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Anonimi eroi
Anonimi eroi
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E-book393 pagine4 ore

Anonimi eroi

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Anonimi eroi è un romanzo corale, apparentemente scisso in due storie distinte e consequenziali, ambientate in paesi che l’autore ha visitato nella sua veste di volontario impegnato in progetti per conto della fondazione laica Mission Bambini. A una lettura attenta, però, le due vicende si ricompongono in un unico quadro in cui tutti i personaggi, in un modo o nell’altro, si rivelano degli anonimi eroi che cercano nel loro piccolo di forgiare il proprio destino traendo insegnamento dagli errori passati, godendo delle sorprese inaspettate che la vita regala ogni giorno. Soprattutto, acquisiscono la consapevolezza che si può cambiare il corso della vita, anche quando tutto sembra ormai compromesso.
La prima storia corrisponde a un viaggio in Madagascar. Qui si intrecciano le vicende di: Eric Parfait, un bambino povero che sogna di poter aiutare la famiglia; Clementine, una suora francese che non demorde di fronte alle ingiustizie della società; Eugenio Camperio, un industriale italiano che vede nel traffico di zaffiri un’occasione di guadagno e di redenzione. Insieme fronteggeranno la Mano Rossa, un’organizzazione paramilitare guidata dal misterioso Generale.
La seconda storia è invece un viaggio ambientato in Ecuador. Ne sono protagonisti: Ilario Vitecchi, un giovane partito per fare volontariato e per mettersi alla prova, assistente di Eugenio Camperio; Cindy Ruiz, una ragazza ecuadoregna alla ricerca della verità sulla propria identità; Edison, suo padre, un mite pescatore invischiato, suo malgrado, in un traffico di droga. Sullo sfondo la Petroamazonas, una multinazionale nel settore dell’energia e degli idrocarburi.
In un crescendo di emozioni e di avventure, si dipana un romanzo atipico capace di risvegliare le coscienze.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927450
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    Anteprima del libro

    Anonimi eroi - Luca Novara

    2020

    Viaggio numero uno

    L’oro blu

    1

    Nei dintorni di Ampahimanga - 22 novembre

    Ancora non riusciva a capacitarsi di come un sogno potesse tormentarlo in quel modo.

    Eric continuava a svegliarsi con le immagini di una foresta sconosciuta che gli frullavano davanti agli occhi e si domandava quale significato avessero. Perché doveva essercene uno per forza.

    Tutto ciò che gli pareva di ricordare era una corsa sfrenata con qualcuno che lo inseguiva e poi niente altro. Al risveglio gli rimanevano soltanto il cuore che batteva forte, fiato corto e una patina di sudore su tutto il corpo.

    Quella mattina era rimasto a rifletterci su, senza accorgersi che si era fatto molto tardi e non sarebbe riuscito ad arrivare a scuola in orario.

    Quando uscì all’aria aperta il sole aveva già iniziato il suo viaggio nel cielo e un forte odore di bagnato gli solleticava le narici. Durante la notte doveva aver piovuto più del solito perché i piedi di Eric scivolavano sul fango rosso del sentiero di terra che portava a Ampahimanga, mentre lui correva per recuperare il tempo perduto. Una gallina e il suo seguito di fedeli pulcini gli attraversò la strada all’improvviso, facendogli quasi perdere l’equilibrio, ma Eric era allenato e flessibile e con una sterzata brusca riuscì a scansarli, proseguendo il cammino.

    Non voleva arrivare in ritardo per un sacco di buone ragioni: la prima era che toccava a lui quella settimana essere il primo della fila della sua classe e ne era onorato, la seconda e la più importante era che quella mattina Suor Clementine li avrebbe salutati prima di partire per qualche settimana per Antananarivo e non poteva perderselo per nulla al mondo.

    Eric voleva molto bene a Suor Clementine per tutto quello che aveva fatto per lui e per la sua famiglia da quando era arrivata a Ampahimanga e si sentiva costantemente in debito con lei.

