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L'austriaco
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E-book251 pagine3 ore

L'austriaco

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Info su questo ebook

“23 Novembre 1899.

Quel giorno, Aurora, seppellì il suo amatissimo padre. Alla fine della triste cerimonia i parenti e gli amici tornarono nelle loro case.

Lei no.

Lei andò alla casa del padre.

Si sedette sulla poltroncina dello scrittoio e il suo sguardo vagò per la stanza. Gli oggetti che vedeva le portarono alla mente tanti ricordi.

Chiuse gli occhi. La testa le girava. Si aggrappò ai braccioli e quando l’ansia passò, riaprì gli occhi e vide, davanti a sé, un vecchio quaderno, dalla copertina di pelle marrone. Lo aprì e…”

LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2016
ISBN9788892554733
L'austriaco

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    Anteprima del libro

    L'austriaco - Mauro Slavich

    vita".

    La mia vita

    " Nascere nel più bel posto del Mondo

    è stata una fortuna.

    La valle di Frenštát pod Radhoštěm

    era circondata da montagne piene di boschi

    e le loro cime si alzavano al cielo come monumenti."

    1 - Le mie origini.

    Mi presento:

    Mio nonno si chiamava Heinrich Slovak ed è stato un soldato degli Asburgo.

    Mio padre si chiamava Karl Slovak ed è stato un sottufficiale degli Asburgo.

    Io mi chiamo Alois Slovak e sono stato un ufficiale degli Asburgo.

    Sono nato il giorno 14 del mese di Ottobre dell’anno 1830 a Frenštát pod Radhoštěm, un piccolo villaggio nei Carpazi della Moravia - Slesia.

    Discendo dal popolo dei valacchi che in origine era il popolo dei volci.

    I volci vivevano tra la Franconia e la Boemia, ma furono scalzati dai germanici e dai daci. Si divisero rifugiandosi in regioni diverse. Un gruppo si stabilì in Franconia e un altro discese i Carpazi raggiungendo l’Anatolia. Le famiglie dei due gruppi, man mano che trovavano un posto ideale, si fermavano e iniziavano la loro nuova vita. I miei antenati si stabilirono nella regione della Valacchia. Si adattava al loro modo di vivere. Pascoli per allevare il bestiame e boschi tutt’intorno per andare a caccia, procurandosi cibo abbondante e pelli.

    Nel XIV e XV secolo gli Ottomani attaccarono la Valacchia, costringendo la popolazione a emigrare. Piccoli gruppi di valacchi si spostarono sui Carpazi sino alla Polonia, fermandosi un po’ qui, un po’ là. Erano diventati pastori nomadi. Il mio ceppo si fermò in Moravia - Slesia e prese parte alla guerra dei trent’anni perché gli Asburgo volevano abolire il diritto valacco.

    Essendo un piccolo popolo contro un grande esercito, lottarono con la tecnica della guerriglia, in pratica facevano incursioni e imboscate. Combattendo come un’orda riuscirono vittoriosi nei primi anni di guerra, poi furono soccorsi dagli ungheresi, ma nel 1624 fu sottoscritta una pace tra gli Asburgo e l’Ungheria. A quel punto gli Asburgo colsero l’occasione per attaccare i valacchi sulle montagne di Vsetin, ma i valacchi prevalsero in ciò che fu descritto come un massacro.

    Nel 1626, insieme ai danesi conquistarono Lukov e Hranice, ma nel 1627 il contrattacco degli Asburgo costrinse i danesi ed i valacchi a ritirarsi. Nel 1630, i valacchi controllavano solo alcuni capisaldi nei Carpazi. L’ultima rivolta valacca contro gli Asburgo fu nel 1640, quando si allearono con gli svedesi. Dopo tre anni, gli svedesi si ritirarono per concentrarsi in una guerra contro la Danimarca e i valacchi rimasero soli.

    Nel 1644 una massiccia incursione asburgica contro i valacchi fu condotta sulle montagne a Est di Vsetin. La spedizione asburgica fu completata da una battaglia che culminò nell’incendio dei villaggi valacchi, il disarmo della popolazione, la distruzione dei campi e del bestiame. Un quinto dei maschi di Vsetin fu ucciso. I fuggiaschi furono inseguiti e catturati.

    Alla condanna a morte fu imposto, come scelta, il giuramento di fedeltà agli Asburgo e la conversione alla fede cattolica.

    Molti valacchi furono giustiziati.

    In quel tempo, erano stati definiti dagli Asburgo un popolo bellicoso e in particolare, i valacchi della Moravia furono chiamati feccia locale.

    Il mio spirito è valacco: guerriero, ribelle, libero.

    2 - Il diavolo in carrozza.

