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Ossessione - La Juventus e la finale di Champions League: Una storia poco bianco e molto nera
Ossessione - La Juventus e la finale di Champions League: Una storia poco bianco e molto nera
Ossessione - La Juventus e la finale di Champions League: Una storia poco bianco e molto nera
E-book250 pagine2 ore

Ossessione - La Juventus e la finale di Champions League: Una storia poco bianco e molto nera

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Info su questo ebook

Sabato 3 giugno 2017, ore 21.49.
Le telecamere televisive da Cardiff stringono su un primo piano di un giovane tifoso juventino presente allo stadio, gli occhi azzurri sgranati, lo sguardo fiero ma impietrito in un’ espressione di deluso stupore. È una sconfitta difficile da metabolizzare quella cui sta assistendo dalle tribune del “Millennium Stadium”, soprattutto per come si sta manifestando: una finale di Champions League persa con un risultato di 1-4 difficilmente ipotizzabile alla vigilia, così stridente e fuori dalle logiche delle premesse dell’evento.
L’amarezza e l’incredulità per quell’epilogo faranno da sfondo pure ai dibattiti tra tifosi e addetti ai lavori per comprenderne le ragioni. Un profluvio di analisi tecnico-tattiche investirà da lì a breve i media  per spiegare ciò che era successo. Tutti commenti ineccepibili, che però si risolveranno - nella maggioranza dei casi-  nella descrizione delle modalità della sconfitta, senza riuscire a fornire una risposta all’interrogativo di fondo, ossia quale fosse la causa prima. Perchè in effetti non era accaduto niente di nuovo, la Juventus  aveva perso una finale di Champions League.
A pensarci bene, quella partita non aveva esibito niente di diverso rispetto al passato.
Bastava soltanto cogliere i segnali che evidenziavano questa continuità.
Ma per fare ciò occorreva collocarsi in una prospettiva completamente diversa: “In un mondo in cui niente è quel che sembra devi guardare oltre”. Era questa la chiave per capire ciò che era accaduto non solo a Cardiff ma in tutte le finali perse dai bianconeri in Champions  League.
Non bisognava perdere altro tempo: era necessario tornare indietro negli anni e scrivere la storia da dove era cominciata, senza timori nè reticenze.
Questo libro è il risultato di questa intuizione.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ott 2018
ISBN9788899333720
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    Ossessione - La Juventus e la finale di Champions League - Carmelo Cannizzaro

    EPILOGO

    Ossessione - La Juventus e la Finale di Champions League -

    collana Bianco H

    Ossessione è un romanzo di Carmelo Cannizzaro

    Ottobre 2018 © www.herkulesbooks.com

    1 edizione

    Tutti i diritti sono riservati.

    È vietata ogni tipo di riproduzione dell’opera, anche parziale.

    Ad Elisabetta e Virginia, le due stelle del mio cielo

    Prologo

    Questa è un’indagine triste.

    Triste perché non narra imprese vincenti, non celebra prodezze, ne evoca gesta meritevoli. Analizza invece delle sconfitte, ricorrenti e sempre dolorose per come sono maturate.

    L’evento è sempre il medesimo: una finale di Champions League di calcio (una volta si chiamava Coppa dei Campioni).

    Dal 30 maggio 1973 al 3 giugno 2017 sono trascorsi 44 anni e 4 giorni: in questo arco di tempo la Juventus ha giocato nove finali, in media quasi una ogni cinque anni. Sarebbe davvero un bel primato se non fosse che, di queste nove partite, solamente due si sono concluse vittoriosamente. In tutti gli altri casi è arrivata, inesorabile, una sconfitta bruciante.

    Intendiamoci: nel calcio perdere una partita è sempre un evento doloroso. Ma perdere una finale di Champions League lo è ancora di più, perché la sconfitta arriva ad un soffio dall’obbiettivo, che anzi già si comincia a pregustare. È un po’ come lo scalatore che, esausto, deve ritirarsi a qualche decina di metri dalla cima dell’Everest: il sogno di raggiungere la vetta del mondo svanisce quando ormai mancavano pochi passi. Oppure come l’eroico ciclista che, dopo aver condotto una fuga di centinaia di chilometri, viene ripreso dal gruppo e superato in volata a poche centinaia di metri dal traguardo.

    È un torneo duro, la Champions League. Si comincia con la fase a gironi, caratterizzata da grande equilibrio tra le varie squadre, in cui, a parità di classifica, la differenza di una rete segnata o subita può risultare determinante ai fini del passaggio del turno. Poi la seconda fase, ad eliminazione diretta: partite tiratissime, in cui è richiesta non solo grande intensità agonistica e tecnica ma anche lucidità estrema per gestire il doppio confronto andata-ritorno.

