Il viaggio di A - Libro secondo - A in Spagna
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Il viaggio di A - Libro secondo - A in Spagna - Adriano Scarmozzino
Il viaggio di
A
Libro Secondo
in spagna
Capitolo 1
A in Andalusia
Dopo esser riuscita ad attraversare tra mille difficoltà le vaste distese dell’oceano Atlantico, A si trovava in una nuova terra completamente sconosciuta. Dalla costa avanzò verso l'entroterra per alcune ore, soffermandosi di tanto in tanto per ammirare il paesaggio e gli alberi dai rami verdi e fioriti che si protendevano verso il cielo.
Pur avendo vissuto delle incredibili avventure, non pensava a quali altri pericoli o sorprese avrebbe dovuto affrontare. Quei luoghi erano così pieni di luce, l’aria talmente calda e densa di profumi che in quel momento la sua mente spaziava libera da ogni preoccupazione.
A proseguì il cammino con animo lieto, affrettandosi a raggiungere la località più vicina.
Alla fine della mattina arrivò al paese di Fiumarosa, dove trovò gente accogliente che fortunatamente parlava la sua stessa lingua, anche se con una pronuncia assai diversa.
Un’anziana donna, dal corpo tarchiato e il viso paffuto, notò i vestiti logori della ragazza e i suoi capelli arruffati. Si avvicinò curiosa e subito domandò: «Da dove vieni, chica?»
«Da un posto molto lontano» rispose A mostrando i suoi occhi scuri e spigliati.
«Hai un posto dove poter dormire?» chiese ancora la donna che portava al braccio un cesto contenente alcuni gomitoli.
«No, ma in qualche modo mi arrangerò...» rispose A con occhi tranquilli.
La donna, che aveva il viso segnato da cento rughe, guardò quel corpo emaciato e disse: «Sarà meglio se vieni con me, a me pare che tu non abbia neppure mangiato».
A dire il vero, quella mattina lo stomaco di A non aveva fatto altro che brontolare e la fame non le mancava di certo. Per questo, quando la donna la invitò a casa sua, la seguì volentieri.
L’abitazione si trovava nel centro del paese ed era molto piccola: dall’ingresso principale si entrava direttamente nella cucina, sul retro vi era una stanza da letto con a fianco un bagnetto e null’altro.
«Io mi chiamo Rosina e vivo da sola» spiegò la donna. «Nella mia casa ci sto bene e con il mio lavoro di sarta riesco a guadagnarmi da vivere. Finché i miei occhi ci vedranno bene, non mi mancherà mai nulla».
«Anche mia madre sapeva cucire» replicò A vedendo sopra una tavola alcuni tessuti che le riportarono alla mente una tovaglia ricamata dalle mani materne.
«Perché dici che sapeva cucire? Adesso non ci vede più oppure le sue mani tremano troppo?» chiese Rosina.
A raccontò allora brevemente della scomparsa di sua madre e spiegò che era partita per cercarla, senza però dilungarsi su quanto accaduto durante il viaggio.
Rosina ascoltò in silenzio con l’animo dispiaciuto. Poi, guardando A con occhi mesti e pieni di rassegnazione, commentò: «La vita non ci fa mai mancare tribolazioni e affanni. Io ho vissuto per anni con mio marito che era l’uomo più buono di Fiumarosa, però una malattia ha portato via troppo presto l’amore della mia vita ed io sono rimasta sola, senza neanche un figlio a tenermi compagnia». Alla fine, la donna girò lo sguardo verso la stufa della cucina e disse: «È meglio non pensare ai nostri dolori. Adesso occupiamoci del pranzo...»
Insieme prepararono da mangiare e imbandirono la tavola senza parlare, guardandosi solamente di tanto in tanto negli occhi, come due vecchie amiche che si conoscevano da lungo tempo.
Nel pomeriggio, la sarta Rosina iniziò a cucire un vestito, usando stoffe dai colori sgargianti e festosi tipici della terra andalusa.
