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Il romanzo del grande Napoli
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E-book330 pagine5 ore

Il romanzo del grande Napoli

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Info su questo ebook

Dal 1926 a oggi, la storia del mito azzurro

Una grande tifoseria
Una grande storia

Quale squadra più del Napoli – con il tifo più sentito e fantasioso d’Italia – merita di veder trasformata la sua storia societaria in un’epopea romanzesca? Ed ecco allora che sulla pagina scritta rivivono i momenti più salienti del club azzurro: la mitica fondazione da parte dell’industriale Giorgio Ascarelli, il Napoli di Garbutt e di Sallustro, l’arrivo di Achille Lauro e la sua lunga presidenza, gli anni difficili in corrispondenza della seconda guerra mondiale, le operazioni di mercato che negli anni Cinquanta emozionarono i tifosi (Vinício, Jeppson), la costruzione del San Paolo, il Napoli di Sívori e Altafini, l’ingresso di Ferlaino in società, gli anni Settanta con Zoff, Savoldi, il calcio all’olandese, i settantamila abbonamenti. E poi agli anni Ottanta di Krol e del settennio d’oro di Maradona, le vittorie di due scudetti e la Coppa Uefa. Infine, il declino negli anni Novanta fino al fallimento del 2004, per approdare alla rinascita con De Laurentiis e all’ultimo decennio che sta regalando nuove emozioni ai suoi tifosi dal grande cuore azzurro.
Dario Sarnataroè nato a Napoli nel 1975. Voce dei programmi sportivi di Radio Marte, collabora con «Il Mattino» e segue professionalmente le vicende del Napoli calcio dal 1996.
Giampaolo Materazzo
è nato a Napoli nel 1972. Vive e lavora nei Campi Flegrei, in una terra antica. Ha scritto per la Newton Compton 101 gol che hanno fatto grande il Napoli e, con Dario Sarnataro, 1001 storie e curiosità sul grande Napoli che dovresti conoscere.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2015
ISBN9788854187054
Il romanzo del grande Napoli

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    Anteprima del libro

    Il romanzo del grande Napoli - Giampaolo Materazzo

    1. Dal mare alla guerra

    A Napoli il calcio ce l’ha portato il mare. Come in tutte le città che si affacciano sul Mediterraneo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i marinai inglesi che scendevano dalle loro navi, organizzavano sui primi spiazzi di terreno che trovavano gioiose partite di pallone. Due pali piantati per terra da una parte e dall’altra del campo di gioco e il più era fatto.

    Naturalmente, i numerosi giovani partenopei che incuriositi accorrevano a vedere questo gioco bellissimo se ne innamorarono e cominciarono a giocare anche loro. Così, più di un secolo fa, i nostri bisnonni o i nostri trisavoli conobbero il calcio e presero a inseguire una palla che tuttora rincorriamo.

    In quel tempo, che solo sui libri di storia non sembra poi così lontano, non si utilizzavano tattiche e moduli precisi: tutti all’attacco e vediamo che cosa succede! Mentre nei primi anni del Novecento in Piemonte, Liguria e Lombardia si organizzava un torneo che era una sorta di progenitore dell’attuale serie A e si assegnavano già gli scudetti (anche quando le pretendenti al titolo erano soltanto quattro squadre) a Napoli un signore inglese, William Poths, impiegato della Cunard Line, prestigiosa compagnia di navigazione britannica, fondò il Naples Foot-Ball and Cricket Club, prima esperienza di una società polisportiva partenopea. Era il 1904.

    Di lì a qualche anno nacquero, in ordine sparso, l’Unione Sportiva Internazionale Napoli, la Ginnastica Partenopea, la Sportiva Napoli, la Puteolana (che in realtà vanta il primato di anno di fondazione in Campania, 1902), la Bagnolese, la Juventus del Vasto, la Libertas, la Pro Napoli. Era un derby continuo di partite a livello amatoriale in cui magari spiccava qualche torneo come la Coppa Lipton, organizzato dal magnate inglese del tè e grande appassionato di calcio Thomas Lipton. Una squadra partenopea da una parte, una siciliana dall’altra e per sette edizioni, dal 1909 al 1915 si disputarono sul campo di Villa Sperlinga a Palermo altrettante gare. La prima fu vinta proprio dal Naples Foot-Ball Club.