    La finale è una meta agognata cui si giunge, pertanto, al termine di una lunga stagione segnata anche da altre competizioni logoranti quali il campionato e la coppa nazionale. A questo punto le squadre più blasonate, quelle che hanno disputato più finali, sono consapevoli che occorre un ultimo sforzo, un colpo di reni per cogliere l’obiettivo tanto desiderato: vincere la partita e alzare la coppa! E così, infatti, solitamente accade a chi ha disputato molte finali: Real Madrid, Milan, Barcellona, Ajax, ed altre grandi.

    Questo libro ha lo scopo di capire perché ciò non vale per la Juventus, che anzi è la squadra che ha perso più finali nella storia della Champions League.

    Ho cercato di analizzare le partite, attraverso l’esame dei resoconti e delle statistiche, per capire quale fosse la chiave che spiegasse questa serie inesorabile di sconfitte, avvenute in tempi diversi e con protagonisti differenti. E la conclusione, forse, è stata ancora più inquietante degli eventi cui ho cercato di dare una spiegazione.

    Capitolo 1 - QUELL’ AJAX ERA FORTISSIMO -

    Belgrado, 30 maggio 1973: Juventus- Ajax 0-1

    Fu la prima finale disputata dalla Juventus in Champions League (a quel tempo denominata Coppa dei Campioni). Prima di allora, la squadra bianconera aveva partecipato a quattro edizioni del torneo, conseguendo due eliminazioni al primo turno (nel 1958-59 ad opera degli austriaci del Wiener Sport Club e nel 1960-61 per mano del CSDA Sofia), una ai quarti di finale (nel 1961-62 contro il Real Madrid di Di Stefano) ed una in semifinale (nel 1967-68 contro i portoghesi del Benfica). [1] In sintesi, risultati non esaltanti, soprattutto se confrontati con le altre grandi italiane, Milan e Inter, che già vantavano due successi a testa. Comprensibile, pertanto, il grande entusiasmo che la partita richiamò nell’ambiente juventino, a cominciare dalla tifoseria. Quarantamila i supporters bianconeri che giunsero allo stadio Marakanà di Belgrado contro diecimila olandesi [2] (considerando anche i tifosi neutrali, furono oltre 89.000 gli appassionati presenti allo stadio ad assistere ad una delle finali con più spettatori paganti della storia della Champions League [3] ). Tra la marea di tifosi giunti da ogni parte d’Italia e d’Europa con ogni mezzo, lo strano caso di due vigili urbani di Milano, Giuseppe Caironi e Franco Aiello, tifosi milanisti: Milan o non Milan, siamo qui a Belgrado per gridare: forza Juve, perchè rappresenta tutto il calcio italiano. [4] Parole che oggi, in un’ epoca di tifo-contro militante, sembrano provenire da un altro pianeta. In televisone, l’evento fu seguito da quattrocento milioni di persone in tutto il mondo ² . Questi semplici dati numerici rendono bene l’idea del clima di speranza che da subito avvolse la compagine bianconera, creando enormi aspettative attorno alla squadra.

    In realtà, la Juventus non era considerata la favorita per la vittoria. Il ruolo di squadra da battere spettava senza dubbio all’Ajax: gli olandesi avevano vinto le ultime due edizioni del torneo, ed erano alla terza finale consecutiva, quarta negli ultimi cinque anni (erano stati sconfitti nel 1969 dal Milan) [5] . Un dominio assoluto dei lancieri di Amsterdam, i migliori interpreti di quella rivoluzione dei tulipani che aveva affermato il calcio totale olandese a livello mondiale. Di fronte a cotanto avversario il partire senza i favori del pronostico, lungi dal costituire un problema, avrebbe potuto invece rappresentare un vantaggio. Come ragionevolmente sintetizzato da Gualtiero Zanetti sulla Gazzetta dello Sport alla vigilia della partita: Avversata duramente dal pronostico, senza alcun dubbio la Juventus si appresta ad affrontare la finale in una condizione psicologica di sicuro favore: se perde era previsto, se vince la sua sarà un’impresa agonistica tra le più significative del nostro calcio nel dopoguerra. [6]

    La realtà fu ben diversa e la squadra che scese in campo quella sera a Belgrado era carica di tensione e paralizzata dalla paura.