A si sedette accanto, ascoltando con interesse le parole e i consigli della sarta.
«Se vuoi continuare le tue ricerche, non devi stare qui. Devi andare a Cadice, dove c’è un porto e molte navi partono e arrivano ogni giorno» affermò Rosina. «Però, per andare nuovamente in giro, hai bisogno di un abito nuovo».
«Quello è per me?» domandò la ragazza.
«Certo, intanto vai a fare un bel bagno, così dopo lo potrai provare».
A era contenta di aver incontrato una donna così generosa e corse subito a lavarsi. Poi, appena fu pronto, indossò con piacere il vestito dai variegati colori che la faceva apparire come una ragazza vivace e allegra.
«Stai benissimo!» osservò soddisfatta Rosina.
A ringraziò sorridente, anche se la sua mente stava diventando pensierosa.
Infatti, quando più tardi Rosina si dedicò a preparare la cena, A rimase tutto il tempo a guardare alla finestra osservando i volti degli sconosciuti che camminavano lungo la via e pensò malinconica: «Ogni giorno racconto la mia storia per ritrovare le motivazioni per andare avanti. Questa terra spagnola spero possa donarmi almeno un segno, capace di indicarmi la strada giusta. Mi porto dentro un mistero che più passa il tempo e più diventa faticoso portarne il fardello. Madre mia, invece che essere io a inseguire te, come vorrei che fossi tu a cercare me, di certo sapresti sopportare meglio la sofferenza che spesso mi oscura il cuore...».
Il mattino dopo, appena sveglia, A decise di ripartire subito. Rosina non si mostrò dispiaciuta, anzi la esortò a non indugiare: «Vai, gioia bella, cerca di trovare presto la tua mamma».
A la ringraziò più volte per l’accoglienza e per quel vestito così pieno di colori. E dopo averla abbracciata, partì alla volta di Cadice.
Lungo il percorso, faceva fatica a orientarsi e dovette chiedere più volte informazioni ai viandanti sulla via da seguire.
Verso l’ora di pranzo, ebbe la fortuna di incontrare un mercante che doveva recarsi proprio nella città di Cadice con un carro carico di damigiane d’olio. A chiese allora un passaggio e così nella tarda serata si trovò nei pressi del porto della città.
Senza perdere tempo, iniziò a chiedere ai marinai se avessero notizie di una donna arrivata dalle Americhe e cercò di descrivere bene i lineamenti della madre. Chiese anche informazioni riguardo ai possibili superstiti della nave chiamata Esperanto, spiegando che era affondata al largo dell’oceano Atlantico.
«Tu non immagini quante persone e quante navi passano da qui ogni giorno. Pensi che qualcuno possa ricordare, in mezzo a tanti, un singolo volto o una sola imbarcazione? Qui a Cadice tutti arrivano e tutti partono, ognuno di noi è solamente una goccia sconosciuta di un immenso mare...» disse un marinaio che portava sul braccio un tatuaggio raffigurante l’ancora di una nave.
A cercò di non lasciarsi scoraggiare e insistette nel chiedere ad altri, però nessuno seppe fornire notizie né della madre né del naufragio della nave.
Le ombre della sera si allungavano sulle strade, quando A s’infilò in una stretta via di botteghe. Per qualche minuto non chiese più niente a nessuno, lasciandosi distrarre da alcuni negozi che vendevano vasellame e piatti dipinti a mano, decorati con splendidi smalti.
La ragazza non si era però accorta che due uomini, coperti da un mantello scuro con un cappello a falda larga in testa, avevano iniziato a seguirla.
I due brutti ceffi rimanevano a una distanza sufficiente per non essere notati, senza però perderla di vista un solo istante. La osservavano con circospezione e aspettavano il momento buono per potersi avvicinare senza dare nell’occhio.
Arrivata in una piazzetta, A si diresse verso una fontana per bere, quando un giovane di circa venti anni e dai lunghi capelli chiari le andò incontro, urtandola in maniera decisa a una spalla.
