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Chika
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E-book196 pagine2 ore

Chika

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Info su questo ebook

Chika, cocciuta e determinata, affronta un'avventura più grande di lei
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2019
ISBN9788831607674
Chika

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    Anteprima del libro

    Chika - Paolo Angeloni

    COELHO

    1

    Aveva quindici anni Chika, ma era già una donna.

    Il villaggio di Kopa, il suo villaggio, non aveva più di venti capanne, tutte uguali neanche tanto distanti l’una dall’altra, tutte con lo stesso stile, disposte in una sorta di cerchio approssimativo e sollevate di circa venti centimetri dal terreno.

    L’argilla irregolarmente stesa intorno alle pareti esterne ed interne, teneva uniti i pali e la sterpaglia che, ordinatamente, cingevano le capanne rendendole meno precarie e fornendole un’aria quasi signorile. Ciascuna con il suo tetto piramidale coperto da debordante paglia e giunchi intrecciati. Una era più grande delle altre, non apparteneva a nessuno ma apparteneva a tutti, era destinata agli incontri collegiali ed alla convivialità quando le condizioni non permettevano la fruizione di spazi esterni. Un granaio con le stesse fattezze, un ricovero per gli animali ed un orto comunitario poco oltre il perimetro del villaggio conferivano all’insediamento una parvenza di autosufficienza seppur nella precarietà. Vicino all’orto un pozzo scavato per anni con attrezzi rudimentali, lontani antenati del piccone e del badile, fino a che, a venticinque metri di profondità, affondando l’arnese nella sabbia, per un solo istante si specchiò il cielo. Tutt’intorno, come ad abbracciare l’intera area, un recinto alto un metro e mezzo circa, con canne tenute unite da una liana fine, eretto come barriera antiintrusione dall’andatura ondulante a volte cadente da un lato, a volte dall’altro e solo in rari punti restava in piedi come doveva essere, e come sarebbe stato se il vento e gli incursori non avessero violato quello spazio.

    Tutto qua.

    Non c’era altro a Kopa.

    Anzi si, c’era un enorme baobab appena fuori il recinto.

    Il baobab.

    Il baobab era il punto di ritrovo dove si potevano ascoltare i racconti degli anziani, dove un griot tramandava storia, tradizioni e tant’altra cultura popolare, cantando e recitando filastrocche accompagnato dall’inseparabile djembe, un tamburo a calice trasportato a tracolla come fosse uno zaino, come fosse tutto ciò che di più prezioso possedeva.

    Il baobab.

    Il baobab era anche il luogo dove sotto la sua ombra voluminosa padre Jean, un missionario francese, una settimana ogni mese, con regolarità, insegnava a leggere e scrivere per chi lo avesse voluto. La sua frequenza padre Jean non la garantiva, soprattutto quando la stagione delle piogge rendeva impraticabili i sentieri di terra rossa che conducevano al villaggio.

    A Kopa gli abitanti crescono in fretta, non esiste il periodo dell’adolescenza: dalla fanciullezza si salta direttamente alla fase adulta.

    Alta, occhi nero petrolio, proprio come quello estratto dalle riserve offshore delle coste senegalesi, Chika era così, una statua di carne soda che smise di sorridere molto presto, che sorrise per troppo poco tempo.

    I racconti di nonna Dominiqua erano per lei una reliquia da trattenere tra le pieghe della sua ragione. Le raccontò di quando fu grande festa quel giorno del mese di settembre di quindici anni prima, ma anche un giorno di grande dolore in quella capanna dove si faceva fatica a trattenere la pioggia quando a cadere era copiosa e malvagia.

    La pioggia da quelle parti era sempre una rarità ed una benedizione nello stesso tempo, sia che scendesse dolcemente o più fragorosa: quella sera sembrava fosse un dono.

    L’elettricità era un lusso, un lusso che nella capanna di Dominiqua non era permesso.

    Una sera di settembre, buia e quasi fredda, fuori da ogni regola metereologica per quel territorio, un lume a petrolio illuminava appena il giaciglio su cui Yacine si contorceva, si lamentava e sudava e ancora si lamentava, si lamentava, sudava e si contorceva. Quella pioggia sembrava non smettere ed accompagnava la nascita violenta di Chika, tanto violenta che nacque già orfana. Yacine smise di contorcersi, ma rimasero delle gocce di sudore che non si sarebbero più riassorbite, che il calore ormai svanito del suo corpo non avrebbe più asciugato. Il suo ultimo sforzo, atroce e tremendamente amorevole, lo produsse nello stesso momento in cui Chika emise il suo primo vagito e fu in quell’istante che la pioggia si confuse con le lacrime di nonna Dominiqua, fin quando non smise di piovere ed allora restarono solo le lacrime ed un lume a petrolio acceso.

    Chika orfana di una mamma di sedici anni, frutto di una seduzione non accondiscendente.