    L’aveva conosciuta quando era ancora a Sarodroa, circa un anno prima, ed era rimasto immediatamente colpito dalla serenità dello sguardo e dal modo in cui si era presentata a tutto il villaggio. La prima volta non aveva detto una sola parola. Aveva preferito rimboccarsi le maniche e aiutare l’autista a scaricare i sacchi contenenti il riso, il carbone e le altre risorse necessarie alla vita degli abitanti. Lui era insieme agli altri bambini ed erano rimasti a bocca aperta a osservare ogni piccolo movimento compiuto da quella donna dalla forza inaspettata.

    Inoltre Eric non aveva mai conosciuto una suora bianca prima di quel momento e non si capacitava che fosse venuta a Sarodroa per dare una mano a gente come loro. Da quello che aveva sentito dire da certi adulti, i bianchi non volevano mischiarsi perché si sentivano superiori e li consideravano soltanto come persone da sfruttare o da compatire. Eppure Suor Clementine aveva subito dimostrato di pensarla molto diversamente e, mai una sola volta, Eric si era sentito a disagio nello stare in sua compagnia.

    A quei tempi lui aveva dieci anni e aveva sempre vissuto in quel villaggio di montagna con la madre e i sette fratelli, di cui era il maggiore.

    Man mano che i giorni erano trascorsi, Suor Clementine aveva preso confidenza con le abitudini del luogo e aveva iniziato a farsi conoscere non solo dagli adulti, ma anche da tutti i bambini della scuola elementare che in pochi anni le Soeurs francescane dell’Immacolata Concezione avevano messo su dal niente. Lei era passata a trovare tutte le famiglie degli scolari, nessuna esclusa, camminando anche per ore pur di raggiungere le case più lontane.

    Sovrappensiero Eric ci mise più del necessario a rispondere al saluto di uno degli anziani di Ampahimanga, che lo incrociava in quel momento sul suo carretto trascinato dagli humbi, e si beccò un rimbrotto per la sua distrazione.

    Nonostante non fossero ancora le sette, il sole estivo di novembre iniziava a scaldare l’aria mattutina e ad asciugare le strade che iniziavano a brulicare di attività; Eric amava in genere starsene seduto su una roccia e osservare il passaggio delle ragazze più grandi con i loro preziosi carichi in bilico sulla testa, il lavoro pesante degli uomini per la costruzione di un muro di mattoni, i bambini che giocavano a saltare più in alto di una corda tesa. Lo faceva sentire vivo.

    Ma quel giorno non aveva tempo da perdere, per cui aumentò il più possibile l’andatura, incurante del caldo e della gente che passava e che gli augurava una buona giornata.

    La casa di sua zia Larissa, nella quale Eric viveva attualmente, distava più di cinque chilometri dalla scuola ed era necessaria quasi un’ora per compiere quel percorso tra i campi coltivati e le risaie.

    Eric superò l’ultima curva della strada e iniziò a udire il canto dell’inno nazionale che risuonava sempre più vicino: la cerimonia dell’alzabandiera che veniva fatta ogni lunedì mattina prima di iniziare le lezioni era già cominciata e lui non era ancora al suo posto. Ormai tutti avrebbero notato il suo ritardo e si sarebbe beccato di sicuro i rimproveri del maestro di francese, Monsieur Ravaosolo, che non lo aveva molto in simpatia.

    Eric si fermò al cancello della scuola per riprendere fiato e mentre si accingeva a sbirciare all’interno per studiare la situazione, udì una voce conosciuta bisbigliare il suo nome.

    Il sorriso divertito di Suor Clementine lo spiazzò e gli parve rassicurante, ma Eric arrossì per la vergogna di essere stato colto in fragrante proprio da lei.

    Eric Parfait Rafarasoa, sei in ritardo. Sentendo pronunciare il suo nome completo, Eric iniziò a guardarsi le dita dei piedi, prima che la mano delicata di Suor Clementine si posasse sul suo mento e accompagnasse quel gesto con un’aria inaspettata di complicità.

    Seguimi. C’è un’altra entrata che in pochi conoscono.

    Eric si avviò silenziosamente dietro quel velo bianco finché raggiunsero una porticina in legno nascosta dietro un grosso albero e Suor Clementine tirò fuori dalla tasca della tonaca color crema una chiave di ferro per aprirla.