A cadde a terra e si lamentò con il giovane che sembrava averla buttata deliberatamente: «Ma cosa fai? Stai più attento!»
«Sei tu che devi stare accorta, sono dietro di te...» disse il giovane a bassa voce, mentre le dava una mano a rialzarsi. «Raggiungi presto l’osteria Il vecchio pescatore che si trova in un vicolo in fondo alla strada. Io ti raggiungerò tra poco e ti spiegherò tutto».
La ragazza non capì lo strano comportamento di quel giovane e corrugò la fronte sospettosa. Poi si voltò indietro per vedere se qualcuno la stesse seguendo, ma non vide nessuno: i due neri mantelli, infatti, si erano appartati frettolosamente all’interno di un negozio per evitare di essere visti.
A quel punto A, invece che dirigersi verso il luogo indicato dal ragazzo spagnolo, proseguì la sua passeggiata per i negozi, decisa a non dare troppo peso all’accaduto.
I due tipi loschi furono presto ancora una volta dietro alla ragazza, mentre il sole si abbassava sui tetti e le ombre delle case si allungavano sulle pietre delle strade.
Camminando senza una destinazione precisa, A imboccò una stretta via che alla fine sfociò in un giardino con pochi alberi richiuso ai lati da un muro. A fece qualche passo avanti portandosi sotto i rami degli alberi, ma non vedendo altre vie d’uscita se non quella da cui era venuta, decise di tornare indietro. Appena si voltò, le arrivarono addosso i due furfanti che la buttarono a terra e con una corda iniziarono a legarle il corpo e le braccia. Gli assalitori incutevano una paura tremenda anche perché avevano indossato delle maschere nere dagli occhi rossi infuocati.
A era terrorizzata e provò a urlare, ma uno dei due riuscì a imbavagliarla prima che lei potesse chiedere aiuto.
La ragazza iniziò allora a scalciare all’impazzata, ma a quel punto uno dei rapitori non si fece scrupoli e le diede un pugno al volto che la tramortì.
I due neri mantelli stavano per portarla via, quando nella semioscurità si udirono nitidamente degli zoccoli di cavallo avvicinarsi. Gli assalitori videro venir loro incontro al galoppo un cavaliere con una spada in pugno.
Era lo stesso giovane che aveva provato ad avvertire A del pericolo, il quale gridò: «In nome del popolo di Spagna, vi ordino di lasciare libera la ragazza».
I sequestratori si guardarono un attimo negli occhi, poi lasciarono cadere a terra il corpo della ragazza per estrarre a loro volta le spade e scacciare l’intruso.
Il giovane cavaliere iniziò a combattere con incredibile energia. Nel frattempo, il suo cavallo s’impennò più volte come se volesse colpire gli assalitori con le zampe anteriori.
I due malfattori, colti di sorpresa dalla foga dell’assalto, lottavano impacciati. Il cavaliere si dimostrò assai abile e approfittò di quei momenti convulsi per sferrare altri fendenti contro gli avversari, riuscendone a ferire uno all’altezza della clavicola. A quel punto, l’altro assalitore afferrò il compagno per un braccio e insieme si diedero alla fuga.
Il giovane rinunciò a inseguirli e pensò piuttosto alla ragazza che era rimasta a terra legata e imbavagliata.
Mentre il cavaliere tagliava le corde, A notò che portava al petto un piccolo stemma araldico raffigurante un leone rosso sullo sfondo giallo di uno scudo a mandorla.
«Io sono Ramòn Jimenez, cavaliere dell’ordine equestre di Jerez de la Frontera» disse il giovane. «Andiamocene via da qui...»
A non perse tempo e montò a cavallo insieme a Ramòn che condusse il destriero verso l’uscita della città.
«Perché non mi hai ascoltato quando ti ho detto di raggiungere l’osteria?» chiese Ramòn con tono di rimprovero.
«Io non sono di Cadice e non conosco l’osteria di cui hai parlato. E poi pensavo che tu volessi imbrogliarmi...» si giustificò A.