    Avevo tre, forse quattro anni ed era Estate. Stava arrivando un temporale, i bagliori dei lampi e il cupo rombo dei tuoni si ripetevano di continuo. Le saette si scagliavano a terra con botti che somigliavano a cannonate.

    Mi trovavo in cortile. Nudo. In piedi dentro una tinozza di metallo e nonna Ethel mi faceva il bagno.

    Tutte le volte che sentiva un tuono esclamava: «Ecco il diavolo in carrozza che arriva.»

    Io guardavo le nuvole, cercando di vederlo e quando scorgevo i lampi, mi spaventavo e le chiedevo: «Viene per portarmi via?»

    «No, se fai il bravo.» Mi rispondeva.

    Ho avuto paura del diavolo per diversi anni. 

    3 - Il guinzaglio

    Frenštát era un villaggio con parecchi abitanti, situato alla fine di una vallata tra i Carpazi della Moravia.

    Tra Ottobre e Marzo le nevicate erano frequenti e nel mese di Gennaio, la neve diveniva ghiaccio trasformando il villaggio in un posto fiabesco. Gli alberi del bosco, spogli, erano coperti dalla coltre bianca. La neve sui tetti era trattenuta da parapetti in fili di ferro alti un metro. Candelotti lunghi mezzo metro scendevano dai tetti delle case. Gli Inverni erano rigidi e lunghi e alla fine giungeva la Primavera e portava le piogge che, pian piano, scioglievano i blocchi di neve ghiacciata. Con la bella stagione, gli abitanti del paese avevano una bell’abitudine. Facevano una passeggiata con la famiglia alla fine del pomeriggio. Si vestivano con gli abiti della festa e camminavano avanti e indietro per la via principale. Ogni tanto si fermavano per salutare un amico, un conoscente. Scambiavano due parole e si comportavano con gran formalità, anche se si conoscevano sin da bambini.

    Io, ero irrequieto. Mia madre sosteneva che avevo l’argento vivo addosso.

    Quando i miei genitori mi portavano a fare la passeggiata, mi mettevano tra loro tenendomi le mani. Alla prima occasione mi divincolavo e correvo tra la gente.

    Qualche volta mi buttavo a terra, oppure, passavo tra le gambe delle persone che camminavano. Potevano inciampare e cadere o farmi male.

    A mia madre venne l’idea di legarmi e trattenermi con un guinzaglio, come quello che si usava per i cani.

    Aveva risolto il problema.

    4 - Il fegato.

    Fegato con patate era il mio piatto preferito. Il mercoledì sera, mia nonna lo preparava ed io, aspettavo con impazienza che arrivasse l’ora della cena. Mi sedevo a tavola, mentre mia madre riempiva i piatti di tutti. A quel punto, mi alzavo, facevo un giro di corsa intorno alla tavola e mi fermavo in fianco a mia nonna. Lei mi metteva in bocca un pezzetto di fegato. Lo masticavo, assaporandone il gusto e dopo averlo deglutito, rifacevo il giro della tavola di corsa. Mi bloccavo accanto a lei…e lei, m’imboccava di nuovo. Tutte le volte che preparava fegato con patate, mi comportavo così. Andavo avanti in quel modo sino a finire il mio piatto.

    Non ero un bambino tranquillo.

    5 - La treccia.

    Era il mese di Maggio.

    Mia madre entrò nella mia cameretta e aprì la finestra.

    La luce del sole mi svegliò e sentii un buon profumo di resina di pino. Mi alzai dal letto e andai nella stanza da bagno. Aprii la porta e vidi mia nonna Ethel. Indossava la camicia da notte, bianca con dei fiori disegnati. Si stava pettinando. La finestra era aperta e sul davanzale facevano bella mostra due vasi di rose.

    «Entra Alois, un attimo ed ho finito.» Disse, guardandomi con i suoi occhi azzurri, umidi e arrossati, come quelli di chi aveva pianto da poco.

    Mi sedetti sull’unica seggiola di legno che c’era nella camera e la osservai curioso.

    Lei aveva capelli lunghi sino alla fine della schiena. Erano bianchi con delle striature giallognole, segno evidente di una tonalità bionda avuta in passato. Li lisciava con una spazzola. I suoi gesti, ripetitivi e delicati, mostravano l’abitudine e il suo amore per le cose semplici. Appoggiò la spazzola sulla mensola, sotto lo specchio e con le sue piccole mani, divise in tre parti i capelli. Una parte la portò sopra la spalla sinistra, facendola cadere davanti al seno. Quella centrale la lasciò dov’era e l’altra la portò davanti, dall’altra parte. A quel punto, arrotolò su se stessi i capelli divisi e li bloccò con striscioline di tela rossa. Con la mano sinistra prese due strisce di capelli e con la destra l’altra e li intrecciò sino ad avere una treccia lunga e sottile. Terminò la sua acconciatura arrotolando la treccia sulla nuca e fermandola con forcine di tartaruga.

