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Piotr e i treni
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E-book195 pagine2 ore

Piotr e i treni

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Info su questo ebook

Vi sono luoghi, dove la realtà è generata dai sogni di coloro che in quel luogo vivono. Reves, Drimmoli, Traumlich, Dulcimer sono alcuni di questi, uniti da una fratellanza che si rinnova due volte l’anno, in occasione dell’equinozio di primavera e di quello d’autunno, con una festa che dura parecchi giorni e che ognuno di essi ospita a turno.
È durante un equinozio di primavera, a Dulcimer, che ha inizio questa storia. Su un palcoscenico visionario e immaginifico si muovono personaggi mistici: i suonatori di gocce, capaci di rendere liquide e musicali le emozioni; il Narratore, che un’antica leggenda vuole destinato a raccontare le vicende di quanto sta per accadere; la scogliluna, sorta di sciamana unita da un profondo legame alla terra; Piotr, un ragazzino che osserva i treni passare perché per poter andare qualcuno li deve guardare; e ancora la seminatrice di sogni, gli incantatori di ricordi, i danzatori temporali.
Mentre fervono i preparativi per la festa, la seminatrice di sogni ha un oscuro presagio: un’ombra si sta addensando intorno, un’ombra pesante che minaccia di distruggere la serenità di Dulcimer.
L’autore dipinge una Realtà del sogno, approdando a un finale, non scontato, in cui ribadisce, appunto, l’importanza che ha il sognare, anche, e soprattutto, in un mondo che sembra avere smarrito la capacità di farlo. Anzi, è proprio in un mondo del genere che il Sogno può evolversi, sino a trasformarsi nel più potente strumento che abbiamo per ridefinire la realtà.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2017
ISBN9788832920253
Piotr e i treni

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    Anteprima del libro

    Piotr e i treni - Oscar Simonetti

    giorni.

    1

    Dove ha inizio l’Alta Val Vitaria, al confine fra la provincia di Trìstori e quella di Dulcimer, c’è un punto dove i treni, tutti i treni, indistintamente, rallentano sino quasi a fermarsi.

    Pare sia sempre stato così e chi asserisce il contrario, lo fa soltanto perché non se ne è mai accorto.

    Comunque sia, a partire da quell’enorme sasso, che la gente di qui chiama Il gigante dormiente e arrivando sino al Passo del Visionario, trecento metri più sopra, ogni treno rallenta, e alla nostra storia non importa nulla se ad accorgersene sono solo coloro che, fra tanti altri linguaggi, conoscono anche quello dei treni e accarezzano la loro schiena d’acciaio, trasformando l’assordante e monotono sferragliare in una specie di fusa. Animo da gatto, il treno. Fusa da gatto nero.

    Sul treno ci sono molti passeggeri e pochi viaggiatori.

    Non ci si può sbagliare. I viaggiatori li vedi: si affacciano dal finestrino. Ti vedono: hanno lo sguardo attento.

    I passeggeri, invece, non li vedi. La loro è un’esistenza invisibile, anche se pesante. Si muovono su rotaie ben più rigide di quelle di un treno. A loro non interessa vedere, ma arrivare.

    Con i visi tesi e le mani contratte, i più si nascondono nel loro silenzio, come se l’intorno fosse qualcosa che li disturba; altri si lasciano scappare le solite frasi di circostanza, sarcastiche, feroci, ma soprattutto sciocche, che si ripetono a ogni viaggio; altri ancora sorridono forzatamente.

    In fin dei conti, è bello poterli non vedere.