«Veramente mi pare che fossero altri a volerti fare del male» protestò Ramòn.
«Hai ragione e ti chiedo perdono, ma io qui non conosco nessuno e non so bene cosa fare. Chi erano quegli uomini malvagi e perché mi volevano rapire?» chiese A confusa.
Mentre il cavallo galoppava a briglie sciolte nel silenzio della notte, Ramòn chiarì ad A quello che fino al quel momento gli occhi del suo cuore neppure immaginavano: «Tu forse sei l’unica in tutta la Spagna che non sa chi siano gli uomini con le maschere dagli occhi rossi e dai neri mantelli. Si chiamano Daimònes, ed appartengono ad un’organizzazione segreta che ogni giorno cattura donne inermi di ogni età. Sono dei vigliacchi che aggrediscono le loro vittime nelle ore serali e notturne per poi scomparire alle prime luci dell’alba senza lasciare alcuna traccia, lasciando le famiglie delle persone rapite nello sgomento».
Nell’udire quel chiarimento, A trasalì e in un lampo si fissarono davanti ai suoi occhi tre immagini in sequenza: la madre alla fonte, l’aggressione da parte degli uomini mascherati e la fuga verso luoghi ignoti! Poi, con la voce quasi soffocata dalla paura di sapere, chiese esitante: «Che tu sappia, queste donne vengono rapite anche nelle Americhe?».
Ramòn conosceva bene la risposta: «Ma non hai notato al porto di Cadice quante navi? Io stesso, quando ti ho visto, ho pensato che tu fossi giunta con una delle galere in cui centinaia di donne prigioniere vengono portate ogni mese dalle terre d’oltreoceano per opera dei Daimònes»
«Allora tu stesso hai visto queste donne?» domandò A, mentre le si accapponava tutta la pelle.
«Eccome! Ne ho viste a centinaia con la carnagione del viso olivastra simile alla tua, incatenate ai polsi e affrante dalla fatica».
«E dove le portavano?».
«Questo non lo so. La maggior parte delle donne rimanevano sulle navi per ripartire verso destinazioni sconosciute, solo alcune di loro si dice siano state portate via terra verso località distribuite in tutta Europa» affermò Ramòn con voce mesta.
A era rimasta ammutolita per lo sconcerto.
«Hai ancora paura di poter finire nelle loro mani?» chiese Ramòn.
«Provo timore non per me, ma per mia madre che è scomparsa dal mio villaggio che si trova in Cile. Per questo ho intrapreso la mia avventura, da mesi vago per mare e per terra col desiderio di ritrovare il volto della donna che più amo».
«Il volto della donna che più amo...» ripeté Ramòn con voce commossa e da quel momento non aggiunse più alcuna parola.
A vide bianche lacrime scorrere sul viso del giovane e bagnare tristi il velo della notte.
Allora, con il cuore colmo di gratitudine per essere stata salvata e piena di rispetto verso quel cavaliere così sensibile, decise di non chiedere più nulla.
A cominciò a riflettere su notizie ricevute. Dal giorno della sua partenza, era la prima volta che finalmente qualcuno le apriva uno spiraglio per scrutare nel vuoto mistero in cui la sua vita era sprofondata. Era rimasta atterrita nell’appurare l’esistenza di un gruppo di uomini tanto crudeli, allo stesso tempo però sentiva un insperato sollievo nell’apprendere che la mamma potesse essere comunque viva.
Adesso era certa che a quella notte sarebbe seguito un giorno nuovo, in cui poteva finalmente cercare con ragion veduta la madre, ascoltando i consigli di chi conosceva l’ingiusta causa della sua sofferenza.
Le narici del cavallo soffiavano intensamente un caldo vapore nelle ore fredde della notte e non smisero fino al momento in cui giunsero a destinazione.
Il cavaliere, nel rivedere le prime case del suo luogo natìo, riprese a parlare: «Giovane amica, benvenuta a Jerez de la Frontera».