    A posteriori, furono individuate molteplici cause che produssero quell’atteggiamento passivo nei giocatori, quasi una trance negativa. Innanzitutto il luogo e la durata del ritiro prima della finale. La squadra fu alloggiata all’Hotel Varadin, una fortezza ristrutturata che dominava sul Danubio dalla collina di Novi Sad, quasi a rimarcare una situazione di desiderato isolamento: La Juve è in ritiro in Jugoslavia da cinque giorni, e sta vivendo una specie di clausura da monastero, arroccata a Novisad, a 90 km da Belgrado. L’Ajax è arrivata in città il giorno prima della partita, ed i giocatori sono in albergo con mogli, fidanzate e tifosi al seguito [7] . A tenere banco durante questo lunga vigilia sono le condizioni fisiche di due giocatori importanti: Morini e Salvadore, reduci da acciacchi rimediati nel finale di stagione [8] . Mentre per Salvadore si trattava di una classica botta, destavano più preoccupazione le condizioni di Francesco Morini: lo stopper si era procurato uno stiramento con versamento del muscolo flessore dell’alluce del piede sinistro [9] , e la possibilità del suo impiego rimase sospesa fino al giorno della partita, contribuendo ad alimentare un clima di ansia.

    Ma soprattutto, la formazione da schierare in campo agitò i sonni dell’allenatore Vycpaleck e del suo staff. Affrontare l’Ajax con due o tre punte? Indipendentemente dalle condizioni fisiche dei due difensori sopraccitati, fu questo il vero dilemma che arrovellò il tecnico boemo. I bianconeri avevano adottato entrambi i moduli nel corso della stagione, con risultati ugualmente soddisfacenti. In sintesi, il modulo 4-3-3, con il tridente composto da Altafini Anastasi e Bettega, avrebbe comportato il sacrificio di Haller e soprattutto di Cuccureddu, autore del gol che valse il 14° scudetto la settimana prima contro la Roma. Il 4-4-2, invece, con conseguente esclusione di Bettega, avrebbe garantito una maggiore copertura a centrocampo, consentendo di attendere l’Ajax e ripartire in contropiede. La società sembrò avere le idee chiare, sin da subito, su quale dovesse essere la condotta della partita: bandito ogni tatticismo e difensivismo, gli olandesi avrebbero dovuto essere affrontati a viso aperto. Boniperti dichiarò: Desideriamo onorare il calcio italiano ed europeo con un degno spettacolo di gioco. [10] In realtà lo stesso presidente bianconero, aldilà dei proclami ufficiali, dimostrava –italianamente- grande preoccupazione per la fase difensiva. Francesco Morini, ammise candidamente: Di notte pensiamo ai nostri avversari, come ci ha suggerito il presidente: studiate le marcature, ci ha detto Boniperti, di notte, se è il caso.... [11]

    La mattina del 30 maggio, il giorno tanto atteso della partita, finalmente ogni dubbio venne sciolto, quando Vycpaleck annunciò la formazione che sarebbe scesa in campo. Era 4-3-3, con il tridente d’attacco Altafini-Anastasi-Bettega sostenuto da un centrocampo ove Causio e Furino avrebbero agito ai lati di Capello. In difesa, davanti a Zoff il recuperato Morini stopper al centro della difesa, Salvadore libero, Marchetti e Longobucco terzini. Una Juve offensiva, insomma, pronta ad affrontare l’Ajax senza timori riverenziali. Chissà come avrebbe reagito l’allenatore juventino se avesse saputo che la scelta di un modulo piuttosto che di un altro non avrebbe scomposto più di tanto gli avversari:

    "L’allenatore Stephan Kovacs racconta un retroscena curiosissimo, in parte forse romanzato, ma che certamente ha un grosso fondo di verità: «In vista dell’impostazione tattica della finale di Belgrado», ha detto Kovacs, «ho potuto giovarmi concretamente delle note che un giovane allenatore turco aveva preso nel corso delle due semifinali fra Juventus e Derby County. Note in cui aveva riprodotto fedelmente gli schemi attuati dalle due squadre. Su quelle note, su quel che vidi io nella partita di Roma che consentì alla Juve di vincere lo scudetto, predisposi una partitella preziosissima, disponendo la squadra allenatrice, una selezione militare di Belgrado, esattamente come la Juve, sia nella variante a due che in quella a tre punte. Sicché in campo non si verificò nulla che non avessimo previsto». ¹³

    E comunque, nel calcio, aldilà dei proclami della vigilia, conta il riscontro del campo. In questo senso, non sono gli schemi e i ruoli a governare le azioni: ciò che conta davvero è l’atteggiamento e l’intensità agonistica dei giocatori, la loro determinazione a conseguire l’obbiettivo. (Nel calcio vince chi ha più fame, esemplificò efficacemente il concetto un grande allenatore come Marcello Lippi, anni dopo, alla vigilia della finale della Coppa del Mondo 2006).