    Fra loro, i più giovani combattono, nel proprio intimo, col desiderio d’alzarsi e guardare fuori, per rendersi conto di cosa ci sia, in un semplice guardare, di così tanto pericoloso da essere, se non proprio proibito, almeno sconsigliato, vivamente sconsigliato. I più vecchi conoscono bene quel che provano i giovani; l’hanno provato anch’essi, tanto tempo prima. Come potrebbero dimenticare quel momento pericoloso in cui hanno rischiato di cedere alla tentazione di diventare viaggiatori? La curiosità, quella sì, dovrebbe essere proibita; la curiosità è la prima delle tentazioni, è il primo ostacolo sulla via della saggezza, il primo serpente da schiacciare sotto il tallone pesante della propria fede, un tallone pesante come quello della montagna.

    I vecchi sanno e perciò restano a osservarli, sospettosi. Da quella curiosità, infettiva e infantile come il morbillo, loro sono riusciti a guarire. È stato il tempo a guarirli. Con l’età, il passeggero guarisce da tutto. Tutto in lui si assopisce. Passa da quel piccolo tratto di strada che si trova all’inizio dell’Alta Val Vitaria, al confine fra le province di Trìstori e di Dulcimer, là dove tutti i treni rallentano, e non si alza, non compie quei due o tre passi che lo separano dal finestrino, quei due o tre passi che lo separano dalle cose che sviano, che possono far deragliare dalla realtà. Il passeggero non si prende la responsabilità dell’eccezione. Per contro, il viaggiatore è l’eccezione stessa; non ce n’è uno uguale a un altro. Ognuno di loro possiede una motivazione diversa che giustifichi il viaggio, una motivazione che, il più delle volte, nemmeno conoscono. Non la fuga da un passato e nemmeno un’aspettativa per il futuro, forse un semplice desiderio di vivere.

    Il viaggiatore sa che ogni cosa è da guardare, dall’attimo alle montagne.

    È consapevole di quanto sia impossibile rivedere la stessa nuvola coprire allo stesso modo lo stesso albero. Vive l’istante perché l’istante è l’essenza stessa del viaggio.

    Poco discosta dalle rotaie, la vecchia casa cantoniera ha i muri d’edera e gli infissi in rovo; possenti braccia verdi la cingono, rischiando d’ucciderla d’amore. Col trascorrere del tempo, vita e morte perdono i loro contorni e si sfogliano adagio, con pazienza. Con molta pazienza. La pazienza necessaria a chi pretende di poterle osservare.

    Il tempo accartoccia ogni cosa, muro o persona che sia.

    Si erano subito trovati bene uno nell’altra. Piotr e la casa.

    Una coppia variegata ma, comunque, entrambi immersi nella propria intima e invisibile solitudine.

    Come si chiamasse Piotr, prima del suo arrivo, non c’è dato di saperlo e, del resto, non è nemmeno così importante.

    Era stato Luigi, il vecchio suonatore di gocce, a chiamarlo così, forse perché, quando si era accorto del ragazzo, questi stava seduto su di una pietra e guardava il treno arrampicarsi adagio lungo il tramonto. Luigi sorrise e con la mente cercò di ritornare all’ultima volta che si era fermato a guardare un treno. Si era dimenticato di come la vita potesse essere lenta, così lenta che ci si può anche permettere d’ammirarla. Si sedette vicino al ragazzo e restò lì, in silenzio.

    E mentre i colori diventavano sempre più scuri, le lamiere del treno e i visi delle persone acquistavano uno spessore tale che l’eco della loro immagine si percepiva ancora a lungo dopo che si era dissolta nella magia della notte.

    Già notte. Non avevano nemmeno parlato ma, quando si alzarono, lo fecero insieme e insieme giunsero in paese.

    Non c’è nessuno che sappia comprendere la grandezza del silenzio come un musicista; nessuno che comprenda la molteplice visionarietà di un treno, come Piotr.

    Insieme.

    La gente stava seduta sulla soglia della propria casa. Pareva che tutti avessero atteso quel momento e ora che era arrivato non capissero bene cosa fare.

    Cominciò a piovere qualche domanda, qua e là.

    Chi è quel ragazzo? Come si chiama?

    Si chiama Piotr.