A era intirizzita dal freddo, ma era contenta di sapere che la galoppata stava per finire. Le gambe e la schiena le facevano male e sentiva il bisogno di riposarsi.
Raggiunsero un alto portone sormontato da un arco di pietra. Ramòn vi si avvicinò e bussò rimanendo a cavallo. Ci volle qualche minuto prima che qualcuno venisse ad aprire, ma alla fine l’uscio si schiuse e apparve il volto di un ragazzo.
«Ti sei svegliato Pedro...» disse Ramòn.
«In verità stavo aspettando il tuo ritorno» replicò Pedro, mentre con gli occhi fissava la ragazza.
Ramòn condusse il cavallo attraverso il portone ed entrò in un cortile alle cui pareti vi erano appesi numerosi cerchi di metallo a un metro da terra.
«È una gitana?» chiese Pedro a Ramòn nel vedere i colori sgargianti dei vestiti di A.
«No, è una straniera» rispose Ramòn.
Dopo che Ramòn e Pedro ebbero legato il cavallo ad uno degli anelli di metallo, A li seguì senza parlare ed insieme entrarono in una piccola stanza con alcuni tavolini.
Pedro prese una bottiglia da una credenza e la versò in due bicchieri dicendo: «Sedetevi e bevete qualcosa».
Ramòn afferrò subito uno dei bicchieri e iniziò a bere.
«Tu non bevi?» chiese Pedro rivolgendosi ad A.
«Ma cosa c’è dentro il bicchiere?» chiese la ragazza.
«È sherry, un liquore dell’Andalusia, non lo conosci?» esclamò sorpreso Pedro.
«Ti ho detto che è una ragazza straniera ed arriva da molto lontano, per lei prendi un bicchiere d’acqua» spiegò Ramòn.
Mentre Pedro serviva ad A il suo bicchiere d’acqua, Ramòn raccontò dell’aggressione subita dalla ragazza.
«Ancora quei maledetti!» commentò Pedro girando un tovagliolo tra le mani.
«Pensate che torneranno?» chiese A.
«Qui non verranno di certo!» dichiarò convinto Pedro.
«Adesso accompagna la ragazza a dormire...» disse infine Ramòn. «Io vado a dare della biada al mio cavallo che ci ha portati in salvo e poi chiudo gli occhi anch’io».
La mattina dopo, Ramòn portò A dal maestro di equitazione.
«Mi chiamo Romero Gonzales e sono il maestro della Real escuela andalusa¹, qui potrai imparare ad andare a cavallo».
«A cavallo?» domandò A.
«Io consiglio a tutti coloro che vogliono diventare difensori del pueblo di iniziare imparando ad andare a cavallo. I nostri nemici si muovono rapidi e in ogni dove, seminando paura e violenza, per stare al loro passo occorre muoversi velocemente e raggiungere luoghi anche lontani. E devi considerarti fortunata, perché sei arrivata nella migliore scuola di equitazione dell’Andalusia!» disse Romero.
«La migliore di tutta la Spagna!» affermò sorridente Ramòn.
«Va bene. Farò ciò che è necessario per contrastare i nemici del popolo...» commentò A.
«Allora non devi far altro che seguirci» affermò il maestro Romero, un uomo non molto alto, ma dalle spalle larghe e robuste, con lunghi e folti capelli neri che teneva legati dietro la nuca.
Raggiunsero una sala poco distante, dove A imparò a conoscere le briglie, le staffe e i diversi tipi di sella.
«Per questa prima lezione rimarrai con questo vestito, ma presto dovremo trovarti un vero abito da cavallerizza» disse Ramòn.
Durante le lezioni di quei giorni, il maestro Romero le insegnò ad andare al passo, al trotto e al galoppo. A imparò a salire e scendere dal cavallo con disinvoltura e a condurre il cavallo con mano sicura.
Ramòn passava molto del suo tempo con A anche dopo le lezioni, spiegandole molte usanze dell’Andalusia e della Spagna, però ogni sera scompariva per tornare al mattino presto del giorno successivo.
