Gli Ultimi Dieci Secondi
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Info su questo ebook
La prima parte del romanzo si svolge attraverso l’incastro narrativo di queste tre dimensioni temporali che sfociano nel momento più emozionante e commovente della storia. Nella seconda parte gli avvenimenti descritti assumono un significato più universale.
Mentre un messaggio d’amore si deposita nella memoria cellulare divenendo già futuro, lo sport si trasforma in una metafora della Vita nella quale l’elaborazione del dolore personale è preludio alla Ri-nascita, in cui l’ordine costituito esiste in funzione di chi saprà metterlo in discussione, dove il rispetto per ogni scelta di vita è assolutamente prezioso.
Recensioni
“Il romanzo sembra rivolto agli amanti del basket. Leggendo le pagine comprendi che la pallacanestro non è il fine, ma il mezzo. Da sempre lo sport è metafora della vita ed è in questa forma che si svela, in un divenire di dolori e di piaceri propri del vissuto umano. Una partita in ognuno di noi, alla continua ricerca di un significato, al di là dei preconcetti personali e sociali. L'autore instaura una relazione intima col suo lettore per permettergli di trovare risposte, per quanto mai definitive; c'è sempre la variabile “Vita” a modificare lo schema preparato.”
Loris Comisso, docente in comunicazione e leadership
“Lo sport, si sa, usa il linguaggio della vita. Vantaggio, pareggio, errore, vittoria, sconfitta. Ogni istante di un match, se visto con la lente d’ingrandimento, è fondamentale: un momento unico e irripetibile, esattamente come nella Vita. Da qui il romanzo diviene viaggio interiore, dimostrando come un passato doloroso può diventare occasione di crescita, di nuova vita, di riappropriazione dell’innato potere di scelta insito in ognuno di noi. Un libro che ho apprezzato molto perché ci insegna come non ci siano scelte facili, ma esiste il coraggio di affrontarle e soprattutto rispettarle.”
D.ssa Angela Coppola, professionista della relazione di aiuto
L’autore
Antonio Tresca, docente dell’Ente di formazione per operatori olistici in kinesiologia emozionale, è un professionista della relazione di aiuto. In adolescenza gioca a basket per poi intraprendere la carriera di coach nel settore femminile. Nell’ambiente scopre le tecniche di visualizzazione mentale e le strategie motivazionali utilizzate per migliorare le performance degli sportivi. Ne comprende l’importanza per la crescita personale di ogni essere umano.
La passione per queste discipline si trasforma in professione quando, grazie a una ex giocatrice, conosce la Kinesiologia emozionale. Svolge la professione a Vicenza.
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Anteprima del libro
Gli Ultimi Dieci Secondi - Antonio Tresca
Antonio Tresca
GLI ULTIMI DIECI SECONDI
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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INDICE
PRIMA PARTE
MONTECARLO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
MILANO
MONTECARLO
MILANO
SECONDA PARTE
BURBANK (LOS ANGELES - CALIFORNIA)
CIMITERO DI TEL AVIV
MILANO
RINGRAZIAMENTI
Pubblicato con
Il Servizio Numero 1 in Italia
di Assistenza alla Pubblicazione
per gli Autori Indipendenti
Self Publishing Vincente
www.SelfPublishingVincente.it
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Antonio-Tresca-Kinesiologia-Emozionale-Professionista-olistico812016255512741
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Sito Web:
www.kinesiologiaemozionale.com
Antonio Tresca
GLI ULTIMI DIECI SECONDI
"La parola impossibile è stata inventata da
chi aveva troppa paura per provarci"
Derrick Rose, professionista NBA
GLI ULTIMI DIECI SECONDI
Copyright © 2020 Antonio Tresca
Tutti i diritti riservati.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta
senza il preventivo assenso dell’Autore.
Prima edizione gennaio 2021
Citazione Derrick Rose, professionista NBA
Citazione Michael Jordan, ex professionista NBA
Sono nominate società di Basket esistenti, o esistite
e giocatori di basket di fama mondiale
A mio padre e a mia madre
che mi hanno donato la vita.
Ogni minuto della loro vita investito in me,
è diventato parte di me
PRIMA PARTE
MONTECARLO
Ore 22.25.