    Quando terminò, passò una spazzola sulle spalle per togliere i capelli caduti e mi disse: «Ecco fatto, Alois. Ora il bagno è tutto per te. »

    Uscì dandomi un bacio sulla guancia.

    6 - Il girotondo.

    Se dovessi fare una classifica degli scolari della mia classe, dovrei dividerli in tre gruppi. Bravi, normali e asini. Io e altri quattro alunni, su trenta, appartenevamo agli asini. Non riuscivamo a prendere buoni voti. Andava bene, quando strappavamo al maestro un sufficiente.

    Una mattina, a fine Marzo, il maestro diede a noi cinque un compito a casa per il giorno dopo. Un tema. Quando il maestro lesse il nostro compito, si stupì. Trovò due errori sullo svolgimento d’ogni tema. Non sembrava il nostro modo di scrivere e pensò che ci fossimo fatti aiutare, perciò volle interrogarci.

    Uno per volta fummo chiamati in fianco alla cattedra e ci pose delle domande sul tema che avevamo presentato. Rispondemmo senza esitare e lo sorprendemmo. Non era convinto, ma non capendo dove stava l’imbroglio, dovette darci ottimi voti.

    Al termine delle interrogazioni, disse: «Bravi.»

    Arrivò l’ora della ricreazione e mangiammo le nostre merende. Quando finimmo, avevamo voglia di festeggiare il nostro risultato. Ci prendemmo le mani formando un cerchio e iniziammo a girare, cantando. Di tanto in tanto ci fermavamo e urlavamo: «Tutti giù per terra.» E ci buttavamo per terra. Eravamo felici. Era stata una gran soddisfazione.

    Verso la fine della ricreazione, entrò il maestro in classe, ci sorprese a girare in tondo davanti alla cattedra e urlò: «Che cosa sta succedendo? Cos’è questa confusione?»

    Ci scrutò con aria severa. Ci chiamò per nome uno a uno. Ci fece mettere sull’attenti, in fianco alla cattedra e suonò il campanello, per chiamare il bidello. Ci punì. Fummo sospesi dalla scuola per quel giorno e il giorno successivo. Consegnò al bidello cinque note e gli ordinò di accompagnarci a casa. Le note dovevano essere firmate dai nostri genitori. Nella lettera, consigliava ai nostri genitori di infliggerci un castigo e d’insegnarci le buone maniere del vivere civile.

    Non capii perché il maestro si comportò così severamente. Noi eravamo contenti del nostro risultato e stavamo festeggiando, non ci vedevo niente di male. Ma la scuola era una cosa seria e le buffonate, come le definì il maestro, erano fuori luogo.

    Così passammo dalla gioia alla delusione in un attimo. Va beh! Le cose andavano così. Pazienza.

    Il giorno dopo, io e i miei quattro amici, per farci perdonare dai nostri genitori, andammo nei boschi che circondavano il nostro villaggio a raccogliere fiori di campo e frutti di bosco.

    Mia madre mi diede un bacio e mi perdonò e fecero così anche i genitori dei miei amici.

    7 - Lo sgambetto.

    La nostra classe aveva tre file di banchi da due alunni e c’erano cinque banchi per ogni fila. Io stavo nella fila esterna, quella a ridosso della finestra. Ero stato fortunato. Dal mio banco riuscivo a vedere le montagne e il cielo. Il maestro ci aveva messo a sedere nei banchi in base alla nostra altezza ed io ero in mezzo. Davanti a me c’era Pavlov, un bambino dalla testa grossa e con tanti capelli ricci.

    Buon per me, perché riuscivo a nascondermi dietro la sua testa e potevo copiare i compiti dal mio compagno di banco.

    Erano passati tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico ed era arrivato l’Inverno. Fuori c’era tanta neve e il maestro arrivò in ritardo.

    Eravamo bambini e, si sa, quando il gatto non c’è, i topi…

    Ci mettemmo a giocare tra i banchi. Io mettevo in bocca dei pezzetti di carta per inumidirli. Quando, secondo me, erano pronti, li mettevo tra le mani e con un movimento rotatorio li compattavo, facendo delle palline di carta. Fatto ciò, le imbevevo nell’inchiostro. Prendevo dalla mia cartella una cannuccia di legno e sparavo i proiettili ai miei compagni di classe. Loro, rispondevano con palle di carta, fette di mela o bacche.

    In fondo all’aula si era riunito un gruppetto di cinque scolari e stavano scherzando e ridendo. All’improvviso la porta si aprì ed entrò il maestro.

    «Cos’è questa confusione. Tornate subito ai vostri posti.» Urlò. Arrabbiato.

    Secondo me, lo era perché era arrivato in ritardo e non per la nostra baraonda.