Però, una di quelle mattine, Ramòn non si presentò alla Real escuela. A proseguì le lezioni con il maestro Romero e poi andò a chiedere notizie a Pedro che si trovava in una stalla a strigliare i cavalli.
«Come mai Ramòn non c’è oggi?» chiese A.
«Perché oggi è il suo giorno più triste!» rispose Pedro voltandosi verso di lei.
«Cosa vuol dire il suo giorno più triste, gli è successo qualcosa?»
«Non ti ha raccontato nulla?» domandò a sua volta Pedro scrollando la testa.
A non riusciva capire.
«Pensavo te ne avesse parlato...» aggiunse Pedro.
«Di cosa?» chiese A impaziente di sapere.
Pedro allora lasciò cadere la spazzola nel secchio e disse: «Devi sapere che Ramòn ha una fidanzata che si chiama Teresa ed è stata rapita dai Daimònes. Per questo Ramòn ha scelto di diventare un difensore del pueblo. Oggi è il giorno del compleanno di Teresa che compie diciassette anni, e Ramòn ha il cuore spezzato».
«Dove si trova adesso?»
«Ha raggiunto la cima della collina sulla città per rimanere lì da solo con i suoi pensieri»
«Dove si trova questa collina?»
«Lungo la strada che avete percorso la notte in cui siete venuti da Cadice».
A chiese a Pedro di spiegarle meglio il percorso e si fece sellare un cavallo per raggiungere Ramòn.
«Stai attenta e cavalca piano...» consigliò Pedro.
Però A sentiva invece di avere la padronanza del cavallo e si diresse al galoppo verso la collina.
Una volta arrivata, trovò Ramòn intento ad esercitarsi con la spada di fianco ad un’antica pianta di olivo.
«Cosa sei venuta a fare qui?» chiese Ramòn sorpreso di vederla in quel luogo.
«Perché non mi ha mai detto del tuo dolore, della tua fidanzata rapita?» chiese A.
Ramòn non si aspettava una domanda così diretta, ma rispose con aria seria: «Perché il solo parlarne mi fa star male». E dopo aver piantato la sua spada nella terra, si voltò con il viso verso il tronco nodoso dell’olivo.
«Avresti dovuto parlarmene, così come io ti ho raccontato di mia madre e della mia famiglia. Non è nascondendoti nelle tue paure che riuscirai a ritrovarla...» affermò A.
A quel punto Ramòn si girò di scatto dicendo: «Io non ho nessuna paura e l’ho cercata per tutte le città della Spagna. E quando dopo molti mesi sono rientrato a Jerez de la Frontera, ho deciso di diventare difensore del pueblo e ho giurato a me stesso di impedire ai Daimònes che altre ragazze possano essere rapite».
A sgranò gli occhi, comprendendo le intenzioni e i nobili sentimenti dell’amico: «Per questo tutte le sere ti allontani da Jerez, per salvare altre ragazze che stanno per essere rapite dai Daimònes, così come hai fatto con me».
Ramòn riafferrò l’elsa della spada ed estrasse la lama dal terreno dicendo con enfasi: «Io salvo ogni sera a mia amata Teresa, sperando di riportarla presto accanto a me......».
«Sei riuscito a sapere qualcosa di lei?»
«Un uomo sapiente mi ha detto che una parte delle ragazze rapite nelle terre di Spagna sono state nascoste dentro una fortezza».
«Chi è quest’uomo sapiente?» chiese A.
«Lo conoscerai presto, si chiama Corrado Alvaro, ma tutti lo chiamano don Alvaro. È il più forte cavaliere che io abbia mai conosciuto, ma avremo tempo per parlare di lui, adesso dobbiamo ritornare alla Real escuela».
I due giovani rientrarono a Jerez de la Frontera, dove A rimase ancora diverse settimane per completare le lezioni con il maestro Gonzales. Più volte la mente della ragazza si chiese se la madre potesse