    Erano in tanti a tacere, e in quasi altrettanti a domandare.

    Quando è arrivato? Dove lo hai trovato?

    Dulcimer ha un figlio in più, fu l’ultima risposta di Luigi, ma già Piotr correva lungo il percorso che avevano appena compiuto.

    Dove corre?

    Il vecchio sorrise. Per oggi poteva bastare.

    Salutò tutti cordialmente e si diresse verso casa: aveva molte gocce da sistemare.

    Per quelli che non sono mai andati a Dulcimer, e sono certamente molti, è necessario aprire una parentesi per spiegare chi siano i suonatori di gocce.

    Sono, il nome stesso lo dice, musicisti particolari che sanno suonare le gocce, seguendo una tradizione che un tempo era universale, ma che è andata sempre più scomparendo, fin quasi a perdersene la memoria, e ora è relegata a pochi luoghi ristretti, Dulcimer, per l’appunto, e qualche altra cittadina gemella come Reves, Drimmoli e poche altre.

    Non c’è modo di diventare musicisti di gocce, non ci sono scuole che lo insegnino. Semplicemente si nasce con questo talento e, quando esso emerge, si passa la vita a perfezionarlo, talvolta sotto la guida del proprio maestro, più spesso, da soli.

    Così come ogni goccia è diversa da qualsiasi altra, allo stesso modo non vi è un musicista uguale a un altro. È una questione di sensibilità e d’esercizio.

    È naturale, se ci si pensa, che una goccia di rugiada non produce lo stesso suono di una goccia presa da un torrente o da un lago, così come una di vino non avrà la stessa sonorità di una di pioggia, ma forse non a tutti è chiaro che, prendiamo ad esempio una goccia di rugiada, la preferita di Luigi, il luogo, l’ora e persino lo stato d’animo in cui ci si trova quando la si raccoglie, hanno la capacità d’influenzarne, anche notevolmente, il suono.

    I concerti di rugiada di Luigi cominciavano, quindi, anche parecchio tempo prima di essere eseguiti in pubblico, con la raccolta e la conservazione delle gocce dentro piccole ampolle di cristallo, tenute gelosamente custodite fino all’attimo esatto in cui sarebbero riuscite a evocare il ricordo di un fiore, di un prato, di una pietra, di una tristezza o di un amore ed erano, per forza di cose, irripetibili.

    Per tradizione, i musicisti di gocce dei vari paesi si riunivano due volte l’anno, in occasione dell’equinozio di primavera e di quello d’autunno, ora in un paese ora nell’altro, a turno, per delle feste che ogni volta risultavano memorabili.

    Il giorno in cui aveva incontrato Piotr, Luigi se n’era appunto andato di buon’ora per cercare di raccogliere le gocce di rugiada che immaginava bagnassero le precoci primule.

    Era partito con una quantità incredibile di boccette, infilate nello zaino da raccolta, giacché, data l’età, preferiva limitare i viaggi.

    Raramente passava dalla casa cantoniera, ma quella volta l’umidità del destino lo aveva indotto, per tornare a casa, a seguire una sensazione nuova. Speranza, l’aveva chiamata, senza conoscerne la ragione.

    2

    Non era difficile immaginare chi fosse stato Piotr prima d’arrivare a Dulcimer. Come avesse potuto vivere quel ragazzetto magro, dai capelli corvini e dal viso scavato, in luoghi dove i treni non rallentavano mai e andavano diritti per la propria strada, accontentandosi di quel breve segmento di libertà apparente che li trascinava da una stazione all’altra, sferragliando come draghi, a fingere un’importanza che in realtà non possedevano, ben sapendo di non essere altro che lunghi ergastolani d’acciaio. Per questo gli scompartimenti non erano mai vuoti, rubavano sempre qualche dimenticanza, qualche cappello, un ombrello, un giornale o un pacchetto vuoto e lo conservavano con morbosa gelosia fino al momento del risveglio, fino al passaggio degli addetti della pulizia.