    Soltanto nel 1926, grazie alla spinta del giovane industriale Giorgio Ascarelli, si giunse alla nascita dell’Associazione Calcio Napoli. Ascarelli, mosso dall’amore per la sua terra e dall’ambizione di voler vedere la squadra iscritta al campionato nazionale, riunì i soci dell’Internaples (società sorta a sua volta dalla fusione di Naples e Internazionale) e con voce commossa disse: «Pur grati a coloro che sono stati la nostra matrice, l’importanza del momento e la maggiore dignità cui il nostro sodalizio è chiamato mi suggeriscono un nome nuovo, nuovo e antico come la terra che ci tiene, un nome che racchiude in sé tutto il cuore della città alla quale siamo riconoscenti per averci dato natali, lavoro e ricchezza. Io propongo che l’Internaples da oggi in poi, e per sempre, si chiami Associazione Calcio Napoli». La maglia prese il colore azzurro del cielo e del mare e così, quasi novant’anni fa, il Napoli vide la luce.

    Giorgio Ascarelli che aveva voluto fortemente che la squadra e la città da allora in avanti si rispecchiassero nello stesso nome, e a volte involontariamente nel medesimo destino, era un illuminato uomo d’affari impegnato nel campo tessile. Trentenne, di origine ebraica, aveva dimostrato fin da ragazzo le sue indiscutibili capacità imprenditoriali. Le sue conoscenze e il suo carisma permisero alla neonata società azzurra di partecipare fin da subito al massimo campionato di calcio italiano, quello che dal 1929 sarebbe diventato la serie A.

    La prima esperienza del Napoli in un campionato di squadre oggettivamente meglio costruite si rivelò disastrosa. In tutta la stagione 1926-27 gli azzurri collezionarono un solo pareggio e tutte sconfitte. La squadra era allenata da Fritz Kreutzer, un giovanotto viennese, un po’ più attempato degli altri, che svolgeva il triplo ruolo di allenatore, calciatore e rigorista di quella martoriata compagine. La prima storica rete messa a segno da un calciatore del Napoli recò la firma di Paulo Innocenti, colonna portante della difesa azzurra per almeno un decennio, in un Genoa-Napoli del 17 ottobre 1926, partita finita sul 4-1.

    Il livello di gioco, che si poteva definire ancora amatoriale, di quella lontana prima stagione comportò due conseguenze degne di essere raccontate: dopo l’ennesima sconfitta l’afflitto allenatore Kreutzer aveva confidato a un suo caro amico che se gli azzurri si fossero imposti in qualche gara, lui sarebbe tornato a piedi a Vienna. Quando il 10 aprile 1927 il Napoli affrontò l’Alba Roma in una partita valida per la Coppa CONI e vinse per 2-1 accadde una cosa curiosa: i calciatori, contenti e vittoriosi, si recarono alla stazione di Roma per fare ritorno a Napoli in treno, ma nessuno vide mai arrivare Kreutzer. Naturalmente, la leggenda vuole che sia ritornato per davvero a piedi fino a Vienna. La seconda cosa che avvenne e che ancora si riflette negli occhi dei sostenitori partenopei è relativa al simbolo del Ciuccio. Il primo distintivo ufficiale dell’Associazione Calcio Napoli fu un cavallo rampante che, poggiato su un pallone da calcio, si stagliava nel blu. Il cavallo rampante era l’emblema del Regno di Napoli al tempo di Gioacchino Murat e quindi, scegliendolo, si omaggiava la storia illustre di Napoli capitale. In seguito alla malinconica collezione di sconfitte accadde che nel Bar Brasiliano, nella galleria Umberto I, tra i discorsi appassionati degli sportivi si sentì la voce di un anziano tifoso, arrochita dalla pipa e dal tempo, che esclamò: «Cchiù ca nu cavallo, me pare ’o ciuccio de zì Fechella: trentasei chiaje e ’a coda fraceta», Più che un cavallo, mi sembra l’asino di zia Fechella: trentasei piaghe e la coda marcia. La battuta fece il giro della città e venne riportata sulla rivista satirica «Vaco ’e pressa». La sostituzione ufficiale del simbolo del Napoli, nella percezione dei tifosi, era già fatta e così il Ciuccio continua ancora a rappresentare la squadra.

