Sono con te a Rockland
Di Wendy
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Ma, passato poco più di un anno da quella vacanza, le cose sono molto diverse, Alice è ora incosciente in un letto di ospedale, sente attorno a lei delle voci, ma non ricorda nulla di quello che le è successo. Ricostruisce, poco a poco, quello che è successo nei mesi precedenti: l’esame di maturità, il trasferimento a Londra, la malattia di Jolene, i problemi economici. E, alla fine, riuscirà a trovare la luce in fondo al tunnel, una luce che credeva persa e che, invece, la riporterà alla vita.
Wendy è un posto sicuro, non è importante sapere chi sono, perché ci conosciamo già, anche se non ci siamo mai incontrati. So che avete paura, so che vi convinceranno che siete sbagliati, che vi guarderanno con sospetto, so che crederete che non esista un posto per voi. So che alcuni giorni non riuscirete a combattere, e vi nasconderete nelle ombre della città per non farvi vedere, giorni in cui alzerete il cappuccio sulla testa. Lo so perché sono come voi, nascosta sui sedili dell’autobus, certe mattine senza la forza di alzarmi dal letto. Ma esistono dei posti e delle persone anche per noi, ho bisogno che lo sappiate per non mollare la presa. Sono qui per farvi una promessa, se quei posti non esistono dove vi trovate ora li creeremo insieme, voi siete la ragione per cui non posso mollare, quindi prima di alzare il cappuccio guardatevi intorno, noi siamo già una famiglia.
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Anteprima del libro
Sono con te a Rockland - Wendy
Albatros
Nuove Voci
Ebook
© 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma
www.gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-2792-5
I edizione elettronica settembre 2020
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Dedicato alla mia famiglia e a Miriam Greco.
Grazie ad Adele Bilotta per aver disegnato
sia il fronte sia il retro di questa copertina
meravigliosa.
Ma soprattutto, questo libro è per te,
per te che sei là fuori e ti senti morire,
per te che ti senti sbagliato, solo, come se
non ci fosse un posto per te nel mondo.
Tu sei me, io sono te.
E ti prometto che andrà meglio.
Ti prometto che sarei felice.
Ti prometto che continueremo a combattere
finché in questo mondo non ci sarà posto per
tutti. Non mollare.
"Morirò qui... tutto di me finirà...
tutto... tranne quell’ultimo
centimetro... un centimetro... è
piccolo, ed è fragile, ma è l’unica cosa
al mondo che valga la pena di avere.
Non dobbiamo mai perderlo, o
svenderlo, non dobbiamo permettere
che ce lo rubino... Spero che chiunque tu
sia, almeno tu, possa fuggire da questo
posto; spero che il mondo cambi e le
cose vadano meglio ma quello che spero
più di ogni altra cosa è che tu capisca
cosa intendo quando dico che anche se
non ti conosco, anche se non ti conoscerò
mai, anche se non riderò, e non piangerò
con te, e non ti bacerò, mai... io ti amo, dal
più profondo del cuore... Io ti amo".
V per Vendetta
"...Sono con te a Rockland
dove ci svegliamo elettrificati dal coma per
gli aeroplani delle nostre anime che
rombano sul tetto... sono venuti a sganciare
bombe angeliche... l’ospedale si illumina
mura immaginarie franano O smunte
legioni correte fuori O scossa di grazia a
stelle e strisce la guerra eterna è giunta..."
Urlo Allen Ginsberg
PROLOGO
Cosa saresti capace di sentire quando ogni suono si annulla?
Cosa saresti capace di raccogliere quando il dolore distrugge ogni singolo osso, e spezza anche te?
Cosa salveresti?
I pensieri, le mani, le chiavi nella tasca bucata?
La mia vista è fuggita, vedo solo ombre oltre le dita, che sento graffiare il terreno e rompere la mia maschera di vetro.
Io non sento più niente, un grido prova a strappare il velo ma sono già avvolta nella mia mente.
Nessuno riuscirà a capire questa mia caduta, sento a malapena il terreno colpire il mio corpo.
Non sanno cosa è successo in questo anno, non sanno quanti pezzi dell’anima ho venduto per evitare questo momento.
Il tuo amore sta lasciando le mie vene che sento spezzarsi all’unisono, come un ultimo canto prima di uccidermi.
Non avrei mai immaginato un simile contraccolpo e, in fondo, cosa sarebbe cambiato? Non avrei mai potuto prepararmi a questo proiettile.
La mia mente si sta spegnendo con un ultimo ronzio, riesco quasi a toccarla con le dita... Quella pace incosciente che mi avvolge le membra gelide.
Non posso andare avanti, non riesco neanche a riaprire gli occhi.
