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La seconda vita di derek johnson
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E-book353 pagine5 ore

La seconda vita di derek johnson

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Info su questo ebook

Derek Johnson ha i giorni contati: costretto nel letto d’ospedale da una malattia incurabile, ripensa alla sua esistenza e si rende conto di non aver vissuto la vita che voleva; la paura lo ha sempre spinto a rinunciare a qualunque cosa rendesse la vita degna di essere vissuta. Ora, però, è troppo tardi per cambiare le cose o almeno questo è quello che crede Derek. Dopo essersi addormentato, si risveglia come quindicenne nella sua vecchia camera da letto e, senza spiegarsi come tutto questo sia possibile, non esita a vivere la vita che ha sempre voluto. Ogni esperienza, ogni emozione, ogni ambizione, tutto è di nuovo possibile, tutto può essere corretto. Derek, in poco tempo, si accorge che niente è fuori dalla sua portata e inizia a credere di poter eliminare quella paura che gli ha sempre tarpato le ali. Convinto di poter fare qualunque cosa, Derek è più che mai intenzionato a portare a termine quell’ambizioso progetto che, nella sua prima vita, non ha mai avuto il coraggio di iniziare…
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2014
ISBN9788868855383
La seconda vita di derek johnson

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    Anteprima del libro

    La seconda vita di derek johnson - Franco Barbieri

    DONO

    CAPITOLO FINALE

    E poi, per tutti, arriva la fine. Arriva quel momento in cui ci si trova sdraiati su un letto d'ospedale, senza nessun potere, senza nessuna speranza; è incredibile quanto arrivi alla svelta questo momento, come se cinquantasei potessero passare in un secondo. L'unica compagnia che possiedi sono i figli che passano ogni tanto per verificare se sei ancora vivo. In questo modo l'unica cosa che ti rimane da fare è affogare nel passato, rivedere tutta la tua vita come se fosse un film di cui conosci già la fine: quante cose correggerei in questo momento. Quando si è giovani viene da pensare che tutto sia possibile, che niente abbia delle conseguenze, che la vita non finisca mai; non ci si sofferma nemmeno un secondo a pensare che prima o poi saremo nello stato in cui sono io adesso, ad utilizzare i se e i ma con una frequenza spietata e sconfortante…noi vecchi confondiamo di continuo i nomi dei nostri nipoti, ci scordiamo dove abbiamo lasciato le nostre cose, non sappiamo nemmeno distinguere un gatto da un cane; è questo quello che la gente dice di noi e ha ragione, ma una cosa che non sanno è che siamo in grado di ricordare la vita in ogni più piccolo dettaglio meglio di chiunque altro: un giovanotto di quindici anni non saprebbe ricordare il giorno prima meglio di quanto io non riesca a rivivere qualcosa successo quarant'anni fa; è il nostro unico dono è questo.Penso e ripenso alla mia vita, trovando infinite cose che cambierei senza nemmeno pensarci, senza nemmeno pormi il problema del giusto o dello sbagliato. Non penserei a niente se non a quello che voglio fare per davvero, tutto il resto è una perdita di tempo. Rimpiango molte cose, sopratutto il fatto di non aver avuto un minimo di follia, un minimo di menefreghismo, di pericolo, di esperienza…mi sembra di aver vissuto la stessa vita di un criceto in una gabbia, impotente nell'avverare i propri sogni perché spaventato all'idea stessa di sognare. La cosa peggiore è che ho rinunciato a un sogno, un sogno il cui pensiero mi fa rabbrividire adesso, perché ormai le mie chance per realizzarlo sono finite. Non riesco nemmeno a pensarci, fa troppo male, come se il rimpianto fosse un coltello conficcato nel cuore, che gira e rigira ogni volta che viene nominato...