    Ebbene, quella sera a Belgrado, nessuna di queste caratteristiche venne mostrata dai giocatori bianconeri. Invece, entrò in campo una squadra dimessa, divorata dalla tensione e paralizzata dalla paura. Giuseppe Furino: Aldilà del valore dell’Ajax, noi subimmo un pò l’impatto della finale e quindi l’emozione di affrontare una partita così importante e probabilmente questa emozione ci giocò un brutto scherzo [12] . La Juventus partì contratta: troppa la tensione accumulata. Il difensore Morini arriverà ad accusare i compagni di avere avuto paura ⁷.

    A posteriori, Giampiero Boniperti individuò, oltre al lungo ritiro, un’ulteriore, curiosa, ragione di questo atteggiamento negativo: "Quell’Ajax era fortissimo, ma anche noi ci mettemmo del nostro: Il riscaldamento pre partita effettuato in un campetto laterale, in modo che i giocatori al loro ingresso in campo, in uno scenario struggente, furono letteralmente paralizzati dall’emozione. Per 20 minuti la Juve non toccò palla». [13] La trance negativa è confermata anche da Roberto Bettega: «Ho giocato centinaia di partite a tutti i livelli, ma quella di Belgrado è l’unica della quale io non sappia spiegare nulla. Il che la dice lunga sullo spirito con cui l’affrontammo». ¹³

    Fatto sta che nelle fasi di avvio dell’incontro, la squadra bianconera parve in totale balia dell’avversario: il gol subito dopo soli 5 minuti, fu una conseguenza logica.

    L’azione della rete vale più di mille parole per spiegare l’andamento di quella partita ed i valori espressi in campo. Su un calcio d’angolo battuto troppo lungo dall’Ajax, la palla scivolò verso la linea di fondo dalla parte opposta del campo. Il libero juventino Salvadore se ne impossessò e cercò di far ripartire l’azione toccando il pallone in disimpegno verso Causio, all’altezza della trequarti juventina. In questa fase, nel campionato italiano dell’epoca, il centrocampista avrebbe avuto tutto il tempo di stoppare il pallone, girarsi, e proseguire l’azione, magari con un lancio in avanti a scavalcare il centrocampo. Contro L’Ajax, tutto questo non fu possibile. Al momento di ricevere il pallone, infatti, Causio subì immediatamente la pressione del difensore Blankenburg, per cui cercò di scaricare in qualche modo la palla su Capello, anche lui pressato da Neskeens. Ma il pallone carambolò sul ginocchio di Capello e tornò a Causio il quale, sempre incalzato da Blankenburg commise un altro errore forzato, ed il colpo di tacco che doveva servire di nuovo il compagno uscì in fallo laterale. Sulla rimessa, cominciò un’ azione insistente dell’Ajax: Blankenburg scambiò il pallone con Neeskens, sempre nella trequarti juventina, e lentamente guadagnò metri in avanti. Contemporaneamente Crujff sembrò disinteressarsi dell’azione e, spalle alla porta juventina, indietreggiò verso il centrocampo. Questo movimento parve disorientare lo stopper juventino Morini, a cui nella disposizone della difesa a uomo della squadra italiana toccava la marcatura del fuoriclasse olandese. Morini, infatti, uscì dall’area di rigore e andò verso Crujff, poi si fermò in mezzo alla trequarti ad aspettarlo, il passo incerto, come se non sapesse cosa fare, mentre Neeskens e Blankenburg si scambiavano il pallone ripetutamente a pochi metri da lui. Questa indecisione si rivelò fatale: l’uscita di Morini dall’area di rigore creò uno spazio in cui si fiondarono i centrocampisti e gli attaccanti olandesi: il cross morbido di Blankenburg venne incrociato dal colpo di testa dell’accorrente Rep, che in potente elevazione bruciò Longobucco e spizzò il pallone di testa. Ne venne fuori una traiettoria maligna a parabola, sulla quale Zoff fu nettamente sorpreso: cercò di rincorrere goffamente il pallone per poi tuffarsi rovinosamente dentro la porta in un disperato tentativo di respingere una palla già in rete.

