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La ragazza che camminava scalza
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La ragazza che camminava scalza
E-book380 pagine4 ore

La ragazza che camminava scalza

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Info su questo ebook

"Poi c’è un urlo liberatorio che raccoglie tutto: ottocentotrenta chilometri, ventinove giorni, gioie e dolori, notti in ostelli affollati con poco dormire e tanto casino, cene collettive indimenticabili, crisi mentali e fisiche, persone che arrivano e ti spaccano il cuore per riempirlo di amore e se ne vanno, lo zaino che è casa tua, tanti discorsi e confronti sulla tua vita e su quella degli altri, risate e pianti.
Non posso spiegare cosa abbia trovato, ma posso dirvi che partire è stata la cosa più saggia che abbia mai fatto"

Un viaggio per le strade della Spagna, raccontato dalle parole di un diario ritrovato a Finisterre da una ragazza che ha appena concluso il Cammino di Santiago. Un diario che narra di un'avventura lunga un mese di chi, passo dopo passo, si scopre attraverso i propri occhi e quelli delle persone che incontra lungo via, cambiando pelle giorno dopo giorno. Un luogo incredibile, in cui perdersi è il miglior modo di ritrovarsi. In cui nulla, probabilmente, accade per caso...
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2017
ISBN9788826011844
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    Anteprima del libro

    La ragazza che camminava scalza - Claudio Galli

    SAMUEL

    LA FINE DELLA TERRA

    Finisterre: fine della terra, fine del mondo, chilometro zero.

    Dopo settimane di cammino, dopo quasi mille chilometri percorsi solamente grazie alla forza di volontà e al cuore, dopo giorni contraddistinti dal susseguirsi di sensazioni forti e diverse, persino talvolta contrastanti, arrivare in cima a quella scogliera, con la spiaggia sotto di sé e la cittadina di fronte, con il faro a svettare in lontananza, descrivere quello che si prova è praticamente impossibile.

    È da poco passata l’alba: i colori della sabbia, del mare, delle case arancioni e della roccia delle scogliere si mescolano tenuamente fra loro, complice un sole ancora poco incisivo nel distinguerne contorni e sfumature.

    Gli occhi profondi che stanno ammirando questo scenario sono della ragazza che cammina scalza.

    Indossa una felpa col cappuccio grigio chiaro leggermente abbondante segnata da questo incredibile viaggio, con le maniche e la vita sgualcite e allargate.

    I pantaloni della tuta blu hanno qualche strappo e segni di consumo evidenti, gli elastici alle caviglie hanno completamente perso forza, lasciando morbido il contatto con le piccole caviglie dalla pelle liscissima.

    Zaino carico, zeppo di storie da raccontare, col poncho impermeabile piegato in maniera disordinata sulla cima e il materassino argentato arrotolato sul fondo.

    Le scarpe infilate nella retina porta borraccia, poiché appena può, preferisce non usarle.

    Questa caratteristica la accompagna da anni ormai, poiché il contatto diretto col terreno le permette di connettersi alla forza del suolo sul quale poggiano i suoi piedi, sul quale cammina e vive, perfetta simbiosi di vita.

    Tutto ciò le dona un’immagine incredibilmente potente e affascinante agli occhi di chi la incontra lungo la via.

    Soltanto persone aperte e sensibili possono cogliere appieno il suo spirito; per il resto può sembrare solo una ragazza che porta dentro un grande peccato da espiare, trovando salvazione proprio nel camminare scalza.

    Invece è tutt’altro: è energia pura, è libertà, è vita.

    Ama camminare scalza.

    Accanto a lei, forte e fiera ma allo stesso tempo dolce e sensibile, scodinzola la sua cagnolina, che la segue da dieci anni ormai lungo le vie del mondo, inseparabili sorelle.

    E insieme sono arrivate fin qua, alla fine del Cammino di Santiago: luogo mistico e potentissimo, bianco, libero da condizionamenti esterni a cui la vita sottopone la gente comune, così forte da permettere a chi vi cammina di specchiarsi fino ai meandri più profondi di sé stesso, per trovare risposte alle domande più importanti e nascoste dell’anima.

    Morire per poi rinascere.

    Perdersi per poi ritrovarsi.