    Nessun giovane sarà mai in grado di capire il messaggio che le persone della mia età cercano di impartirgli: vivete la vita, cogliete il momento, non fatevi influenzare da nessuno e perseguite i vostri sogni…ora che sono vecchio anche io, proprio come tutti gli altri, mi rendo conto che queste preziose lezioni non si possono ascoltare ma soltanto imparare, quando ormai è troppo tardi. Mi viene in mente tutto quello a cui ho rinunciato, per paura, per orgoglio, perché obbligato da altri, perché non mi sentivo all'altezza, perché influenzato dalle opinioni di qualcun altro…che stupido idiota! Mi innervosisco a pensare che solo adesso, solo adesso che non posso farci più niente, il mio atteggiamento era sbagliato…se solo potessi tornare indietro nel tempo quante cose farei, quante esperienze in più donerei alla mia esistenza: sento di non essere riuscito a saldare il debito con la vita, come se, nel momento in cui sono venuto a questo mondo, Dio mi avesse concesso qualcosa di grande a cui non ho reso giustizia, qualcosa che ho rifiutato, ho gettato via senza pensarci: praticamente sono un neonato che è passato alla vecchiaia saltando quella cosa chiamata esistenza. Il problema più grande è che ho vissuto esattamente quello che chiunque chiamerebbe vita perfetta: Sono sempre stato uno studente modello, timido e impacciato, sempre immerso in quegli studi che in un modo o nell'altro ritenevo sacri e vitali senza sapere il motivo esatto. Non ho mai avuto molti amici perché nessuno voleva uscire con un secchione, un cervellone: il fatto è che non sono mai stato un genio ma ero semplicemente molto diligente, facevo quello che persone più rispettabili di me dicevano di fare. Se un professore mi diceva di studiare cinque ore al giorno lo facevo, se mia madre mi diceva di pulire la mia stanza lo facevo, se mio padre mi diceva di prendere un voto più alto io studiavo di più e lo prendevo: diventavo sempre più bravo in qualunque cosa ma non era mai abbastanza per il mondo intorno a me. Ho resistito a qualunque tentazione la vita mi offrisse: niente alcool, niente droghe e niente sesso…o meglio, niente sesso prima dei ventidue anni. Ricordo ancora il giorno in cui la vidi per la prima volta: avevo diciannove anni e stavo studiando fisica su un tavolino da solo, come ero sempre stato in vita mia; non c'era mai un posto libero all'università quindi quella splendida ragazza con i capelli rossi doveva sedersi vicino a me, un quattr'occhi ingobbito dallo studio vestito con gli abiti del nonno defunto. Il cuore mi batteva all'impazzata, solamente per via della sua presenza: d'altronde non avevo mai avuto una ragazza così vicino a me prima d'ora. 

    Scusa, mi potresti aiutare con questo problema? Mi sta facendo impazzire!

    Nel momento in cui sentì la sua voce rivolta a me ero talmente incredulo ed eccitato che provai per la prima volta quello che le persone chiamano scarica di adrenalina.

    S-s-s-sì beh, certo… d-d-d-d-dunque, fammi dare un' o-o-o-occhiata, risposi balbettando come un ritardato, soffrendo della carenza di dialogo degli ultimi diciannove anni. 

    Lei mi guardò per un istante e rise fragorosamente, facendomi rivivere il solito flashback: appena qualcuno ha modo di parlare con me, in pochi secondi, riesce ad accorgersi di quanto sia ridicolo.

    Come ti chiami?, chiese lei sorridendo. 

    Io deglutì ancora più agitato e solo dopo qualche istante risposi: D-d-derek…, guardai in basso, intimidito da un tipo di dialogo a cui non ero abituato.

    Rilassati, non ti mangio mica!, disse lei divertita da quello sgorbio che si trovava davanti.

    Comunque io sono Jodie, aggiunse lei porgendomi la mano. Rimasi immobile per qualche istante e poi, con uno sforzo, le allungai la mano anche io, per poi stringere la sua.

    Allora, mi aiuti con quel problema adesso che hai visto che non mordo?!, mi chiese mostrando subito la sua indole spiritosa. La aiutai e, in meno di dieci minuti, avevo risolto l'esercizio.

    Ma tu sei un genio!, gridò lei entusiasta. 