    Dominiqua si occupò di lei, fin da quel momento. Era così giovane da non sfigurare affatto, come fosse la sua vera mamma, nessuno avrebbe mai detto o solo pensato che così non fosse.

    In quel villaggio, oltre le giovani mamme e una miriade di bambini come lei, c’erano solo anziani che poco contribuivano alla quotidianità se non a mantenere vivi i ricordi e le tradizioni di un tempo.

    Del padre non ha mai sentito parlare, né volle mai che nessuno le parlasse di lui. Forse era un predatore venuto da lontano, forse uno schiavista in cerca di giovani fanciulle per lo sfavillante mercato europeo, o più probabilmente un separatista del Mouvement des Forces Démocratiques de Casamance (MFDC).

    Prima dei suoi quindici anni Chika, come ogni bambina del suo villaggio, aiutava nei campi ed a governare il bestiame, ascoltava le storie raccontate da sua nonna poco prima di addormentarsi. Come ogni sera, per tutti i suoi quindici anni faceva la stessa richiesta a nonna Dominiqua: «Nonna, mi racconti ancora di mamma Yacine?»

    Era distesa sul letto ricavato da una sdraio ferrosa lasciata chissà da chi e chissà quando, ed aspettava che sua nonna iniziasse a raccontare. Una sdraio arrugginita e cigolante in ogni sua parte, tanto da non poter essere ripiegata su se stessa, fasciata e ricoperta da stuoie intrecciate proprio come quelle usate per il tetto della capanna. Alcuni brandelli di una coperta verde militare ne coprivano le spigolosità ed ammorbidivano i tratti.

    Chika fissava sempre lo stesso punto dell’architrave della porta di ingresso della capanna. Una porta con assi di legno orizzontali sistemate una sull’altra, neanche perfettamente unite tra loro, tanto da far passare spicchi di luce e aria appena mitigata da un telo di canapa multicolore che ne avrebbe dovuto frenare l’ingresso.

    Nonna Dominiqua in un pizzico di spazio che consentiva a malapena di distendersi al suo fianco ed abbracciarla come a formare un tutt’uno, iniziava a raccontarle di sua mamma. Era così ogni sera.

    Anche se quella storia l’aveva sentita in tante altre circostanze, ogni volta le sembrò di averne una immagine diversa, una foto da scattare ed archiviare in album immaginari.

    Chika non aveva mai visto Yacine

    Yacine non aveva mai visto Chika, né aveva mai sentito il suo pianto.

    Nessuna delle due aveva avuto il tempo di stringersi all’altra, avvertirne la consistenza o carpirne desideri.

    A volte Chika prendeva un pezzo di specchio custodito tra due stracci sfilacciati per l’intero perimetro, e vedendosi riflessa, cercava di immaginare come fosse stato il volto della mamma.

    «Nonna, somiglio alla mamma?»

    «Certo bambina mia. Tua mamma aveva i tuoi stessi occhi ed il tuo stesso sorriso» replicò Dominiqua non senza aver emesso un sospiro prolungato che sapeva di nostalgia.

    Ogni volta lo chiedeva ed ogni volta otteneva la stessa risposta come a voler essere proprio sicura di non aver ereditato le sembianze di un papà ignoto e forse malvagio.

    «Si, tua mamma aveva i tuoi stessi occhi. La tua curiosità è stata anche la sua, la tua bellezza era la sua. Tu sei esattamente lei.»

    Era proprio quello che voleva sentirsi dire la piccola Chika, in questo modo la sua mamma le sembrò di averla da sempre conosciuta, di capirne il pensiero, di coglierne gli umori e forse anche di percepirne la voce in qualche recondito ed oscuro angolo della sua mente.

    2

    Le treccine di Chika non facevano trapelare alcuna incertezza lungo il loro percorso. Dominiqua le aveva disegnate come fossero strade parallele che a volte confluivano in alto verso uno chignon garantendole un’età forse più matura, altre volte preferiva che le cadessero lungo le spalle come ad assicurarsi più briosità, più libertà, più giovinezza. L’intreccio seguiva sempre le stesse vorticose movenze, un rito tramandato inconsapevolmente e senza nessuna traccia scritta di generazione in generazione.

    «Chika, ricorda di dare da mangiare alle capre e raccogli il latte. Quando tornerò da Velingara sarò troppo stanca per farlo io.»

    «Certo nonna. Stai tranquilla. Andrò a raccogliere anche un po’ di frutta: ho visto che è matura al punto giusto.»

    Stesse raccomandazioni da quando Chika aveva raggiunto l’età dell’autosufficienza, poteva badare a se stessa ed essere la tata dei più piccoli del villaggio fino al ritorno delle loro mamme dal mercato di Velingara.

    Il sole non faceva ancora capolino tra le radure, e le donne adulte erano già sui carretti; quello di Dominiqua era trainato da un asino di dodici anni. Le ceste erano pronte dalla sera prima, dovevano essere solo caricate.