    Piangere per poi sorridere.

    Soffrire per poi essere felice.

    Un veicolo senza limiti di velocità con cui poter affrontare uno dei viaggi più significativi a cui si possa aspirare.

    Sta percorrendo la lunga spiaggia che accompagna fino alle porte di Finisterre: la sabbia è morbida, le onde sono lunghe e leggermente frastagliate, l’acqua che la bagna fino alle caviglie è tiepida e rigenerante.

    Raccoglie conchiglie, rilassandosi, dopo la camminata notturna di una quindicina di chilometri che l’ha portata fino a qui.

    Improvvisamente si ferma, posa lo zaino e scruta la linea dell’orizzonte.

    Sorride.

    Si spoglia, completamente, per poi iniziare a correre e infrangersi contro la potenza dell’oceano.

    Il rumore dello scontro di queste due imponenti forze è fragoroso.

    La cagnolina gioca con le onde sul bagnasciuga, osservandola nuotare libera e serena, senza più il peso del bagaglio che ha accumulato con le persone incontrate lungo il Cammino.

    Quando riemerge dall’acqua, magra, tonica, di una sensualità stordente, subito viene raggiunta dalla piccola compagna di viaggio, che le salta addosso vogliosa di condividere questi momenti di gioia e serenità.

    Si riveste ed entra in città.

    Finisterre sta ancora dormicchiando: i bar hanno da poco aperto, gli albergues sono vuoti e in fase di preparazione per i nuovi pellegrini che ospiteranno in giornata, negozi e attività hanno ancora il bandone calato.

    Non si ferma, bensì prosegue per altri tre chilometri, volendo raggiungere la vetta: il faro, ultimo baluardo della civiltà, ai confini della terra.

    La strada è piena di sassi e ghiaia: si fanno sentire. Dura poco però, perché presto ci si abitua.

    Arrivata a destinazione, fortunatamente trova il piazzale quasi deserto; i pullman scaricaturisti ancora non hanno iniziato la frenetica attività giornaliera.

    Il faro di per sé non la incuriosisce molto, poiché si trova qui per un motivo ben diverso.

    È uso, una volta giunti alla scogliera, scendere tra le rocce, ove vengono allestiti fuochi per disfarsi di qualcosa con cui è stato percorso il viaggio, splendido rito di liberazione.

    Lei è lì per bruciare le sue scarpe.

    Almeno simbolicamente, poiché contraria a far liberare nell’aria fumi tossici della plastica di cui sono composte. Si limita quindi a dare fuoco ai lacci in canapa, lasciando le calzature accanto al falò.

    Ad un certo punto, viene interrotta dalla cagnolina che, contrariamente alla sua vena pacifica e controllata, sta abbaiando in modo insistente, come fosse in stato di connessione con qualcuno, lontano.

    «Cosa succede?» le domanda sorpresa dall’insolito comportamento.

    La piccola fissa per alcuni secondi la ragazza, improvvisamente silenziosa, dopodiché abbassa la testa e comincia a seguire una traccia tra le rocce.

    Samuel!

    Il cuore sussulta al pensiero del suo nome, saltando qualche battito.

    La cagnolina si ferma una decina di metri avanti e comincia a chiamarla.

    La raggiunge, trovandosi davanti a un diario.

    Non serve leggere il foglietto che vi è bloccato sopra con un sasso, poiché lo riconosce all’istante.

    È proprio il diario di Samuel!

    Si chiede perché sia qui, trattandosi della cosa a cui lui ha tenuto di più, in questo viaggio. Tutte le sere, prima di andare a dormire, facendosi luce con qualsiasi cosa trovasse, si perdeva in quelle pagine, a volte tra il malumore di altri pellegrini che non riuscivano a prendere sonno.

    Era diventato un po' il loro rituale della buonanotte, tra i membri del gruppo c’era sempre qualcuno che chiedeva quanto gli mancasse per finire.

    Si china per raccoglierlo, alzando il sasso che lo assicura al terreno con un attimo di titubanza. Il cuore le batte forte.

    Lo stringe tra le mani, una volta lette quelle due semplici ma importantissime parole scritte sul pezzo di carta: " Ciao Maquina! "

    Il tempo passa, perdendosi in questa istantanea: seduta sulla punta della scogliera, continuando a custodire tra le mani questo tesoro, ma incapace di aprirlo, come serrato da una qualche sorta di incantesimo.