    Sentì di arrossire, il che la fece ridere ancora. Passammo due ore insieme, durante le quali mi chiese un sacco di cose su di me, sulla mia vita e su come passassi il tempo. Le risposte che diedi erano parecchio monotone e scontate, per lo più dette con quel tono a metà tra imbarazzo e terrore: era la prima volta che parlavo con una ragazza. Quando mi salutò per andare a casa mi sentì sollevato, come se mi fossi tolto un peso. I giorni a seguire, però, quella ragazza mi sorprese ancora, sedendosi sempre di fianco a me in qualunque posto del campus. Mi chiedevo come mai le piacesse tanto passare del tempo con me. Stava di fatto che la sua compagnia iniziava a piacermi davvero tanto, il che mi permise di migliorare la mia capacità di dialogare, fino a renderla quasi normale: in pochi mesi imparai cosa fosse il sarcasmo e iniziai a fare battute, un'altra cosa nuova per me. Non ci volle molto e diventammo inseparabili, sempre insieme, l'uno accanto all'altra: iniziammo a fare discorsi seri e profondi, nei quali ci facevamo ogni genere di domanda. Le chiesi cosa ci trovasse in me e la sua risposta fu sorprendente:sei una brava persona…; non avevo mai considerato che questa potesse essere una qualità. Non ci lasciammo mai, non litigavamo nemmeno: sembravamo fatti per stare insieme per sempre e, in effetti, è quello che avremmo fatto; gli anni passarono e, in un batter d'occhio, eravamo già laureati, sposati e con un mutuo da pagare. Io insegnavo fisica all'università mentre lei si iscrisse anche a medicina, facoltà nella quale si laureò a pieni voti, per poi diventare uno stimato medico: tutti ci consideravano una coppia perfetta. Giorno dopo giorno ripetevo le stesse identiche cose a ragazzi che probabilmente mi invidiavano e prendevano esempio da me: avrei dovuto insegnarli a cambiare eroe perché, a conti fatti, la mia vita non mi piaceva. Purtroppo, prima di rendermene conto, avevo due famiglie, quella in cui sono nato e quella che avevo creato io. Dovevo pagare le cure sanitarie di mia madre e la retta mensile dell'ospizio in cui abitava mio padre, ma non era tutto; dovevo pagare il mutuo della mia casa, le rate della macchina mia e quella di Jodie. Dovevo soddisfare i desideri dei miei figli, Joe e Samantha, insegnare loro tutto quello che sapevo sulla vita e nello stesso tempo garantirgli un futuro. Ogni anno, sotto il periodo di Natale, dovevo sorbirmi tutte le raccomandazioni di Jodie sui regali da fare a mezzo mondo, scapicollare da una parte all'altra della città per i più svariati motivi e pagare, pagare e pagare: la mia vita divenne soffocante e, dovunque fossi, ero al servizio di qualcuno, a tempo pieno. I miei successi all'università come professore/ricercatore aumentarono sempre di più e la mia vita divenne sempre più come io non volevo: le persone si erano appropriate di me in qualche modo e non avevo più la libertà, un valore che sembra essere sempre più vitale quando si vive come ho vissuto io. I figli crescono, così come le spese per mantenerli; guadagnavo sempre di più e pagavo sempre di più. Jodie mi obbligò a prendere una villetta al mare all'età di quarantacinque anni con quel metodo che utilizzano sempre le donne per ottenere qualcosa: ti fanno pressione con quei sorrisetti mezzi accennati, giorno dopo giorno, finché tu, stremato, cedi alle loro richieste perché, in caso contrario, apriresti un litigio senza limiti, accorgendoti che quei sorrisetti servivano solo a celare le ringhia che ti avrebbero riservato nel caso tu non avessi accettato. Non volevo farlo ma accesi un altro mutuo e presi quella villetta che non volevo, in quel luogo dove prendevo un eritema dopo cinque minuti, solo per fare contenta mia moglie e i miei figli. Ebbi il primo ictus alla terza rata di quel mutuo, e non perché non lo potessi pagare: a dire la verità non c'era un motivo logico per spiegarlo; i miei figli erano ormai laureati e sistemati, mia moglie mi amava e io divenni uno dei ricercatori più apprezzati della mia università; ebbi quell'ictus e basta, finché la mia vita divenne questo, un susseguirsi di malattie, una dopo l'altra, fino a ridurmi nello stato in cui sono ora, un morto vivente con pochi giorni di vita.

    Ciao papà, come stai?, disse mio figlio spuntando nella mia stanza con quello sguardo interrogativo con cui si guarda uno come me.

    Non mi lamento, risposi mentendo spudoratamente. Joe si siede vicino a me, guardandomi con quegli occhi lucidi che denunciavano la sua tristezza nel veder morire il padre.