Ti cerco ancora nella stanza aspettando di sentire la tua voce che entra dalla porta come la ninnananna che da piccola spargeva sollievo nel mio petto, ho sempre avuto così paura di tutto, il terrore era un grumo amaro da ingoiare costantemente, a volte me ne dimenticavo, ma solo con te ho pensato che fosse andato via per sempre.
Mi è sempre mancato qualcosa, non sono mai stata intera, era come se mi mancasse un braccio o una gamba, mi svegliavo ogni mattina e controllavo le mie articolazioni delusa di trovarle sempre al loro posto, se non ci fossero state avrei avuto un senso...
E poi, un giorno, sei arrivata tu, volevo gettarmi tra le tue braccia e rinascere, piangere per cento anni e ridere per altri cento, tu mi facevi credere che qualsiasi cosa sarebbe stata possibile.
Tu mi hai fatto nascere e morire e adesso? Cosa succederà al mio corpo senza il sangue? Si disintegrerà come pietra?
Senza ossigeno posso ricominciare a camminare? Senza le gambe posso provare a scappare?
La mia mente è un disco rotto, bloccato in eterno sulla tua immagine, freno questa insensata corsa e mi aggrappo a questi ultimi colori rimasti.
Hai lasciato qua i dischetti del trucco che usavi e dimenticavi sempre di gettare, li hai scordati sul comodino e io non riesco a buttarli, tocco quel rosso chiaro sbiadito sul cotone e mi sembra di toccare le tue labbra, sfioro quel nero sfumato e penso alle tue ciglia che tremavano sotto i miei baci lievi, avevo sempre paura che, se ti avessi stretto troppo, saresti scomparsa, ero terrorizzata di romperti con i miei pezzi spigolosi e, invece, avrei dovuto abbracciarti più forte, spaccare le nostre ossa che si sarebbero ricomposte insieme...
Spezzami adesso ti supplico, ti faccio spazio nel mio corpo, ma torna qui con me...
UN ANNO PRIMA
Che non ci sarà gloria o amore in questi vent’anni, che dovremmo mangiare il mondo e siamo tutti così stanchi. Vienimi a prendere ora e riportami a quando avevamo dieci anni, cosa era vivere, cosa morire, tu mi guardavi negli occhi e non volevamo guarire
.
Abbasso il finestrino della macchina e lascio che il caldo afoso di luglio mi sfiori i capelli; i miei genitori non si sforzano nemmeno a parlare, saranno stanchi di discutere per l’ennesima volta sulla loro decisione.
Mia madre si volta verso di me e sbuffa, la infastidisce vedere la mia espressione scontenta, come se potessi fingere di stare bene solo per renderla felice.
«Non fare quella faccia, signorina, ti divertirai». Ed eccolo, di nuovo, il mantra che mio padre ripete da giorni, la cosa che più mi dà sui nervi è che ne sembra sul serio convinto.
«Io volevo restare con i miei amici». Commento stanca, abbiamo avuto questa conversazione per settimane, da quando mia madre ha deciso di spedirmi per un mese intero in un college di Londra chiamato Grossman.
I miei amici non capiscono la mia rabbia, continuano a ripetermi che sarà un’avventura.
Vorrei credergli ma so già che non succederà, sono troppo timida e spaventata all’idea di conoscere persone nuove.
È quasi una fobia, passo le giornate con gli stessi amici di sempre e, quando si tratta di presentarsi o di cercare di fare colpo su uno sconosciuto, la mia lingua si secca all’interno della bocca e riesco solo a balbettare parole sconnesse come una matta.
Avrei voluto che i miei genitori non se ne fossero mai accorti, che continuassero a disinteressarsi della mia vita come avevano sempre fatto, almeno adesso non mi ritroverei diretta all’aeroporto Fiumicino di Roma.
«Andiamo, Alice, hai diciassette anni e stai per passare il tuo primo mese fuori casa, dovresti essere emozionata!». Esclama mio padre guardandomi dallo specchietto retrovisore con occhi gelidi.
«Sto per esplodere dalla gioia». Ribatto sarcastica.
I miei genitori odiano le mie battute, come ho la sensazione che odino anche me certi giorni, sono la polvere sul quadro di famiglia immacolato e, a volte, noto nel modo in cui mi guarda mia madre come vorrebbe spazzarmi via.
La verità è che sono molto diversa da loro, illustri e rispettati medici, che camminano sempre con un portamento elegante e la testa alta, come a voler sfidare il mondo o divorarlo tra i denti ben curati.
Io sono goffa e preferisco osservare i dettagli delle mie scarpe mentre cammino, mi imbarazza guardare qualcuno negli occhi e, se il panico mi congela, mi mangio le unghie fino alle ossa per calmarmi, insomma, non proprio il ritratto dell’eleganza.