Montecarlo. Palazzetto dello sport. Finale maschile della Coppa dei Campioni di basket. Squadre contendenti: la mitica Olimpia Basket Milano e una delle rivali più ostiche di sempre, il Maccabi Tel Aviv. Sugli spalti, il tutto esaurito. Più di quindicimila tifosi presenti equamente suddivisi, con leggera prevalenza dei meneghini, facilitati dalla vicinanza territoriale. Per motivi di sicurezza e per evitare incidenti, le tifoserie sono state smistate sulle tribune in modo tale da non poter entrare in contatto fra loro. La zona dei supporter milanesi si distingue a colpo d’occhio, grazie ai colori biancorossi della moltitudine di sciarpe, magliette e bandiere festanti. Le telecamere provenienti da tutta Europa, e anche da altri continenti, si divertono - ogni volta che se ne presenta l’occasione - a inquadrare in primi piani pittoreschi l’ardire di chi si è dipinto i capelli o il volto con gli stessi colori. La restante parte del palazzetto - intitolato a James Naismith, colui che inventò il basket nel lontano 1891 - appare negli schermi televisivi sintonizzati sulla partita in modo altrettanto vistoso: la cromia gialloblu inneggiante la squadra israeliana è un’onda in movimento, inarrestabile e vitale. In realtà, l’appuntamento sportivo è così importante che altre migliaia di tifosi, dell’una e dell’altra parte, a causa di un Palasport dalla capienza ridotta e probabilmente non idoneo a ospitare un evento così importante, sono rimasti senza biglietto. Chiunque sia arrivato a Montecarlo nella speranza di riuscire comunque a intrufolarsi all’interno del campo di gioco, o di trovare un biglietto dagli immancabili bagarini, è rimasto profondamente deluso e ora si trova in qualche bar della città, boccale di birra media in mano, a soffrire da lontano per la squadra del cuore con la discutibile certezza di riuscire a influire sul risultato finale semplicemente con le proprie urla davanti alla TV.
L’attesa dei tifosi è spasmodica poiché entrambe le squadre non raggiungono da tempo un traguardo così ambito, nonostante gli investimenti economici che si sono susseguiti negli anni. Se la posta in palio è alta, la tensione fra le opposte fazioni sembra essere ancora più elevata, sin dalla vigilia; le forze dell’ordine locali sono dovute intervenire più volte per sedare piccole scaramucce in giro per la città che animi inquieti e surriscaldati, con qualche grado alcolico di troppo in corpo, avrebbero preferito trasformare in vere e proprie risse.
La partita sta arrivando alla sua conclusione e il cronometro elettronico segna solo dieci secondi al termine. Il punteggio è in perfetta parità: 69 - 69; i tempi supplementari, per decidere chi uscirà vincente dal confronto, sono ormai dietro l’angolo. Le squadre hanno entrambe esaurito il bonus dei falli a disposizione, pertanto sono perfettamente consapevoli che ogni penalità fallosa commessa porterà l’avversario ai tiri liberi. Il punteggio, decisamente basso per due squadre che durante la competizione si sono contraddistinte per le loro peculiari caratteristiche offensive, denota il nervosismo dei contendenti che hanno dato vita a un match aspro, farcito di errori, tipico di chi gioca con la paura di vedere svanire il sogno della vita, così a lungo inseguito e ormai a portata di mano.
Mentre il gioco è fermo per una rimessa laterale in attacco per la squadra di Milano nella metà campo israeliana, il coach ambrosiano chiede un minuto di sospensione per dare le ultime istruzioni e illuminare i propri giocatori sulla gestione della palla in questi ultimi istanti che li separano dalla possibile gloria. Daniele Morini, anni quarantacinque, allenatore dell’Olimpia, è consapevole che in pochissimi secondi dovrà fornire concetti essenziali, diretti, che possano essere compresi e assimilati in una situazione di massimo stress dai suoi giocatori. Sa inoltre benissimo che non deve inventarsi nulla di nuovo, solo pretendere l’esecuzione perfetta di uno dei tanti meccanismi tattici ripetuti in allenamento sino alla nausea, con precisione metronomica. Ma le difficoltà, non di poco conto, consistono sia nel saper scegliere lo schema giusto - quello vincente, determinante, per il quale poter essere ricordato per sempre negli annali - sia nel trasmettere ai suoi guerrieri in campo la determinazione che lo pervade. E, per sua fortuna, non ha molti dubbi in questa sua capacità. Anche se la finale odierna rappresenta il punto più alto della sua carriera, conosce molto bene, per averla provata più volte - in circostanze quasi tutte vittoriose - la sensazione dell’adrenalina che entra in circolo. E sa che non potrebbe rinunciarvi, mai. Vive per questi momenti, e i suoi giocatori lo sanno. Si fidano di lui, e lo seguono incondizionatamente. E lui sa come trasferire a loro la sua carica agonistica. Alla guida dell’Olimpia ormai da cinque anni, li ha portati ad alzare coppe e trofei nazionali, in attesa che potesse arrivare quello più prestigioso, il titolo continentale. Quando a suo tempo la società lo ingaggiò, i dirigenti gli chiesero espressamente di condurli dove la storia del club meritava: sul trono d’Europa. E nonostante nei primi anni Morini avesse trionfato solo in Italia, la fiducia nei suoi confronti era rimasta intatta; insieme avevano continuato a programmare la vittoria come se fosse inevitabile. Era il momento di ripagare quella fiducia. Ora si trattava di trovare le parole giuste, ancora una volta.