    Ti prego non guardarmi così, figlio mio, ho vissuto una vita piena…, dissi, pensando a cosa non direbbe un genitore pur di evitare ai figli la verità. Il suo sguardo non cambiò e nemmeno il mio: lo guardavo e vedevo sua madre, aveva preso tutto da lei, proprio tutto. Persino il carattere era completamente diverso dal mio, come se i miei geni non fossero nemmeno stati presi in considerazione; in effetti è meglio così: il tipo di vita che ho vissuto non la auguro a nessuno. Dopo pochi minuti arriva anche Samantha…stesso sguardo, stesse frasi. Anche lei aveva preso poco da me e molto da sua madre, il che funge da prova di quel che ho detto prima. Cerco di consolarli, di dirgli che non dovevano sentirsi in pena per me, ma più ci provavo più quegli occhi lacrimavano; non davo loro tutti i torti, poiché nel giorno in cui io persi mio padre ero nel loro stesso identico stato.

    Avvicinatevi a me…, dissi tossendo. Volevo che le ultime parole che sentissero da loro padre fossero il mio disperato tentativo di fargli capire come una persona dovrebbe vivere la propria vita: dovete promettermi…dovete promettermi che quando io non ci sarò più voi vi impegnerete a vivere la vita nel modo più difficile…. Il loro sguardo interrogativo è comprensibile ma, quando la tosse che mi ha interrotto smetterà, avrò modo di chiarire:...intendo dire in maniera che nessuno vi dica cosa fare, quello lo dovete scegliere voi: fidatevi dei vostri istinti, non abbiate paura di accettare i vostri sogni e affrontate le vostre paure, sempre e comunque, non ve ne pentirete: dietro le nostre paure si nasconde la felicità… non lasciatevi ingannare dai falsi miti e non lasciatevi suggestionare da chi sembra più felice di voi, perché spesso non lo è…credetemi questo è lo stile di vita più difficile, quello in cui l'unica guida che si possiede è dentro di noi…. Iniziai a tossire sempre più forte, come se le poche parole che ho detto andassero punite dal mio severo organismo morente. Loro annuirono, ma mi basta un solo sguardo per capire se ho avuto successo o meno: purtroppo non l'ho avuto. Vedo nei loro occhi solo l'apprensione e il compatimento per un vecchio moribondo senza nessuna speranza, a cui dire sì più per obbligo che per altro: in fondo chi mai si metterebbe a discutere con il proprio padre prima che muoia? Cristo santo, quanto è difficile la vita…i miei figli mi salutano, io saluto loro e mi ritrovo solo, come al solito. Di colpo una grande stanchezza mi pervade completamente e io cedo volentieri; il sonno è il rimedio naturale che vale per tutte le età e per qualunque disagio: smettere di pensare per un momento è l'unica medicina efficace che io abbia mai conosciuto...