    Ecco fatto. Di qui troverai una strada migliore. Buona giornata, Eric.

    Lei gli accarezzò una spalla prima di allontanarsi per la strada e lui rimase ancora per qualche secondo imbambolato senza poter pronunciare neanche una parola di ringraziamento.

    Quando entrò dalla porta Eric sentì sempre di più l’impellente importanza di decifrare il significato del sogno.

    Che espressione aveva sul volto quel ragazzo. Nonostante Suor Clementine vivesse in Madagascar ormai da quindici anni, riusciva ancora a stupirsi dell’effetto che faceva: era una straniera ma lei si sentiva come se fosse a casa, forse per la prima volta in tutta la sua vita.

    Molti la vedevano ancora come una vazaha, anche se lei si era adattata in tutto e per tutto alle abitudini e usanze di quel paese che amava dal profondo del cuore. Quel termine significava letteralmente bianco conquistatore e aveva un’origine dispregiativa, che però aveva nel corso degli anni perso la sua valenza fino a diventare una parola di uso comune per indicare chi non era nato in Madagascar.

    La gente le aveva sempre portato un grande rispetto, soprattutto i bambini, che rappresentavano per lei una ragione di vita.

    Suor Clementine aveva da poco compiuto sessant’anni ma non sentiva il peso dell’età, anzi aveva l’impressione di essere ringiovanita da quando si era trasferita a Ampahimanga e non si faceva spaventare neanche dalle lunghe camminate sotto la pioggia tropicale o il sole infuocato.

    Amava ammirare luoghi che presentavano una purezza autentica e riteneva che il Signore si fosse superato nella creazione di vallate così verdi e di una natura unica nel suo genere.

    Quel giorno era in partenza per la capitale, Antananarivo, perché le avevano chiesto di partecipare a una conferenza sul tema della diffusione della povertà e sulla conseguente emigrazione nei grandi centri abitati, in quanto rappresentante di un’importante congregazione religiosa che lottava da anni contro il fenomeno del pauperismo. Era un tema che stava molto a cuore a Suor Clementine e si augurava di avere l’occasione di incontrare qualche autorità locale per poter presentare alcune richieste che le frullavano in testa, anche se non aveva molta fiducia in quello che i politici facevano per la gente. Lei da sempre aveva confidato nella preghiera e nel lavoro e non si era mai risparmiata un solo giorno. Era stata la sua ricetta per espiare un’antica colpa che non voleva dimenticare.

    Scrutò il sole, riparandosi gli occhi chiari con una mano, per notare se ci fosse qualche segnale di pioggia imminente; ormai non si stupiva più della facilità di variazione delle condizioni atmosferiche in Madagascar ed era consapevole che nuvole nere, copiose di pioggia, potevano oscurare il cielo in pochi minuti, ma quel giorno sembrava che il tempo non si dovesse guastare e ciò le avrebbe permesso di arrivare in città senza troppi patemi d’animo.

    Suor Clementine si caricò in spalla lo zainetto, in cui aveva messo lo stretto necessario, e si incamminò in direzione della fermata dove avrebbe preso un taxi brousse.

    Le altre suore la rimproveravano sempre per la decisione di viaggiare in quel modo scomodo, ma per Suor Clementine si trattava di un’occasione per conoscere la gente del luogo e per comprenderne meglio le esigenze; non le pesava passare ore su un trabiccolo scassato che si fermava ogni qualvolta per strada qualcuno volesse salire, e che spesso conteneva più persone di quanto fosse stabilito da ogni elementare norma di sicurezza.

    Quel giorno Suor Clementine si sentì particolarmente fortunata perché il taxi collettivo partì con solo mezzora di ritardo, anche se tutti i posti non erano ancora stati occupati, e lei poteva godere di una certa libertà di manovra per le gambe. Ultimamente sentiva spesso un dolore lancinante diffondersi dalla schiena fino al piede destro e quando doveva restare seduta per molto tempo, le capitava di rimane bloccata senza riuscire più a rialzarsi e a muovere un solo passo. Non lo aveva detto a nessuno, perché temeva che potessero mandarla dal dottore e che a sua volta il medico le avrebbe prescritto di restare a riposo. Lei non se lo poteva permettere: con tutto quello che c’era da fare non si sarebbe di certo adagiata in un letto a osservare gli altri compiere azioni al posto suo.