    Il messaggio è inequivocabile: il diario le è stato volutamente lasciato.

    La ragazza che cammina scalza è perfettamente a conoscenza dell’energia racchiusa tra queste righe: a lungo è stata al fianco del ragazzo a cui è appartenuto. Lo conosce molto bene.

    Capisce che questo non sia il luogo migliore per collegarsi, riparte quindi alla volta della spiaggia, visto che Samuel è un figlio del mare e non esiste posto più adatto per perdersi tra le pagine del suo diario.

    Una volta arrivata, nota subito il cambiamento dovuto al salire del sole: i colori dell’acqua e della sabbia sono più vividi, varie tonalità di azzurro e giallo.

    Sorride: sono colori ricorrenti in questa storia.

    Capisce sia giunto il momento di riviverla.

    GIORNO 0 - PAMPLONA

    Beh, come cominciare degnamente un diario di viaggio?

    Sicuramente tramite la prima immagine apparsa dinanzi a me, appena varcate le porte scorrevoli dell’aeroporto di Pamplona.

    Montagne, montagne e ancora montagne.

    Per tre quarti del panorama tutto intorno.

    Che maestosità, si sente nell’aria che respiro.

    Immerso in questa quiete di tardo pomeriggio, col sole che sta cominciando a scendere, riesco a percepire qualcosa di difficilmente spiegabile, simile alla calma prima della tempesta.

    Continuo a osservarmi intorno: il colore marrone della roccia montana si mescola col verde scuro degli alberi che posano stabili sulle pareti, creando una miscela di toni gradevoli, caldi.

    Un altro senso subito prepotentemente bombardato è l’olfatto.

    Non riesco a vederli, ma distinguo perfettamente fragranze di fiori appena sbocciati, delicate ma allo stesso tempo di forte impatto.

    Piena primavera.

    Le sensazioni che mi stanno pervadendo sono molto contrastanti con quelle che mi sono portato da casa, pesanti bagagli in confronto ai quali il mio zaino sulle spalle è comparabile a una piuma.

    Riesco a percepire chiaramente un ambiente protettivo, molto rassicurante.

    Se penso con quanta confusione ho attraversato le porte dell’aeroporto di partenza: il cuore a mille, la testa che ha girato così forte da temere quasi l’espulsione del mio cervello per forza centrifuga.

    Tutto questo è accaduto solo cinque ore fa.

    Prendo un taxi.

    Un turbinio di pensieri affolla la mente, nel tragitto che porta all’interno di questa sconosciuta città.

    Penso alla tibia sinistra dolorante, dopo la Spartan Race, alla quale ho partecipato una settimana fa.

    Mi chiedo quanto questo potrà influire su questa nuova avventura che mi sta aspettando.

    Questi pesanti e stordenti pensieri vengono improvvisamente cacciati dal suono della radio appena accesa dal tassista.

    AC DC in Thunderstruck , una delle canzoni di ingresso più usate dai lottatori. Mi ricarica, ricordandomi di fare parte di questo ambiente. Sento forza e sicurezza farsi spazio nel torpore del quale mi trovo in balìa, capendo di non aver nessun motivo di preoccupazione per quello che mi aspetterà in questo mese di maggio.

    L’uomo al volante comincia a parlarmi in spagnolo.

    Non viaggio in un paese con questa lingua da circa quattro anni, ma comprendo abbastanza bene il significato delle sue parole. Provo a rispondere, a dispetto del fatto di non avere mai studiato, ma appreso solo lungo la strada.

    Nonostante la ruggine, me la cavo ancora.

    La conversazione quindi procede, certo con qualche difficoltà, ma procede.

    Mi chiede se sia qui per intraprendere il Cammino di Santiago.

    Avendo ricevuto risposta positiva, principia a spiegare quanto incredibile sia come esperienza, avendola provata sulla propria pelle anni prima, esortandomi a essere felice e forte di fronte a quello che incontrerò nei prossimi giorni.

    Mi domanda da quale parte dell’Italia venga, per poi illuminarsi e raccontarmi del suo viaggio in Toscana insieme alla moglie, spaziando poi al racconto degli altri viaggi italiani fatti nel corso della loro vita.