Sono fatta di parole, di quelle che ascolto costantemente nelle mie grandi cuffie nere, che sono vecchie e rovinate ma non cambierei con nessun modello nuovo, perché ormai sono cresciute con me.
Sono fatta di libri vecchi che mi portano via appena li leggo, tutti divorati dal tempo e segnati da mille sottolineature, ma che hanno nutrito il mio cuore in tutti questi anni.
Sono fatta di Dante e di un po’ del suo inferno, di Petrarca con la sua perfezione, di Tasso con la sua Gerusalemme.
Porto sulla mia pelle milioni di vite e sento l’inchiostro che, sostituito al sangue, mi pompa il cuore e il cervello e la penna che fa rinascere la mia mano, come se il mio corpo fosse morto finché non comincia a leggere, finché l’inchiostro non comincia a scorrere.
Mi sento spesso fatta di vuoto, come se il niente mi potesse divorare certe notti, non so neanche cosa sia, non riesco a descriverlo, ma a volte, la sera, mi mozza il respiro.
E all’improvviso vedo tutto, il grasso sui miei fianchi e sulle mie gambe che stonano nel riflesso, la mia bassa statura, i miei occhi troppo grandi e troppo scuri, come i miei capelli che arrivano fino alle spalle e la mia frangia storta.
Vedo gli occhi delusi dei miei genitori, la linea dritta delle loro labbra, la disapprovazione nel loro sguardo, se solo fosse un po’ più realista, se non fosse sempre con la testa tra le nuvole...
Mia dice che sono fatta d’aria e che tutte queste parole che vedo anche adesso fuori dal finestrino sono il mio peso, l’unico modo per non volare via, un’ancora che mi tiene attaccata alla realtà.
Roma è gioia e condanna, mi strangola e poi mi abbraccia, abito al Pigneto da tutta la vita, probabilmente studierò alla Sapienza dopo la maturità, sono soffocata da queste strade e da questo sole, sono innamorata di queste vie e di questo cielo.
A volte ho la sensazione che niente vada per il verso giusto, mi sembra di mentire, di fingere sempre, vorrei incontrare la mia anima che sicuramente sta boccheggiando e chiederle che senso ha tutto questo, che motivo ha questa maschera che siamo tutti costretti a indossare.
Vorrei capire ma non capisco niente, mi sembra di essere confusa tutto il tempo, come se provassi a nuotare dove non c’è acqua.
«Scendi, siamo arrivati!».
PRESENTE
Tu hai una giostra nella testa, una vita nell’acqua alta sempre più fredda, non annegare mentre ti gira la testa, vomita oltre il sipario nascosta dalla loro festa
.
Il mio corpo sta tremando e non riesco a muovermi, l’oblio del sonno era l’unico modo per liberarmi di me stessa, ma adesso non sembra bastare.
Come può tutto ciò essere reale?
Vi prego portatemi via, allontanatemi da me.
Qual è il limite del dolore che posso sopportare?
È stato un secondo...
Quando arriverà la follia, o l’incoscienza, e cancellerà tutto?
Sento una mano sul mio stomaco premere sull’ombelico, vuole riportarmi indietro.
RICORDATI!
Qualcuno sta urlando ma non capisco chi sia... ci sono troppe voci... troppo rumore...
Provo ad aprire gli occhi ma non riesco... non sento il mio corpo...
Sento mani che mi afferrano, un gelo diverso da quello che mi porto dentro avvolgermi il corpo, sento a malapena gli aghi che entrano nella mia pelle, il borbottio che continua ad aumentare intorno a me.
Non posso aprire gli occhi, non posso renderlo reale.
Finché rimango qui ti posso sognare, siamo ancora in quel college e non esiste questo dolore che con le sue mani mi sta stringendo i polmoni, dove è finito il mio respiro?
Ancora quell’accento così simile al tuo, sta gridando quella parola e cerca di sfondare questo muro di ghiaccio.
Cosa dovrei ricordare? Cosa c’è di più importante dell’immagine del tuo volto?
Non posso dimenticare, non ti posso lasciare andare.
Ora la discesa è libera e l’inchiostro cola al di fuori della mia pelle, lo sento abbandonare il corpo e lasciare il posto al vuoto paralizzante che mi schiaccia.
Ma come si arresta una caduta?
UN ANNO PRIMA
Forse sto impazzendo, voglio urlare ma non posso farmi scoprire. Sono tutti normali e io il cappellaio matto dentro la tazza che cerca di uscire
.
L’aeroporto Fiumicino di Roma brulica di persone, le vedo camminare intorno a me perse nel loro mondo, come formiche che si muovono velocemente alla ricerca di cibo.
È uno di quei momenti in cui non riesco a sentire niente, ogni movimento intorno a me sembra rallentare.
Vicino all’imbarco, è in fila una