    Gli scossoni del terreno dissestato e i maldestri tentativi dell’autista di evitare le buche più grosse le impedivano di rilassarsi e dovette aspettare che raggiungessero la strada principale per Antananarivo che era anche l’unica a essere asfaltata.

    L’autista, come per festeggiare l’evento, alzò allora il volume della radio che diffuse nell’abitacolo del taxi le note di una canzone popolare malgascia che Suor Clementine non aveva mai sentito prima d’allora.

    Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalla musica in pensieri di tempi lontani, quando viveva con i genitori e il fratellino Jacques in un piccolo paese sulla Loira, vicino a Nantes.

    L’immagine di lei, sedicenne, che accompagnava Jacques a scuola una mattina tenendolo per mano, si fece sempre più nitida ma ogni cosa si svolgeva a rallentatore, come quando in un film si vuole rivedere meglio ciò che è sfuggito a una prima visione.

    C’era un vento gelido che soffiava in direzione opposta, i loro occhi erano a malapena socchiusi e Suor Clementine si sentì rabbrividire. Lei e suo fratello sorridevano beati e camminavano lentamente finché davanti si stagliò l’immagine del ponte che attraversavano ogni giorno per andare al villaggio. Una nebbia fitta calò su di loro mentre il rumore dei passi era sempre più ovattato e, quando furono circa a metà del ponte, Clementine si accorse di non avvertire più il calore del contatto che la mano di Jacques le procurava; lei si ritrovò a gridare il nome del fratellino con tutto il fiato che aveva in gola, senza che nessun suono uscisse dalle sue labbra e iniziò a correre senza una direzione precisa, finché si accorse che non c’erano vie di uscita e che non le rimaneva che fermarsi a respirare profondamente. Clementine si sporse da un’arcata del ponte e guardò l’acqua torbida del fiume che scorreva di sotto. Fu allora che lo vide.

    Quando Suor Clementine riaprì gli occhi si rese conto di aver urlato, perché tutti sul taxi la stavano fissando a bocca aperta.

    2

    Aeroporto di Antananarivo-Ivato - 22 novembre

    La voce della hostess risuonò distorta per tutta la cabina e Eugenio riaprì gli occhi proprio mentre l’aereo stava atterrando sulla pista dell’aeroporto di Antananarivo-Ivato.

    Era stato un viaggio particolarmente lungo e, anche se non era riuscito a dormire molto per tutta la durata del volo, non si sentiva per niente stanco: era troppo eccitato al pensiero del motivo per cui aveva dovuto recarsi con urgenza in Madagascar.

    Accanto a lui il suo assistente Ilario Vitecchi se la dormiva ancora della grossa. Aveva appoggiato gli occhiali dalle spesse lenti su di una gamba ed emetteva dalla bocca socchiusa un soffio rumoroso che aveva irritato Eugenio fin dal primo momento in cui si era appisolato. Ilario lavorava per lui da circa due anni e nonostante fosse tedioso e passasse il tempo a ricordargli quello che doveva e non poteva fare, si era rivelato un collaboratore prezioso, data la sua innata capacità di ricordare tutto, anche nei dettagli più insignificanti. Eugenio era sempre così distratto che da quando gli era stato affiancato Ilario si era reso conto di come gli si fosse semplificata la vita in maniera considerevole.

    Lo svegliò con decisione e con un certo sadico piacere, scrollandolo per un braccio. Ilario riemerse alla realtà sbattendo nervosamente gli occhi e respirando con affanno, come se fosse stato in apnea per tutto il tempo.

    Che succede? Stiamo precipitando?

    Eugenio si sforzò di trattenere un sorriso di scherno.

    Si calmi, Vitecchi. Siamo atterrati. La smetta con queste scenate e prenda la mia valigia.

    Dove sono i miei occhiali, signore?

    L’assistente si alzò in piedi di scatto, facendo cadere gli stessi sotto il sedile, e senza accorgersi di non vederci, iniziò a tastare diverse valigie per trovare quella del suo principale. Una hostess che aveva assistito alla scena raccolse gli occhiali e li porse a Ilario, che se li aggiustò sul volto come se fosse una questione di primaria importanza.