    Di quella parabola maligna è tornato a parlare il portiere juventino di recente: Il gol di Rep non fu straordinario: su un cross lungo entrò quasi con la nuca, fece una specie di pallonetto sul secondo palo: non bello da vedere ma imprendibile. [14] Lo stesso attaccante olandese pare confermare la tesi di Zoff, riconoscendo con signorilità un certa dose di fortuità nel suo gesto atletico: Saltai con Longobucco e sfiorai la palla, che con strano effetto scavalcò Zoff. Provai incredulità. [15]

    Aldilà della casualità o meno del colpo di testa, il calcio totale olandese, un mix di tecnica e forza atletica, si manifestò in tutta la sua potenza e magnificenza tramite quell’azione al 5’ del primo tempo. Per il resto, la partita fu un lungo monologo dell’Ajax, che però non andò oltre ad un possesso palla privo di ulteriori pericoli per la porta difesa da Zoff. G

    li olandesi si limitarono a controllare la gara, dando l’impressione di accontentarsi di amministrare il vantaggio, in ciò incoraggiati anche dalla pochezza dell’avversario.

    La Juventus, infatti, non fu in grado di imbastire un’azione davvero pericolosa per quasi tutta la durata della partita. L’emozione parve bloccare ogni tentativo dei giocatori bianconeri. E difatti, innumerevoli furono gli errori commessi in fase di disimpegno: Altafini e Bettega sbagliavano appoggi elementari sulla trequarti avversaria, seppur liberi dalla marcatura dei difensori, Capello non trovò quasi mai la misura dei lanci lunghi, preda dei difensori olandesi.

    Emblematica un’azione di Anastasi nel primo tempo: trovatosi improvvisamente il pallone tra i piedi sulla trequarti dell’Ajax, invece di mantenerne il possesso in attesa dell’arrivo dei compagni per avviare l’azione offensiva, si lanciò con uno scatto in un avventuroso slalom verso una zona presidiata dai giocatori olandesi, andando letteralmente a rimbalzare contro di essi: palla persa, e nuovo contrattacco dei tulipani.

    Ora, chi ha giocato a pallone a qualsiasi livello comprende bene che i passaggi sbagliati, le accelerazioni scriteriate, rivelano essenzialmente un problema nella testa: la paura. Il pallone inizia a scottare tra i piedi, diventa un arnese ingombrante di cui sbarazzarsi prima possibile, scaricandolo sul compagno.

    I muscoli delle gambe non girano, non si ha il controllo dei propri movimenti. Certo, l’emozione non costituì l’unico motivo della prestazione negativa. Sin dalle prime fasi di gioco, infatti, fu evidente come la squadra bianconera fosse sbilanciata: i tre attaccanti apparvero isolati e, lungi dal costituire un pericolo per la difesa avversaria, erano molto lenti nel rientare ad aiutare i centrocampisti.

    Questi ultimi si ritrovarono sistematicamente in inferiorità numerica e vennero sopraffatti dalla manovra olandese, cui partecipavano pure i terzini Krol e Suurbier e il libero Blankenburg. Come confermò Giuseppe Furino: Era una formazione troppo sbilanciata in avanti in quanto giocavamo con tre punte come Altafini, Bettega e Anastasi: probabilmente era un lusso che non potevamo permetterci contro un avversario simile ¹¹. Ancora una volta, sono le statistiche che rendono bene la realtà dei fatti: la prima azione pericolosa juventina in area dell’Ajax scaturì subito dopo il gol del vantaggio olandese: un cross velenoso di Causio, sul quale però gli accorrenti Anastasi e Bettega furono anticipati da Ulshoff che, di petto, sventò la minaccia appoggiando al portiere Stuy.

    Ma dopo quella fiammata bisognerà attendere quasi la mezz’ora per vedere un tiro indirizzato verso la porta dell’Ajax: l’autore fu Marchetti, la cui conclusione da fuori area si rivelò però una ciabattata del tutto fuori misura, con il pallone che mestamente si perse sulla linea di fondo, a metà distanza tra il palo destro della porta olandese e la bandierina del calcio d’angolo: più che un’insidia, un tiro di frustrazione. Ecco quindi che l’unica, vera, palla-gol juventina di tutta la partita si concretizzò solo al 42’ del primo tempo. Su un errato disimpegno degli olandesi, il pallone venne smistato a Furino sul cui cross a centro area, perfetto, Bettega impattò male la sfera di testa, indirizzandola debolmente tra le braccia di Stuy.

    Un errore non provocato, in quanto l’attaccante era completamente libero, e ancora più inspiegabile considerando come il colpo di testa fosse una specialità del bomber juventino, il suo tiro vincente. Sicuramente dovette pensarlo Anastasi, che subito si avvicinò al compagno ancora incredulo e con le mani nei capelli e gli diede un buffetto

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