tutte le stazioni radio e non trovo musica, ma solo gente che parla a vanvera. Invece, quando parcheggio, abbasso il volume e mi innervosisce la macchina dietro che mi pressa mentre faccio manovra. A dire il vero mi innervosisco anche quando al semaforo scatta l’arancione mentre sto arrivando e non so mai se accelerare o fermarmi.
Mi emoziono con i canti di Pasqua, le canzoni di Baglioni, dei Queen e con i film di Massimo Troisi e Totò. Mi sale una rabbia dentro quando sento i cori che inneggiano al Vesuvio, quando i programmi comici vogliono far ridere a tutti i costi ma non ci riescono. Vedo solo la parte buona delle persone e quindi non riesco a superare alcuni traumi infantili, tipo Scar che ammazza il fratello Mufasa nel Re Leone, oppure scoprire che Marco Columbro non stava con Lorella Cuccarini.
Mi faccio truffare
facilmente da tutti. Ad esempio da mia madre, che sostiene che la parmigiana di melanzane sia un contorno, da De Laurentiis, che sostiene che prima o poi vinceremo lo Scudetto, dai politici in campagna elettorale e dagli utopisti che parlano di pace.
Ho tanti altri difetti, tipo che a calcetto mi arrabbio se mi dicono sempre cosa devo fare; inoltre, mentre ascolto una canzone, ho bisogno del silenzio totale e se mi piace la riascolto in loop ottanta volte. Non ho capacità di sintesi e spesso scrivo sui social spataffiate che non so terminare, magari sui conflitti in Medio Oriente o sull’ultima giornata di campionato.
È così che mi sono reso conto di avere bisogno di più spazio e che è arrivato il momento di scrivere un libro.
Iniziamo il viaggio spericolato…
Prima di affrontare i veri sconvolgimenti della mia vita facciamo un passo indietro. Torniamo ai miei ventotto anni, quando non sapevo ancora che cosa si sarebbe abbattuto su di me.
Ero un ragazzo come tanti, pieno di energia, ma anche pieno di domande e dubbi sul futuro. Avevo appena ottenuto il mio primo contratto serio di lavoro dopo settantacinque stage, tre co.co.pro., tempi determinati, progetti, sostituzioni di maternità e un viaggio a Londra con il mio amico Giuliano, nel quale ci ritrovammo a vendere borse da donna per un marocchino nella stazione di Charing Cross. Poi, per migliorare l’inglese, lavorammo pure alla famosa pizzeria londinese Rosso Pomodoro, dove la parola più british che si poteva pronunciare era enjoy o al massimo: «Don’t put the parmisan on spaghetti all’astice!».
E dove, a ben vedere, il mio unico gesto memorabile fu rovesciare un piatto di tonno pieno d’olio sul maglioncino in cachemire di una signora londinese.
Rientrato in Italia, dopo pochi mesi trovai, anche grazie al mio inglese sfavillante, fidanzata e lavoro in un colpo solo. Mi bastò dire: «I love you» sia a