    Inizio a scendere. Quando avrà finito con il suo assurdo teatrino, veda di raggiungermi.

    Eugenio ormai era avvezzo a scene simili e non riusciva più neanche a vergognarsi della goffaggine del proprio assistente, come invece gli succedeva le prime volte in cui lo aveva accompagnato per affari. Non appena finì di sbrigare le pratiche burocratiche per la compilazione del visto di soggiorno, Eugenio uscì nella piccola hall dell’aeroporto dove un ometto dall’aria dimessa lo stava aspettando con un cartello in mano con il suo nome scritto sopra.

    Dotor Camperio? La voce esile si adattava perfettamente all’individuo.

    Senza degnarsi di rispondere Eugenio affidò in malo modo la sua valigia all’indigeno e si fece condurre all’esterno, dove un calore umido gli diede il benvenuto obbligandolo ad allentare il nodo della cravatta per facilitare la respirazione. Salirono su un fuoristrada e Eugenio fece segno all’autista di alzare il livello dell’aria condizionata. Non sopportava il caldo e il clima di quei paesi tropicali e rimpianse immediatamente la temperatura sotto zero che in quel momento c’era nella sua amata Milano. Nel momento esatto in cui anche Ilario salì in macchina, la suoneria di una nota canzone di Alessandra Amoroso partì ad alto volume e sul display del cellulare Eugenio lesse il nome di Lara.

    Prima di rispondere, invitò l’autista a partire con un cenno deciso della mano.

    Amore, che succede? Ti avevo detto che avrei chiamato io, o sbaglio? Sua figlia aveva il potere di tormentarlo sempre nei momenti sbagliati.

    Scusa, papà. Non potevo proprio aspettare. Si tratta di un’urgenza. Una gravissima urgenza, la voce di Lara sembrava essere sul punto di rompersi in un pianto disperato.

    Eugenio rimase impassibile.

    Che cosa è successo questa volta?

    Si tratta di Malvina. Non vuole farmi suonare il pianoforte. Dice che disturbo i vicini, ma non mi importa se li sveglio.

    Alle solite sua figlia, che aveva da poco compiuto undici anni, non sopportava l’autorità della seconda moglie di Eugenio e cercava in tutti i modi di dimostrarle che in casa sua lei poteva fare tutto ciò che le andava.

    Quante volte ti devo ripetere le stesse cose, Lara. Malvina sa quello che dice e se non vuole che suoni avrà le sue buone ragioni, Eugenio non riuscì a nascondere nel tono il senso di fastidio che quelle lamentele riuscivano sempre a procurargli.

    Ma papà. Io non voglio ascoltare questa stronza e...

    Eugenio staccò l’orecchio dal ricevitore e appoggiò il cellulare sul sedile della macchina, mentre Lara continuava imperterrita la litania delle sue lagne.

    Non sapeva più come comportarsi con quella bambina e provò un senso di sollievo nel saperla così lontana in quel momento. Eugenio si era illuso che risposandosi anche Lara ne avrebbe tratto giovamento, ma lei non riusciva ad accettare di avere una seconda mamma e provava una gelosia sfrenata per la giovane donna che si era sistemata in casa loro. Lui era sempre via per lavoro e, se anche non avesse avuto particolari impegni, trovava comunque dei pretesti validi per stare in casa meno tempo possibile.

    Siamo quasi arrivati? domandò in modo scocciato all’ometto, che non comprese esattamente la domanda perché annuì con aria soddisfatta.

    Eugenio borbottò qualche insulto tra sé e sé e si soffermò a osservare per la prima volta le immagini che scorrevano dai finestrini: una calca di gente intenta a trasportare oggetti di ogni tipo, bancarelle dissestate con esposti cibi dall’aria poco invitante, cani pulciosi che sonnecchiavano all’ombra.