    Un uomo veramente positivo, mi piace.

    Arriviamo all’indirizzo in cui ho prenotato una stanza per passare la prima notte.

    Mi accoglie un ragazzo cordiale e simpatico, il quale mi spiega come lasciare la città all’indomani, entrando nel Cammino.

    Dopo essermi sistemato, esco alla ricerca di un supermercato dove comprare qualcosa da portarmi dietro durante la giornata di domani e un rasoio usa e getta, poiché ho deciso di compiere un piccolo rituale.

    Ho iniziato a portare la barba incolta poco prima dell’inizio di questo periodo buio che mi accompagna da un paio di anni, con la promessa di tagliarla solo il giorno in cui sarei tornato a stare bene.

    Prima di rientrare in appartamento, mi fermo all’interno di un grande giardino e mi siedo sul prato, di fronte a un laghetto con fontana al centro e un enorme gazebo di lato.

    Mamma papera nuota serena, seguita dai piccoli.

    Mi bevo una birra, la prima, brindando con me stesso all’inizio di questo viaggio.

    Mi rilasso.

    Sto cominciando a respirare, nuovamente.

    D’altronde è questa necessità che mi ha spinto fino a qui.

    Smettere di vivere in apnea: la scarsità di ossigeno mi annebbia la mente, talvolta facendomi tremare le gambe, chiudendo il mio cuore in una solitudine divenuta ormai troppo pesante.

    Ieri sera, alla cena di buon auspicio per il Cammino, mi hanno consigliato di scrivere i buoni propositi prima di compiere il primo passo, quindi eccoli qua.

    Questo è il motivo del mio viaggio: smettere di soffocarmi e gioire di tutto quello che mi circonda.

    Mi alzo e torno in camera.

    Una volta fatta la barba, osservo attentamente il volto riflesso nello specchio, riscoprendo una figura lontanamente familiare.

    Provo piacere nel rincontrarla.

    È ora di tornare a stare bene.

    Buon viaggio.

    GIORNO 1 - CIRAUQUI (29 KM)

    Primo giorno indimenticabile.

    Appena finito di fare la doccia, mi si sono gonfiati notevolmente i piedi, ma resto comunque felicissimo.

    La tappa prevista si sarebbe dovuta concludere a Puente de la Reina, invece ho percorso ben otto chilometri in più, arrivando a un totale di ventinove!

    Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetta un viaggio incredibile.

    Mi sveglio ancora titubante e stordito, con le consuete scarse energie.

    Esco.

    Cielo coperto e carico, al punto che alla partenza comincia subito a cadere una pioggerella in stile inglese, fine ma fitta.

    Trovare la via per uscire dalla città risulta un po’ difficile, non essendo segnalata bene.

    Nello sbagliare strada, mi imbatto in un’imponente scultura stilizzata di un guerriero spartano. Rimango qualche istante a fissarla, poiché mi trasmette energia e sicurezza, poi riparto, riuscendo a lasciare Pamplona solo intorno alle nove.

    Trovo un cartellone raffigurante la mappa fino a Puente de la Reina, con spiegati chilometraggio e tipologia di percorso, utile per farsi un’idea di quello che la giornata riserverà.

    Da questo punto in poi, finalmente, riesco ad assaporare l’essenza del Cammino come me lo sono immaginato: strade deserte che ben presto diventano sentieri sterrati, campi di fiori e prati sconfinati, silenzio e tranquillità diffusi in questo serpentone di pellegrini di tutte le età e provenienti da ogni parte del mondo.

    Le condizioni climatiche sono molto instabili: per tutta la mattina sole e pioggia si alternano, costringendomi più volte al rituale di vestizione e svestizione di materiale impermeabile.

    Intorno alle undici, primo e unico momento di vera incertezza: la mente comincia a produrre pensieri negativi circa il mio ritmo di marcia e stanchezza, presunta, che già inizia a farsi sentire.

    Mi rendo subito conto di quanto siano solamente costruzioni mentali, che cerco di isolare indossando le cuffie del lettore mp3 e continuando a camminare.

    L’effetto della musica rock è una cura energizzante, poiché libera la testa e carica le gambe.