    UNO STRANO RISVEGLIO

    E poi, all'improvviso, il rumore della sveglia che suona interrompe il sonno che avevo ottenuto con tanta fatica…un momento: non ricordavo che in ospedale ci fosse una sveglia! Che strano: qualcosa non torna. Allungo il braccio per prenderla in mano e farla smettere. Non so ne come ne perché ma so esattamente quale pulsante premere e, di colpo, l'oggetto che non pensavo nemmeno di possedere mi è familiare, come se lo avessi già visto: eppure non ho nemmeno aperto gli occhi. Il suono smette e nella stanza regna ancora il silenzio…aspetta un secondo: non dovrebbe esserci silenzio in questa stanza. La prima cosa che sento quando mi sveglio in questo dannato ospedale è la voce di quell'infermiera, che urla come una forsennata. Di colpo apro gli occhi, convinto che i farmaci con cui mi rintontivano non bastassero a giustificare il senso di stranezza che sto provando. Intravedo un ambiente familiare tra l'oscurità di questa stanza e non è l'ospedale. Mi alzo dal letto e vado verso la tapparella per far entrare un po' di luce; sempre più stupito dal posto in cui mi trovo continuo a camminare, non potendo credere a ciò che mi si stava presentando davanti agli occhi. Non riesco a spiegarmelo, eppure sembra proprio quello che penso. Con una forza che non pensavo di avere più alzo la tapparella e il rumore di quel cigolio, unito alla luce che filtrava poco a poco nella stanza, conferma quello che fino a due minuti prima era un semplice e vago pensiero: vedo la mia vecchia camera, quella di quando ero ancora un ragazzo. E' incredibile: è tutto come lo ricordavo, ogni minimo particolare è vivido e perfetto. Mi ero scordato di come mi piacesse l'ombra che proiettava il sole alle prime luci del mattino contro la parete di fianco al letto. Inizio a sorridere, convinto che la mia fosse solo una visione, un sogno, qualcosa scaturito da uno stato mentale alterato o comunque non ordinario. Sono sicuro che tra poco mi sveglierò nel mio sudicio letto d'ospedale, ancora intrappolato tra vita e morte…nel frattempo, però, non vedo il motivo per non godermi questo scherzo mentale. Inizio a muovermi in quell'ambiente, piano piano, quasi come se fossi impaurito dal mio passato, un po' come un ragazzino che viene incoraggiato ad accarezzare una tigre che sa essere amichevole e addomesticata. Sfioro tutti i miei vecchi oggetti, provando una sorta di flashback per ognuno di essi. Ad un certo punto sento gridare:Derek, fai tardi a scuola, datti una mossa!. Per un momento la gioia mi pervase completamente: corro nell'altra stanza e abbraccio mia mamma con tutte le mie forze, contento come non mai di vedere il suo viso giovane e sorridente, come un tempo.

    Derek, ma cos'hai stamattina, sei impazzito?!, disse lei appoggiando la scopa alla parete. Senza curarmi di ciò che stavo per dire rispondo quasi istantaneamente:mamma, ti voglio bene, lo sai questo vero?! Sei e sarai sempre una delle persone più importante della mia vita.

    Ma certo che lo so Derek!, rispose lei con uno sguardo a metà tra stupore e affetto. Non riesco proprio ad immaginare cosa si stia chiedendo in questo momento. L'ultima volta che avevamo parlato discutemmo sul lavoro da ingegnere, il primo che mi fu offerto: lei insistette per farmelo accettare a tutti i costi senza nemmeno sapere cosa ne pensassi io, che per altro non volevo accettarlo minimamente; non ebbi il coraggio di dire quello che pensavo, convinto che il mio dovere fosse cedere alle sue richieste in virtù del fatto che era proprio questo che lei si aspettava da me come figlio perfetto. Morì pochi mesi dopo di tumore al cervello, mentre io stavo svolgendo un lavoro in Germania. Nessuno mi volle dire niente e fui tenuto all'oscuro di tutto, in maniera tale che potessi concentrarmi su uno dei lavori che, secondo tutti, non poteva essere mandato a monte per via di una madre morente: ancora oggi il pensiero di come sono stato trattato mi manda su tutte le furie, eppure nessuno lo ha mai saputo, nessuno mi ha mai visto andare su tutte le furie… ricordati la merenda mi raccomando!, disse lei, riportandomi sulla terra. Merenda? In che senso? Solo ora mi accorgo che se voglio continuare questo sogno devo avere più informazioni.

    Scusa mamma, quanti anni ho?!, chiedo noncurante delle conseguenze. Mi perdo nel suo sguardo allibito e prendo paura quando la sua voce altisonante risuona nella casa:ma sei scemo?! Smettila di perdere tempo e vai a scuola! Guarda te cosa devo sentirmi chiedere!.