    Pavlov faceva parte del gruppetto in fondo alla classe e corse al suo banco. Quando mi fu accanto, mi venne l’idea di mettere fuori del banco la mia gamba. Pavlov non la vide.

    Inciampò e cascò bruscamente, andando a sbattere col viso sullo spigolo della sua panca. Si alzò urlando e piangendo. Il sangue gli colava sul maglione bianco e lui, d’istinto, portò le mani sopra il naso. Il maestro, nel veder Pavlov sanguinante si spaventò e corse al suo fianco. Lo sostenne abbracciandolo. Gli mise il suo fazzoletto sotto il naso, cercando di fermare il sangue. Chiamò il bidello. Quando entrò in classe il Signor Lutoh, gli spiegò cos’era successo e gli chiese di accompagnare all’infermeria il giovane Pavlov. Il bidello uscì col bambino. Il maestro, a quel punto, mi guardò con aria severa. Andò alla cattedra, aprì il secondo cassetto e prese la verga che usava per le punizioni. Mi ordinò di avvicinarmi alla cattedra. Io avevo paura. Sapevo cosa mi stava aspettando e mi avvicinai lentamente. Guardai fuori della finestra e vidi che la neve aveva ripreso a cadere. I primi fiocchi si stavano appoggiando sul davanzale. Il cielo, era grigio e gonfio, sembrava in sintonia con me e il mio rimorso. Non era stata mia intenzione fare del male a Pavlov, ma era successo. Mi dispiaceva. Giunsi davanti al maestro e mi disse: ‹‹Le mani.››

    Allungai le braccia, porgendogliele. Quando arrivò la prima bacchettata, le ritrassi per il dolore. Le dita bruciavano.

    ‹‹Le mani.›› Comandò, di nuovo, il maestro.

    Di nuovo, allungai le braccia e gliele misi davanti. Le mani tremavano. Ricevetti il secondo colpo, mentre guardavo dritto in faccia il maestro. Non volevo dargli la soddisfazione di vedermi soffrire.

    Ero un bambino orgoglioso.

    ‹‹Basta così!›› Affermò il maestro, guardandomi negli occhi.

    Si sedette alla cattedra e scrisse una nota per i miei genitori. Al termine, suonò il campanello per chiamare il bidello. Appena entrò il Signor Lutoh, il maestro, gli chiese di accompagnarmi a casa.

    Mi sospese dalla scuola per tre giorni.

    8 - Il cavallo a dondolo.

    Una sera di Novembre stavo davanti alla finestra della mia cameretta e guardavo i primi fiocchi di neve che, svolazzando, coprivano lentamente il giardino davanti a casa. Era una magia e come diceva mia madre, mi sentivo in pace con me stesso e col mondo intero.

    In quel momento vidi arrivare una carrozza tirata da due cavalli neri, con due lanterne accese in fianco al cocchiere e si fermò nel vialetto, oltre la siepe.

    Rimasi a guardare, incantato: gli sbuffi che scendevano dalle narici dei cavalli; la neve che si appoggiava sul prato e nel frattempo ascoltavo il cigolio della carrozza. Scesero due uomini col pastrano. Uno di loro era mio padre. Le sue licenze erano rare e lo vedevo poco, guardò verso la casa e lo salutai sbracciandomi e sorridendogli. Scesi la scala di corsa e mi affacciai alla finestra della cucina, aspettando che entrassero. Mi emozionavo sempre, quando tornava a casa. Sapevo che mi portava un regalo. Infatti, lui con l’altro uomo, andò dietro la carrozza, slegarono una grossa cassa di legno e la portarono dentro casa.

    Io, immobile per la curiosità, aspettavo di vedere cosa conteneva. Quello che c’era dentro era per me. Non avevo dubbi.

    Appena entrati in casa, appoggiarono la cassa a terra e si tolsero i pastrani scuotendoli dalla neve. Era arrivato a casa ed ero felice e corsi ad abbracciarlo.

    Mia madre stava in cucina, in fianco alla stufa e ci osservava. Si avvicinò a noi, baciò mio padre sulla guancia e disse: «Bentornato Karl Slovak. Cos’hai portato in quella scatola?»

    «Un po’ di legna per il camino.» Disse lui e subito dopo, mi chiese: «Alois, daresti una mano al mio amico Anton ad aprire la cassa e ammucchiare la legna in fianco al camino?»

    «Va bene.» Dissi un po’ indispettito e, controvoglia, mi avvicinai alla cassa.

    Anton era un uomo molto alto con due baffi enormi. Caporal-maggiore e compagno d’armi di mio padre, entrambi facevano parte del II Reggimento Ulani dell’esercito Imperiale Asburgico.

    «Tira lì!» Mi ordinò, indicando un punto preciso della cassa con la mano

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