    A Dulcimer, invece, i treni non si fermavano mai, rallentavano e basta.

    Non vi era una stazione, con la sua sala d’aspetto e i marciapiedi, con le panchine dai sedili di legno o di pietra, dove passeggeri sudati s’impedivano di pensare, leggendo tristi rotocalchi o fingendo d’ascoltare finta musica.

    No, a Dulcimer non vi erano passeggeri; erano tutti viaggiatori. Chiunque vi arrivasse, lo era.

    Anche Piotr.

    Era un viaggio, il suo, dove le parole erano superflue.

    Ci vuole un bel coraggio, gli disse un giorno, Luigi. Ci vuole un bel coraggio a portarsi addosso tutta la tristezza di un treno!

    Piotr lo fissò. Luigi tacque. Si erano capiti.

    Lo sguardo del ragazzo era così eloquente, che nessuna parola avrebbe potuto spiegare meglio ciò che provava. Un quadro che nessuna galleria avrebbe mai osato esporre.

    Da quel giorno, i due diventarono amici e il vecchio musicista aspettò vigile e paziente di sentire tintinnare nel giovane la vocazione del suonatore di gocce. Invano.

    Piotr restava ad ascoltarlo con lo sguardo perso nel vuoto, felice.

    Talvolta, se l’emozione di una melodia era troppo intensa, cominciava a girare su se stesso, ridendo.

    Allora, Luigi, per il timore che tutto quel girare potesse stordirlo, smetteva di suonare, lasciava che l’ultima vibrazione si spegnesse e, avvicinandosi, piano gli carezzava la testa.

    Restavano così, avvolti in un lungo mantello di silenzio, ciascuno godendo in cuor suo del minuscolo scricchiolio che l’anima dell’altro provocava nell’unirsi alla propria.

    No, Piotr non sarebbe mai diventato un musicista di gocce, non perché non ne possedesse la sensibilità, ma semplicemente perché quest’ultima lo portava in un’altra direzione; quale fosse, il vecchio non lo sapeva, e probabilmente non lo sapeva nemmeno Piotr. Non vi era nessuna fretta, dopotutto, in una maniera o nell’altra, questa direzione passava da Dulcimer.

    Trovare la propria direzione non era così scontato, nemmeno a Dulcimer; a volte ci voleva un’intera vita, altre volte era già chiaro nel ventre della propria madre, nel suo sguardo. Così era stato per Luigi. E ciò bastava a farlo sentire fortunato.

    Si chiedeva cosa ci potesse essere negli occhi di quel ragazzo che ne indicasse il talento. E più se lo domandava e meno ci si raccapezzava. Lo sentiva, Luigi, quel talento, ma era come se non lo conoscesse, se provenisse da un altro mondo.

    A che velocità andavano i treni nella mente di Piotr?

    La stessa speranza che nutriva per Piotr, Luigi l’aveva già provata con la propria nipote, Laura.

    Anzi, con quest’ultima era stata più che una speranza, ma forse era stato meglio così e vivere ancora un poco, poiché trasmettere un’arte, trovare il proprio successore significava immedesimarsi a tal punto con l’arte da lasciare alle proprie spalle l’esistenza pesante di un corpo; in altre parole, dal momento che si prendeva coscienza del proprio successore, s’incominciava a morire.

    Laura avrebbe potuto essere un’ottima musicista di gocce, ma il suo talento le fece prendere un’altra direzione.

    Accadde una notte di luna nuova, all’inizio della primavera.

    Luigi aveva intenzione di raccogliere quel particolare tipo di rugiada che si trova solo sulle pervinche che crescono nei boschi del Monte Fragile. Quando la luna fosse stata piena, era prevista una grande festa e voleva prepararsi per tempo.

    Cosa ci fosse di speciale in quella rugiada, lo sapeva solo lui; sta di fatto, però, che anche i meno

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