    D'accordo mamma, vado!, dissi io per non destare più alcun sospetto. Prendo lo zaino che sapevo essere sulla soglia della porta, come tutte le mattine. Appoggio la mano sulla maniglia e, nel farlo, noto una cosa che mi aveva sempre infastidito in quella casa: quei maledetti pacchetti di sigarette, con quei loro messaggi allarmistici che, purtroppo, avrebbero avuto ragione. Col senno di poi la vista di quei fottuti contenitori mi fece innervosire e mi riportò alla mente vecchi ricordi: il fumo può essere causa di vari tumori, non iniziare!… chi l'avrebbe detto che la frase scritta lì sopra avrebbe portato così sfortuna. In quel momento penso di fare una cosa che mi ha sempre spaventato ma, nello stato in cui sono ora, niente ha più importanza: prendo l'accendino dal tavolino e, con un gesto fulmineo, do fuoco al pacchetto per poi gettarlo in terra. Subito dopo uscì dalla porta dicendo a mia madre:smettila di fumare, è pericoloso!. Il suo sguardo prima impietrito diventa furente mentre inizia ad urlarmi addosso le cose più oscene che una persona possa sentire. Corre come una pazza alla ricerca di qualcosa per spegnere l'incendio che avevo provocato, mentre io esco dalla porta in tutta calma, dicendo:a dopo mamma!. Mi sento bene nel fare ciò che ho fatto: chi l'avrebbe mai detto che nel seguire i propri istinti si ottenesse un risultato così soddisfacente? Mentre camminavo verso la scuola senza nemmeno sapere la mia età inizio a toccarmi le mani, le braccia, la faccia e tutto ciò che prima era ricoperto da una grande quantità di rughe: quanto è bello essere ancora giovani e pieni di vita. Più cammino e più mi accorgo di quello che ho gettato via. Raggiungo la scuola, chiedendomi in quale classe dovessi andare: sapevo di essere alle superiori, ma non so in quale anno…è un bel problema: in che modo avrei potuto chiedere a qualcuno dove dovessi andare? Mentre mi scervello per capire cosa fare sento una forte botta arrivarmi da dietro, seguita immediatamente da una risata di gruppo. Raccolgo gli occhiali, mi giro e rivedo una mia vecchia conoscenza: Randy…lo stupido bulletto che mi ha rovinato il secondo anno di scuola superiore.

    Accidenti che sfigato!!, urlarono i suoi amici. Avevo sempre detestato quella combriccola di idioti ma non ho mai reagito, un po' per non finire nei guai e un po' perché era l'ennesima cosa che sentivo di non dover fare. Il non dover fare è ciò che ha condizionato tutta la mia vita ma qui, adesso, ho un'altra occasione. Sento il nervoso che attanaglia il mio corpo come una morsa che non ha alcuna intenzione di alleviare la presa. Stringo i pugni mentre i ghigni e le risate di quegli scemi mi fanno pensare a come sarebbe bello vedere quelle bocche senza denti. Prendo un bel respiro e una bella rincorsa, convinto di poter fare quello che voglio: mi lancio e tiro un pugno a Randy con tutte le mie forze. Sento un forte dolore alla mano mentre il mio avversario cade a terra come un sacco di patate. Quando lo vedo rialzarsi infuriato capisco di non aver considerato bene le conseguenze del mio gesto: provo una grande paura adesso e ho come la sensazione che, in due minuti, mi sarei ricongiunto al letto d'ospedale che avevo appena lasciato…o almeno credo…mentre si avvicina a me arrivano due professori, di corsa, con la fronte corrucciata.

    Randy! Lascialo stare! E voi andatevene in classe, subito!, urlò uno di loro mentre l'altro lo stava fermando.

    Di questo passo puoi stare certo che ti espelleremo!!, aggiunse. Ci vollero due minuti buoni per calmare quell'armadio imbufalito ma, quando la tensione si abbassò, capì di avercela fatta.