    Ovviamente in quel grigiore apparente che era il Napoli appena nato, c’era qualche raggio di sole. E che sole! Ad appena 18 anni, per esempio, nella prima storica stagione in azzurro, aveva esordito Attila Sallustro, nato in Paraguay, ma napoletano di adozione. Trasferitosi ad appena dodici anni con la sua famiglia sulle rive del golfo più affascinante del mondo, il giovane Attila sembrava nato per giocare a calcio: agile, veloce, scattante, di una eleganza rara per una punta. Fu scoperto ragazzino da un talent scout dell’Internazionale, Mario De Palma, mentre in villa comunale, irraggiungibile per tutti, correva palla al piede spensierato e sorridente.

    La sua prima rete, unica del resto in tutto il campionato 1926-27, fu messa a segno contro l’Inter il 19 dicembre del ’26 in trasferta a Milano. Il risultato di quella gara fu un catastrofico 9-2 per i nerazzurri. Il talento del giovane Sallustro rimaneva comunque cristallino. Intorno a lui, negli anni che seguirono, si costruì l’attacco della squadra che dalla stagione successiva in poi cominciò anche a vincere qualche partita.

    In realtà anche il campionato 1927-28 non portò grandissime soddisfazioni: sicuramente furono collezionate anche alcune vittorie e molti più punti della stagione precedente, 15. In ogni caso giunti alla fine della stagione nell’ultima partita del girone A della Divisione Nazionale, il Napoli giocò contro il Torino che poi avrebbe vinto lo scudetto nel girone finale delle otto squadre qualificate. I granata vinsero con un incredibile 11-0. Libonatti (4 gol), Baloncieri (3) e Rossetti (2) coronarono la loro strepitosa annata nella quale in venti gare avevano realizzato 65 gol in tre. La storia del calcio li ricorda come il trio delle meraviglie. Quella partita, disputata il 4 marzo 1928, condannò gli azzurri alla più breve retrocessione della storia: classificatosi terzultimo, il Napoli venne reintegrato nella massima serie appena due settimane dopo, grazie allo stravolgimento della formula del campionato nazionale. Il 1928-29 sarebbe stato l’ultimo campionato diviso in due gironi da sedici squadre, le cui prime otto si sarebbero qualificate per giocare il girone unico del campionato successivo. Dalla stagione 1929-30 si sarebbe svolta la serie A che esiste tuttora.

    Quegli undici gol, subiti tutti nella stessa partita, non erano un unicum troppo strano, anzi capitava spesso che le gare finissero con risultati pirotecnici. Lo stesso Napoli nel campionato 1928-29 riuscì a imporre il proprio gioco segnando in alcune occasioni moltissime reti: il 28 ottobre 1928, per esempio, contro la Fiorentina gli azzurri ne segnarono ben sette e qualche mese dopo vinsero per 6-2 contro la Reggiana. Quell’incontro del 12 maggio 1929 resta storico perché Sallustro aveva realizzato addirittura una cinquina! Sempre più al centro della manovra offensiva, faro assoluto di una squadra ancora non del tutto matura, Attila nell’arco del campionato aveva fatto 22 gol diventando da allora in avanti per i tifosi partenopei il Veltro, come il velocissimo e quasi mitologico cane da caccia.

    La fine della stagione 1928-29 ancora regala qualche sillaba di narrativa: il 19 maggio ’29 il Napoli si impose per la prima volta sulla Juventus. La partita si giocò davanti ad alcune migliaia di spettatori nella suggestiva cornice del campo dell’Ilva a Bagnoli. Tra i bianconeri si contavano le assenze di Rosetta, Munerati e Cevenini, ma rimanevano una formazione di assoluto rispetto e avevano in Combi tra i pali un’autentica saracinesca. Il gol che regalò la vittoria al Napoli fu il risultato di una bellissima azione: Sallustro, partendo dalla fascia, si accentrò superando con classe Della Valle e Caligaris, vide Innocenti libero e gli passò il pallone, il difensore azzurro allungò la sfera a Buscaglia che scattò in area e superò Combi con un tiro preciso nell’angolino della porta.