    Quel viaggio verso Velingara lo facevano solo il venerdì.

    La distanza da coprire non poteva essere percorsa ogni giorno anche se l’asino sembrava in buona salute.

    Una carovana di quattro carretti, a volte cinque.

    In tre su ciascuno di essi con Dominiqua alla guida del suo.

    Il tempo per raggiungere Velingara trascorreva tra nenie e cantilene. Nessun cartello che potesse indicare la strada e la distanza da percorrere, solo la consuetudine di un tragitto fatto con disinvoltura fin da quando ne aveva ricordo. Ciascuna donna con la sua voce più o meno intonata, ciascuna donna in un continuo chiamata e risposta che meglio sembrava raccontare episodi, a volte irriverenti, di vita quotidiana.

    A Velingara si poteva vendere bene la propria merce, od almeno la speranza ogni volta era quella.

    Il via vai di gente o di qualche sparuto turista capitato per sbaglio in quei paraggi alla ricerca di occasioni, avrebbe consentito di accantonare qualche soldo.

    Disegnare una vita diversa dalla sua e da quella delle altre donne del villaggio, per questo Dominiqua continuava a scorrazzare lungo quegli stradoni polverosi, non perché ne avesse bisogno per sé. Di suo aveva il necessario per andare avanti senza ansia e con decoro, senza il desiderio di accumulare ricchezze e fortune che sapeva benissimo non sarebbe riuscita a raggiungere per l’intera sua esistenza. Chika era da quel settembre di quindici anni prima al centro delle sue attenzioni: desiderava per lei tutto ciò che non era riuscita a dare a Yacine.

    Così quella strada, per la gran parte in terra rossa, la percorreva una volta alla settimana o quando in paese le solite giostre tra lottatori improvvisati e feste rumorose consentivano di accumulare qualche moneta in più. Certo non era sufficiente a garantire una vita per lo meno dignitosa a Chika, ma almeno avrebbe un giorno potuto cercarsi il suo futuro dove un futuro avrebbe potuto trovarlo, o avrebbe avuto più possibilità di trovarlo, anche se questo avrebbe significato allontanarsi da lei. Del resto gli uomini anziani del villaggio avevano tutti percorso la strada dell’Europa e di tanto in tanto rimettevano dei denari per le loro famiglie rimaste a mangiare il quotidiano riso al villaggio.

    Dominiqua non aspettava niente e nessuno.

    Il suo uomo partì qualche mese prima che Yacine partorisse.

    Si salutarono mentre lui le prometteva che di tanto in tanto avrebbe fatto avere il necessario per far crescere dignitosamente tutte loro.

    Da allora non ne seppe più nulla, come fosse stato una meteora passata a sorvolare la loro capanna, il loro spazio, come avesse pensato di rubare la loro aria, il loro respiro, come avesse deciso che avrebbero dovuto giocare una partita lunga una vita da eterne riserve.

    Non seppe più nulla del suo uomo.

    Nessuna notizia da lui.

    Nessuna rimessa di denaro che le potesse far immaginare un interesse da parte sua.

    Avrebbe voluto fargli sapere che era diventato nonno di una splendida nipotina, che la nipotina si chiamava Chika e che Yacine non c’era più fin da quando la partorì.

    Avrebbe voluto fargli sapere che lui è stato il suo ultimo uomo e che non ne avrebbe avuti altri, che gli era stata fedele e che lo sarebbe stata ancora, a meno che la sua volontà non fosse stata calpestata.

    Avrebbe voluto fargli sapere che lo attendeva al villaggio, qualsiasi fosse stato il suo aspetto, anche se fosse ritornato puzzolente e con i soli stracci con cui partì.

    Ma non sapeva a chi presentare le sue richieste, e semmai avesse trovato qualcuno a cui affidare il messaggio per il suo uomo, non era facile capire in quale parte del mondo poteva essere finito: non aveva gran voglia di scoprire se la sua partita la stesse giocando da titolare con qualcun’altra.

    Quel giorno le vendite andarono bene, oltre ogni aspettativa.

    Le ceste si svuotarono presto, se ne avesse avute altre, avrebbe svuotato anche quelle.

    Aveva incassato seimilacinquecento franchi CFA, non era mai successo prima di allora.

    Il suo pensiero, in quel momento, era di mettere al sicuro quanto guadagnato per evitare che potesse far gola a potenziali malintenzionati che da quelle parti in quelle occasioni non mancavano di sicuro.

    Allargò un fazzoletto ed al centro vi dispose l’incasso giornaliero, riunì i quattro angoli in un unico punto per formare un nodo ben stretto. Si concesse qualche momento di relax come una turista qualsiasi, girando tra le cianfrusaglie esposte con l’intenzione di ingannare il tempo in attesa che le altre donne della carovana fossero pronte per fare ritorno

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