    Non finisce qui bastardo!! Ci rivedremo! mi disse Randy guardandomi negli occhi. Solo ora, ascoltando l'ultima frase di quel coglione, mi rendo conto di quanti anni ho: sono un quindicenne che va in seconda superiore. Lascio la scena del combattimento per dirigermi nell'aula A, quella in cui, per quanto mi ricordi, passai il secondo anno di superiori. Quando arrivo, ancora una volta, ogni oggetto, che fosse un banco, un cancellino o anche una sedia, mi fa rivivere una sorta di flashback, riportandomi alla memoria un sacco di momenti che pensavo di aver cancellato. Saluto tutti i miei compagni, di cui ricordo ancora nomi e cognomi. Mi siedo e tiro fuori tutto il materiale per la lezione, come avevo sempre fatto. Quando il professore entrò e si mise a fare lezione, provai una strana sensazione, una sorta di noia unita a un accenno di irrefrenabile di nervosismo: solo adesso mi rendo conto di come non abbia mai sopportato la scuola, di come tutti quei bei voti non mi dessero alcuna soddisfazione, di come trovassi inutile ogni materia, ogni cosa che quei falliti cercavano di insegnarmi. Non potevo sapere che sarei diventato uno di loro e, se l'avessi saputo prima, avrei cercato di impedirlo con tutte le mie forze. Mi avevano convinto che la vita che effettivamente avrei vissuto mi avrebbe reso l'uomo più felice del mondo, ma non è stato così: non è passato un solo giorno in cui diedi loro ragione. Pensavo a quanto le persone fossero riuscite ad ingannarmi e a farmi fare tutto ciò che non volevo, come se fossi il loro burattino. Forse questo è solo un sogno ma, in pochi minuti, mi ha fatto capire l'unico stile di vita che un uomo dovrebbe avere. Solo ora mi sento veramente vivo, sicuro che ciò che mi suggerisce l'istinto, dopo tutto, sia la cosa migliore da ascoltare. Chiudo il libro e appoggio la testa sul banco, mentre quella noiosissima lezione di storia procedeva sempre più lentamente; non vedo l'ora che finisca così che io possa godermi la vita là fuori, quella vita che ho sempre guardato scorrere come un treno sulle rotaie a massima velocità. Le ore trascorsero lentamente e, quando giunsero al termine io me ne andai di fretta, anche per non incontrare Randy, che di sicuro ha già pianificato il mio omicidio. Penso che potessi anche uscire prima, perché di sicuro questo stato mentale non durerà ancora molto...eppure è tutto così reale che non riesco a comportarmi come se tutto questo fosse meno di una vita. il che non ha senso, perché io una vita l'ho già avuta. Non so cosa pensare, sono troppo confuso in questo momento. Continuo a camminare e, nel tornare a casa, vedo una persona di cui mi ero dimenticato, che in un certo senso non aveva mai meritato la mia attenzione: lo spacciatore dietro il negozio di liquori a due isolati dalla mia scuola. Per anni l'avevo visto vendere a dei ragazzini quei sacchettini verdi, che andavano a ruba per chissà quale motivo. Ovviamente io non mi ero nemmeno sognato di provare quella roba, troppo spaventato e troppo influenzato dalle persone che, in un modo o nell'altro, dicevano che droga volesse dire solo morte. Ci avevo sempre creduto, ma adesso come adesso, se considero che a forza di seguire i loro consigli mi sono ritrovato morente a nemmeno sessant'anni, devo dire che forse è il caso di cambiare idea e che, a conti fatti, la droga non può farmi più male di tutti i consigli sbagliati che mi hanno fatto male per davvero; e poi volevo provarla e basta, per curiosità. Mi dirigo verso di lui, ancora intimorito per quel che ho in mente di fare. Quando fui a pochi metri deglutì spontaneamente e dissi:mi dai un po' di droga?.

    Certo amico, quanto vuoi?. Non so cosa rispondere perché non ho proprio la più pallida idea di quanto sia la dose necessaria.

    Abbastanza…, risposi come un allocco.

    Dai fratello non farmi perdere tempo, un grammo, due, tre dimmelo tu!.

    Uno!, risposi in maniera secca, dicendo a me stesso che la prima volta fosse meglio acquistare la dose minima disponibile.

    Ok sono dieci dollari. Tiro fuori i soldi, glieli do, prendo la bustina e me ne vado subito, in fretta. Arrivo a casa praticamente correndo, fortemente spaventato da ciò che ho nella tasca destra dei miei pantaloni: questa è stata la prima cosa illegale che abbia mai fatto in vita mia...devo dire che non è stato così difficile. Torno a casa, dove mia madre mi urla contro per ciò che ho fatto stamattina anche se io sono troppo impegnato a salutare mio padre, che ricevette da me la stessa accoglienza calorosa che avevo riservato a mia mamma oggi: credo che i miei si siano già accorti che non sono più il figlio a cui sono abituati. Domani, se ben ricordo, mia mamma avrebbe lavorato fino a tardi, così come mio padre, il che mi avrebbe permesso di provare quella sostanza in santa pace, senza nessun pensiero. Inizio a guardare su internet tutti i modi possibili per assumere marijuana, scoprendo che ce n'erano veramente un'infinità. Annoto ciò che avrei dovuto prendere domani dal tabacchino, ancora poco sicuro che sarei

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