    Il primo step che mi prefiggo è il raggiungimento di alcune pale eoliche che svettano sulla cima di una collina, a circa seicentocinquanta metri di altitudine.

    Mi ci arrampico agilmente, arrivando intorno a mezzogiorno.

    Il rumore provocato dalla rotazione delle pale è fortissimo, come del resto il vento prodotto.

    Sulla cima vi è una rappresentazione di sculture raffiguranti antichi pellegrini che percorrono il Cammino.

    Leggo il nome di questo luogo: Alto del Perdon.

    Un piccolo chiosco con ruote rimorchiato a un’automobile offre ristoro. Mi fa uno strano effetto, poiché sembra la cosa più fuori dal contesto che si possa incontrare su questa vetta deserta.

    Mi volto: Pamplona risulta minuscola laggiù in valle. Dista soltanto dieci chilometri, ma sembrano molti di più.

    Sorrido, pensando a cosa sia riuscito a fare in così poco tempo.

    Respiro, a fondo.

    Respiro, una volta ancora.

    Poi mi volto, ammirando la maestosa discesa che mi porterà chissà dove, all’interno di questa nuova valle.

    Mi getto in picchiata, nuovo di un entusiasmo ormai quasi perduto, sopito in qualche profondo angolo di me stesso.

    Il terreno che incontro è sconnesso, terroso, pieno di rocce più o meno grandi e stabili.

    Pongo particolare attenzione durante la discesa, per evitare di prendere storte alle caviglie.

    Ai piedi del Perdon, conosco la prima persona di questo mio viaggio, un ragazzo polacco di nome Mario. È in cammino da tre giorni e mi spiega quanto sia importante avere idea delle distanze tra pueblos e relativi albergues presenti in essi, mostrandomi una lista ricevuta a inizio pellegrinaggio contenente tutte queste informazioni.

    Scatto un paio di foto per avere una panoramica dei primi giorni di viaggio, lo ringrazio e ci salutiamo.

    Ho voglia di una pausa, un panino e una buona cerveza.

    Pranzo leggero e riparto, arrivando intorno alle due e mezzo a Puente de la Reina.

    Piccolo, antico e ben conservato.

    Molti pellegrini cercano albergues dove passare la notte, essendo la tappa canonica riportata in tutte le guide, le quali sono solite indicare percorsi giornalieri di distanze non superiori ai venticinque chilometri, troppo brevi per la mia tabella di marcia, che necessita avere un ritmo di trenta chilometri al giorno per poter raggiungere Finisterre.

    Mi dirigo all’ufficio del turismo per richiedere la lista degli albergues, scoprendo aprirà alle quattro e mezzo.

    Mi siedo su una panchina all’ombra, a riflettere.

    Fermarsi o continuare?

    Sto bene fisicamente, ma inizia a farsi tardi e ho sentito ci siano difficoltà nel trovare da dormire passato un certo orario, soprattutto in piccoli pueblos come quelli che sto pensando di raggiungere.

    Il prossimo dista cinque chilometri.

    Ok, zaino in spalla e riparto.

    Il sole splende alto; il suo calore mi rigenera, permettendomi di alleggerire i vestiti che indosso, tanto da farmi rimanere in maglietta, al fresco.

    Percorro velocemente tre chilometri.

    Il paesaggio cambia in un attimo, passando da pianeggiante a collinare.

    Mi trovo improvvisamente ad affrontare una salita durissima, ripida e lunga un chilometro circa.

    Le gambe si fanno presto dure, il fiato corto, lo zaino sempre più pesante. Lo sostengo aiutandomi con le braccia.

    Sudo, sudo tantissimo.

    Ma dentro sento una potenza nuova, la quale non mi permette di mollare, di stare fermo.

    La testa ha perso il predominio sul corpo.

    Quasi in cima alla salita, su un muretto alla mia destra, trovo una scritta azzurra: ANIMO!

    Mi volto, affannato, per guardare la valle che ho appena lasciato.

    Le pale eoliche dell’Alto del Perdon appaiono minuscole, sulla cima della collina dall’altra parte.

    Quanta strada fatta in mezza giornata.