Quando la coppia di arbitri designati, il tedesco Schimdt, accompagnato dal transalpino Courier, fischia il time-out richiesto da Daniele Morini, ripetendo il classico gesto del dito sotto il palmo della mano, i giocatori di Milano si dirigono verso il proprio allenatore per avere istruzioni su come gestire quell’ultimo pallone che potrebbe regalare la vittoria. Giunti in panchina, l’evidente stato di tensione nei loro visi viene ripreso dalle telecamere di tutto il mondo, invadenti, asfissianti e desiderose di cogliere un qualunque possibile scoop in diretta. Solerti massaggiatori si ostinano a strofinare gli asciugamani sui colli e sulle schiene bagnate; le gocce di sudore che scivolano dalla fronte e che vengono asciugate solo in parte dai polsini, entrano prepotentemente negli schermi di chi, da casa, sta vivendo l’evento con lo stesso pathos. A volte, le diverse regie si divertono nel riproporre al rallentatore questi attimi, come se nella realtà oggettiva quelle gocce potessero effettivamente scendere verso il terreno con quella esasperante lentezza. Nel frattempo, i microfoni si insinuano come serpenti all’interno del cerchio magico creato da giocatori e staff, per carpire le parole urlate, le istruzioni, gli incitamenti sussurrati, il rumore dei corpi che si appoggiano e si sostengono gli uni agli altri.
Sull’altro lato del campo, si ripete la medesima scena. Anche il gruppo Maccabi è riunito intorno allo staff tecnico; e lo stress, dovuto alla trance agonistica in cui sono tutti immersi, non è certamente inferiore a quello degli atleti milanesi. Dal punto di vista tattico, la strategia che deve comunicare il coach americano Frank Street - ingaggiato anch’esso dalla società israeliana per risollevare le illustri e magnifiche sorti del team - è di stampo opposto. Catapultato per la prima volta in Europa (dato che la terra di Israele, perlomeno dal punto di vista sportivo, è sempre stata considerata tale), in un basket completamente diverso da quello dei college americani dove era ritenuto un santone
, Street ha saputo dare un’impronta personalissima al gioco della squadra che, nel giro di poco tempo, dopo qualche comprensibile difficoltà iniziale, ha dato i suoi frutti. La leadership, con la quale si è imposto su un gruppo navigato di professionisti, è evidente a tutti. Infatti i suoi giocatori, in perfetto silenzio, sono pronti ad ascoltare i consigli difensivi. Se Daniele Morini deve scegliere uno schema d’attacco, Street ora deve intuire come e dove concentrare le energie difensive della sua squadra, sapendo che Milano ha tante frecce a disposizione nel suo bagaglio offensivo. Street prende in mano un pennarello nero e la lavagnetta - che in miniatura riproduce le zone del campo di basket - per disegnare le possibili ipotesi su cui concentrarsi. Una telecamera, riuscita a farsi spazio più del consentito per carpire la fugace e palpitante bellezza di attimi indimenticabili e rendere pubblico a milioni di persone un momento di assoluta intimità, viene allontanata bruscamente con una manata e qualche improperio pesante, proveniente non si sa da chi.
MILANO
A Milano, in una elegante casa del centro città, le immagini della partita appaiono su uno schermo televisivo davanti al quale una donna osserva le fasi convulse e coinvolgenti che provengono dal palasport di Montecarlo. Durante il minuto di sospensione, Simona Legati, solo dopo aver rintracciato un viso conosciuto fra tutti i giocatori dell’Olimpia, si alza dalla poltrona davanti all’apparecchio e si dirige stancamente verso il letto matrimoniale della sua camera. Il letto è ordinato e trasmette un senso di delicatezza, come