    Era proprio il terzo mondo e Eugenio sentì salire un senso di disgusto per quel popolo arretrato che non conosceva l’importanza del progresso e della civiltà. Trovava giusto che industriali come lui si arricchissero alle loro spalle, dato che in ogni caso quei trogloditi non avrebbero mai avuto le capacità per sfruttare le risorse che madre natura gli aveva generosamente regalato. Se non fosse stato per le qualità manageriali di uomini della sua pasta, tutto ciò che c’era di prezioso in quella terra sarebbe andato miseramente sprecato.

    Per fortuna aveva avuto una soffiata al circolo di golf e ora la tavola era apparecchiata per la grande abbuffata.

    La macchina arrestò la sua corsa di fronte a un cancello imponente, che aveva l’aria di voler spaventare chiunque avesse avuto la malsana idea di entrare senza essere stato invitato. Un militare si avvicinò per controllare e Eugenio alzò una mano per farsi notare. Non era mai stato lì prima di allora, ma dovevano sapere del suo arrivo perché l’uomo abbassò il mitra e fece segno a qualcuno dall’altra parte di aprire il cancello.

    Eugenio provò un brivido di eccitazione al pensiero che fra pochi minuti avrebbe avuto la prova tangibile dell’enorme ricchezza che stava per piovergli nelle tasche.

    I Camperio stavano per diventare i nuovi signori dell’oro blu del Madagascar.

    3

    Nei dintorni di Ampahimanga - 22 novembre

    Quando Eric ritornò a casa non trovò nessuno ad attenderlo. Capitava spesso che gli zii e i suoi cugini fossero ancora nei campi a lavorare e lui era solito iniziare a preparare la cena, senza concedersi più di qualche minuto per riprendersi dalla lunga camminata.

    Ormai si sentiva a casa a Ampahimanga, anche se il pensiero di come stessero la mamma e i fratelli non lo abbandonava mai, e quando passavano intere settimane senza che potesse tornare a Sarodroa, sentiva terribilmente la loro mancanza.

    Mentre faceva cuocere il riso in una grossa pentola, Eric ebbe l’impressione che il fumo formasse l’immagine del volto di un uomo, forse lo stesso che aveva visto in sogno quella notte. Poi un rumore di voci interruppe le sue fantasie e lo zio Michel entrò in casa con un’espressione allarmata dipinta sul viso.

    Cos’è successo, zio? domandò Eric preoccupato.

    Tuo cugino. Ha avuto un’altra crisi. Peggiore del solito.

    Jean Bruno soffriva di attacchi di epilessia, che si manifestavano sempre più frequentemente negli ultimi tempi e il dottore di Ampahimanga, Monsieur Laingo, aveva consigliato gli zii di portarlo a visitare all’ospedale di Antananarivo, senza però riuscire a convincerli che fosse la cosa più giusta da fare.

    Forse dovreste ascoltare il dottore, zio.

    Michel aveva da poco superato i cinquanta e non era mai stato neanche una volta nella capitale, perché fondamentalmente non ne aveva mai sentito l’esigenza. I suoi occhi scuri si incupirono e Eric comprese di aver toccato un nervo scoperto.

    Non sono cose di cui ti devi occupare tu, Eric. Jean starà meglio se rimane qua con la sua famiglia.

    Non si trattava solo di questo, Eric sospettava che fosse soprattutto una questione di denaro: gli zii non potevano permettersi certe cure per il loro figlio maggiore e confidavano nella provvidenza divina.

    Ma va sempre peggio, non è così? Eric sapeva di essere una persona ostinata e pretendeva delle spiegazioni che suo zio non voleva fornirgli. L’orgoglio gli vietava di ammettere che non poteva badare alla salute di Jean Bruno.

    In quel momento entrò zia Larissa con lo stuolo di figli che la seguivano immancabilmente, si sedette e sospirò rumorosamente. Era una donna dal viso squadrato e l’espressione severa, anche se all’apparenza non corrispondeva la dolce dedizione con cui dedicava la propria vita ai figli; gli occhi erano lucidi e il volto tirato, nonostante avesse solo quarant’anni in quel momento a Eric parve invecchiata di colpo.

    Jean Bruno si è addormentato adesso. Prepariamogli un piatto di riso per quando si risveglierà, per favore.