    Con sempre più crescente motivazione conquisto la vetta, arrivando al paesino, trovandomi però davanti a uno scenario triste e deserto.

    Decido quindi di rischiare percorrendo altri tre chilometri, fino a quello successivo.

    Quando Cirauqui appare in lontananza, sulla cima di un piccolo promontorio, è come assistere a una visione.

    Sto camminando in solitaria da otto chilometri, ultimo uomo sulla Terra.

    Sono fiero dell’impresa di questo mio primo giorno.

    Indosso le cuffie per farmi accompagnare dai Led Zeppelin fino all’ingresso, cantando a squarciagola, con le braccia tese verso l’esterno.

    Non mi accorgo di due pellegrini in bicicletta che stanno giungendo alle mie spalle fino a quando non mi superano, sfiorando la mia mano sinistra, sorridendo per la scena a cui stanno assistendo e salutandomi.

    Ricambio a mia volta.

    Una strana consapevolezza mi pervade: non so il motivo, ma sento di essere arrivato esattamente nel punto in cui dovevo arrivare.

    Entro nell’unico albergue, emozionatissimo, ed effettuo la prima registrazione con annesso timbro sulla credenziale: un cuore rosso bellissimo.

    Entro in camera leggermente spaesato: vi sono sei posti letto distribuiti a castello, di cui due liberi.

    Scelgo di dormire sopra a una ragazza, di fianco ci sono un signore sulla sessantina e un uomo sulla quarantina.

    Qualche minuto più tardi, fa il suo ingresso un ragazzo.

    «Sei tu l’italiano?»

    «Si»

    «Piacere, Mattia.

    Loro sono Ugo e Umberto, vengono dal Messico, mentre la ragazza che dorme sotto di te è austriaca»

    Mi presento loro: Ugo è il quarantenne, Umberto il sessantenne.

    Accenno di aver viaggiato nel loro paese nativo, qualche anno prima e parliamo per un po' una lingua mista tra italiano e spagnolo, dato che Umberto conosce perfettamente la mia.

    Sono di Guadalajara.

    Intraprendo poi una conversazione con Mattia: è emigrato da qualche anno in Spagna per lavoro e si è appena licenziato perché sente la necessità di cambiare vita.

    Mi congedo e vado al bagno dove, con stupore, trovo una doccia caldissima, a discapito di quello che mi era stato raccontato circa l’alta probabilità di trovare negli albergues acqua gelata. Mi lascio cullare e rigenerare sotto il flusso fumante.

    Ore sette, tutti a cena, poiché alle dieci gli albergues chiudono e si spengono le luci.

    Altra scoperta che mi lascia sorpreso e un po' perplesso, essendo abituato totalmente ad altri ritmi.

    Non essendoci cucina disponibile, opto insieme ai miei compagni di stanza per il menu del pellegrino, trovandoci tutti e cinque alla medesima tavola, insieme a due signori irlandesi.

    Cena squisita e abbondante, accompagnata da innumerevoli caraffe di ottimo vino tinto locale.

    Mi sciolgo piano piano, parlando coi commensali in inglese, italiano e il poco spagnolo che riesco a ricordare.

    Mattia è gentilissimo nell’aiutarmi a tradurre vocaboli che non conosco, come del resto i due messicani che mi vengono incontro, pazienti e sereni.

    Parlo molto con Umberto, scoprendolo uomo di grandissima cultura, padrone di ben cinque lingue e di molta conoscenza in diversi campi, dalla storia allo sport.

    Cerco di osservare molto anche le altre persone, trovando stimolante questo miscuglio di nazionalità ed età, rimanendo affascinato nell’ascoltare le storie di questi uomini e di questa ragazza.

    Finita la cena, ci alziamo barcollando, vogliosi di partecipare alla festa di paese per la ricorrenza del Primo de Mayo.

    L’hospitaliera dell’albergue ci ricorda l’orario di chiusura, poiché lei non dormirà nella struttura.

    La piazza del paese è gremita di persone: bambini che scoppiano petardi, uomini che bevono all’ingresso di una locanda, ragazze che ballano sotto al palco in cui si sta esibendo un caratteristico complesso pop spagnolo, signori e signore più anziane a fare da cornice agli angoli.

    Atmosfera calda e festaiola, degna ricompensa dopo gli sforzi della giornata ormai giunta al termine.