    Venti giorni dopo faceva tappa sotto il cielo partenopeo l’Inter che si recò in trasferta orfana di ben sette titolari. All’epoca, il viaggio in treno da Milano a Napoli era una lunga avventura e alcuni nerazzurri si rifiutarono di affrontarla. Si giocava il 9 giugno e il caldo dell’estate si era già manifestato in tutta la sua magnificenza. Gli azzurri riuscirono, nel solo primo tempo, a segnare ben quattro reti con Sallustro, autore di una doppietta, Buscaglia e Gariglio. Nella ripresa, però, il Veltro fu costretto a uscire dal campo per un’insolazione! Il caldo e il sole misero fuori combattimento il fuoriclasse e la partita subì un improvviso rallentamento: 4-1 fu il risultato finale dell’incontro.

    Il raggiungimento dell’ottavo posto nel girone B della Divisione Nazionale proiettava il Napoli a disputare uno spareggio contro la Lazio che avrebbe deciso quale delle due squadre si sarebbe iscritta alla serie A la stagione seguente. (In un primo momento la non ancora inaugurata massima serie avrebbe dovuto contare solo sedici squadre, ma fu proprio il presidente Ascarelli a convincere i dirigenti della Federazione ad allargarla a diciotto). Contro la Lazio comunque si giocò e l’evento era così pieno di aspettative per tutti i tifosi azzurri che toccò inventarsi qualcosa: si sperimentò una sorta di cronaca della gara del tutto inedita con comunicazioni trasferite attraverso telegrafo dallo stadio di Milano (dove si disputava la gara) alla redazione del «Mezzogiorno Sportivo» nel bel mezzo di piazza Trieste e Trento. Da qui, il celebre e apprezzatissimo giornalista Felice Scandone, affacciato al balcone, raccontava con voce stentorea gli stralci di partita che gli venivano man mano stenografati da Michele Buonanno, segretario del Napoli, a tutta una folla di sostenitori azzurri assiepati in gran numero sotto il palazzo della redazione del giornale. Si ebbe modo di sapere così che prima segnò Spivach per la Lazio, poi i tifosi esultarono come se fossero allo stadio per i gol di Gondrano Innocenti e di Sallustro. La partita si chiuse sul 2-2, ma come prima accennato non ci fu bisogno di ricorrere a un altro incontro per stabilire la permanenza di una delle due compagini in serie A visto che questa fu allargata a diciotto squadre.

    Per vedere all’opera il primo grande Napoli della storia, si aspettò soltanto l’estate del 1929. Il presidente Giorgio Ascarelli si adoperò perché la squadra si trovasse pronta per affrontare le corazzate del Nord più esperte: prima di tutto ingaggiò l’allenatore inglese William Garbutt e poi comprò Cavanna, Vincenzi, Vojak e Mihalich, tutti destinati a entrare nel cuore dei tifosi azzurri dell’epoca e non solo.

    Garbutt, che aveva allenato per quindici anni il Genoa con cui aveva vinto tre scudetti, era quanto di meglio si potesse trovare tra i tecnici. Prima del suo arrivo in Italia, non esisteva la figura dell’allenatore. In genere il compito di preparare la squadra era affidato o al calciatore più vecchio oppure a un dirigente. L’allenatore inglese rivoluzionò i metodi di allenamento pretendendo che i giocatori avessero un’adeguata preparazione atletica, seguissero un regime alimentare sobrio e fossero magnificamente disciplinati. Per quanto riguarda il vero e proprio insegnamento del gioco del calcio, Garbutt fu un maestro raro: in determinate sedute di allenamento faceva indossare, a chi era destro, soltanto la scarpetta sinistra e viceversa con chi era mancino. In questo modo i calciatori erano obbligati a imparare a tirare con entrambi i piedi. Poi attaccava alla traversa i palloni ad altezze sempre maggiori così che i giocatori potessero migliorare nell’elevazione e nello stacco di testa. Insegnava i fondamentali del tiro e del dribbling, dell’anticipo e della posizione. Un esempio da seguire. Per omaggiare le sue origini britanniche, i calciatori gli si rivolgevano chiamandolo mister, da allora in avanti tutti i tecnici delle squadre di calcio in Italia vengono chiamati così.