    Anche se non si era rivolta a nessuno in particolare, Eric sapeva che era uno dei suoi compiti badare al riso per cui annuì e tornò ai fornelli. Fu in quel momento che ebbe una folgorazione.

    E se per caso, si bloccò immediatamente, mordendosi la lingua.

    Nessuno sembrò dare peso all’accaduto e si sedettero tutti a tavola per consumare la cena. Siccome non ci stavano tutti intorno al tavolo, le due bambine più piccole, Felana e Elysa, si sedevano sulle gambe dei due fratelli maggiori, Herman e Jeanson, mentre Eric solitamente rimaneva in piedi.

    Gli zii lo avevano accolto a braccia aperte e gli volevano bene, ma lui era consapevole di essere una bocca in più da sfamare e si sentiva in colpa per questo. Se solo avesse potuto fare qualcosa per loro si sarebbe sentito più sollevato, ma forse una soluzione c’era.

    Finito di mangiare Eric e la zia portarono piatti e pentole sporche nel cortile, dove lavarono il tutto senza proferire parola.

    Quando Eric andò a coricarsi vicino a Jean Bruno, dato che condividevano lo stesso letto, lo trovò addormentato e rimase a osservarlo finché il cugino riaprì gli occhi, come se si aspettasse di essere spiato.

    Cosa stai guardando? Sono messo così male?

    Le labbra gli tremavano mentre parlava e il volto, solitamente improntato a un’espressione decisa, dava l’impressione di aver subito una batosta memorabile per quanto appariva provato e dimesso. Eric non se la sentiva di infierire.

    Ma va’. Domani mattina starai meglio. Sei un duro, no? Tra i due si era creato negli ultimi mesi un legame molto forte e preferivano entrambi trattare la malattia nel modo più ironico che conoscevano.

    In effetti sono uno tosto. Te lo concedo, cugino. Tu invece non sai neanche condurre il carretto, quando ti deciderai a imparare?

    "Ti posso battere con gli humbi anche bendato, lo sai?"

    Jean Bruno finalmente sorrise. Da quando il cugino era arrivato, si era preso il compito di insegnare a Eric tutti i piccoli trucchi per farsi ubbidire dagli animali e lui gli era molto grato per questo.

    Allora appena recupero le forze preparati a subire una batosta memorabile, brutto arrogante. E adesso lasciami dormire.

    Buonanotte, schiappa.

    Mentre osservava il cugino prendere sonno, Eric si convinse di aver preso la decisione giusta.

    Chiuse gli occhi e si preparò ad affrontare per l’ennesima volta il solito sogno. Era sicuro che, nel momento in cui tutto fosse stato chiaro, quella tortura sarebbe terminata. Eric avrebbe potuto riposare presto.

    4

    Antananarivo, Alliance Française - 22 novembre

    Antananarivo era più caotica di quanto si ricordava e Suor Clementine rimpianse immediatamente la quiete di Ampahimanga. Per fortuna non c’erano state altre visioni a disturbare il viaggio e, dopo circa tre ore, erano arrivati a destinazione, proprio mentre iniziava a piovere copiosamente.

    Suor Clementine si era subito rifugiata dentro un taxi, questa volta la classica macchina color panna sporca, e si era fatta accompagnare al luogo del convegno, la sede dell’Alliance Française, dove non era mai stata prima d’ora.

    Percorse a velocità sostenuta il vialetto di pietre che accompagnava all’ingresso e mostrò le sue referenze al personale addetto all’organizzazione delle conferenze, prima di varcare la porta che le mostrò una realtà molto diversa da quella abituale: gruppetti sparsi di uomini e donne vestiti a festa intenti a conversare con aria affabile e di falsa cortesia, camerieri che trasportavano senza sosta vassoi con cibarie dall’aria poco appetitosa e calici di vino pregiato, militari dal petto in fuori e le divise ricolme di lustrini. Suor Clementine si sentì immediatamente un pesce fuor d’acqua e non voleva credere che quelle persone stessero per partecipare a un seminario sulla povertà. L’ipocrisia era ai massimi livelli consentiti.

    Mentre si aggirava con aria spersa per cercare di individuare un viso conosciuto, Suor Clementine intravide, seminascosto dalla tenda di

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