    Facciamo amicizia coi ragazzi locali, i quali ci invitano a bere un liquore tipico della zona: il Pacharàn, sorta di amaro molto forte di un vivido colore rosso servito con ghiaccio, dal gusto decisamente zuccherino.

    Buonissimo, ma ben presto si fa sentire in testa e sulle gambe, rendendoci ancora più allegramente scalmanati, al punto che io e Mattia ci tuffiamo tra la gente, ballando e ridendo.

    A bicchieri vuoti, proponiamo ai messicani il bis e, brindando svariate volte, ci ubriachiamo definitivamente.

    Molto presto arrivano le dieci.

    Rientriamo, ma viste le nostre condizioni, cerchiamo il modo per poter uscire dalla struttura e tornare a far festa, non volendo rimanere in camera a disturbare l’austriaca che sta dormendo.

    Ma siamo troppo molesti e il cuoco non tarda ad arrivare, trovandoci alla reception a riempirci il corpo di timbri per le credenziali.

    Il grosso uomo ci esorta gentilmente ad andare a letto, oppure a dormire fuori, se preferiamo.

    Ci infiliamo dentro i sacchi a pelo ridendo come matti, con Umberto che cerca, anch’egli stordito, di portarci alla tranquillità, con fare poco credibile, ripetendo un mantra col dito indice alzato:

    «Disciplina!»

    GIORNO 2 - VILLAMAYOR DE MONJARDIN (25 KM)

    Una giornata davvero strana.

    Col passare delle ore, il mio umore è oscillato dall’ottimo al pessimo almeno tre volte.

    Comincio a comprendere il significato del termine viaggio interiore.

    La caratteristica collinare della tappa odierna credo abbia accelerato questo processo di risveglio mentale.

    Ho conosciuto la strana sensazione del non aver alternativa, del poter solo andare avanti, senza scappare in altra direzione o nascondersi dietro a una qualsiasi scusa.

    Essere solo davanti a me stesso.

    In marcia alle sei e mezzo, insieme ai miei nuovi compagni.

    I bagordi di ieri sera si fanno sentire.

    Tutt’intorno, un’atmosfera familiare ma completamente differente allo stesso tempo.

    Partiamo col sole ancora nascosto, quasi dormiente dietro le colline, che dona luce tiepida al mondo circostante, la quale non riesce a tagliare del tutto l’aria fredda della notte che sta finendo.

    Come unico suono, il cinguettio degli uccelli appena svegli.

    Familiare, in quanto centinaia di volte in passato sono tornato a casa a quest’ora, scombussolato da serate troppo spinte e devastanti, sopportando appena il canto di chi stava cominciando una nuova giornata, mentre la mia giungeva al termine, stremato sul letto.

    Penso come sia magico alzarsi insieme al resto del mondo: si respira un forte odore di vita, a quest’ora.

    Pochi passi e percorriamo cinque chilometri, praticamente senza accorgercene, in quasi rigoroso silenzio, poiché freddo e postumi rendono macchinoso il risveglio della mente di ognuno di noi.

    Fortunatamente, il sole arriva a rincuorarci, attivandoci. Risate, scherzi e lezioni di spagnolo danno nuova linfa alla Esquadra Assurra, come ci chiama Umberto, storpiando la pronuncia e continuando ad ogni piccolo lamento a rimproverare simpaticamente il malcapitato col dito puntato e la semplice, ma collaudatissima parola: «Disciplina!»

    Col passare del tempo mi sto accorgendo di quanto positivamente stia reagendo il mio corpo al digiuno, dal mio risveglio. Decido quindi di provare a prefissare un obiettivo di dieci chilometri, prima di ricaricarmi di calorie.

    Obiettivo che raggiungo facilmente, cominciando a conoscermi meglio in situazioni più estreme, felice del fatto che avrei potuto continuare ancora per qualche altro chilometro.

    Piacevole scoperta, se paragonata al fatto che a volte si lamenti mancanza di forze al mattino, qualora non sia stata fatta la colazione.

    Il luogo che scegliamo per la sosta energetica è stupendo: un tavolo in pietra immerso in un campo di ulivi, con alle spalle una maestosa chiesa

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