    Come prima accennato, al grande allenatore si affiancarono giocatori straordinari. Beppe Cavanna per esempio era nel giro della nazionale e fu il portiere di riserva ai Mondiali del 1934, vittoriosi per la nazionale italiana. Giovanni Vincenzi e Pippone Innocenti formarono una coppia di difensori affiatata e spesso insuperabile. Antonio Vojak, che fu prelevato dalla Juventus, è stato tra i migliori marcatori della storia del club azzurro: svariava su tutto il fronte d’attacco con eccezionale personalità, non disdegnando di ritornare a centrocampo per organizzare il gioco della squadra. Colpiva il pallone principalmente con il piede destro, ma era in grado di calciare con precisione anche con il mancino. Incontenibile negli spazi, potente e rapido, quando si trovava a tu per tu con il portiere avversario, questi non aveva scampo: con forza o con eleganza, con una saetta all’incrocio o con un tocco morbido a scavalcare l’intera retroguardia, il pallone finiva la sua splendida corsa sempre in fondo alla rete. Marcello Mihalich era una mezzala elegante e dinamica, famoso per i colpi di testa a tuffo, a Napoli stupì per le doti di scatto incredibili, visto che nei primi metri era assolutamente imprendibile, cambiava direzione con abili finte che disorientavano gli avversari e disponeva anche di eccellenti qualità balistiche, visto che segnò diverse volte dalla lunga distanza con fendenti potenti e precisi.

    Questa collezione di giocatori fortissimi si sommava a un gruppo di buoni calciatori nel quale, oltre all’immenso Sallustro, spiccava già da un anno il talento di Carlo Buscaglia che per Garbutt «fu l’uomo più utile di tutta la squadra». Autentico jolly, Buscaglia nelle cronache dei giornali sportivi del tempo veniva descritto con l’elegante e oggi inconsueto aggettivo di proteiforme. Al pari del dio marino Proteo – che aveva la facoltà di cambiare forma a suo piacimento, diventando un qualunque animale o anche un elemento della natura – Buscaglia poteva ricoprire ogni singolo ruolo sul campo di gioco risultando sempre tra i migliori: centrocampista, attaccante, difensore e una volta perfino portiere!

    L’incredibile lungimiranza dell’allora presidente Ascarelli è testimoniata dal fatto che proprio durante il campionato 1929-30 venne inaugurato il primo e unico stadio di proprietà del Napoli: lo stadio Vesuvio. Interamente finanziato dal giovane industriale, sorto nel rione Luzzatti non distante dalla ferrovia, l’impianto poteva ospitare ventimila persone. (Per i Mondiali giocati nel 1934 vi furono dei lavori di ampliamento che ne raddoppiarono la capienza). Anche se la prima partita che vi si giocò fu un Napoli-Triestina 4-1, la cerimonia di inaugurazione fu prevista per la partita successiva, contro la Juventus, il 23 febbraio 1930. La gara che si chiuse sul 2-2 fu accesa, vibrante ed equilibrata. Lo spettacolo che lasciò tutti senza fiato però furono i ventimila che affollarono le gradinate dell’impianto. Vanno ritagliate le righe che Vittorio Pozzo, CT della nazionale italiana e penna prestigiosissima per «La Stampa» di Torino, scrisse quasi ipnotizzato dalla platea partenopea: «Un pubblico caldo, entusiasta e schietto quant’altro mai. Il pubblico del Nord al confronto è gelido; il pubblico del Nord è scettico e critico in paragone. L’esperienza gli ha tolto calore e spontaneità. Il pubblico di Napoli è, viceversa, così genuino, così aperto e così privo di sottintesi nelle sue manifestazioni, da lasciare impressionati. Quello che lo spettatore di questa città prova e sente è godimento ed è sofferenza al cento per cento. Il pubblico napoletano è uno spettacolo a sé».

    Di indole riservatissima, nascosto tra la folla, a quell’evento era presente anche Ascarelli che purtroppo di lì a un paio di settimane morì, a soli trentacinque anni, a causa di una peritonite fulminante. Ovviamente, a furor di popolo, lo stadio gli fu immediatamente intitolato e quell’anno, forse per rendergli omaggio, all’Ascarelli di Napoli si poté ammirare un epico incontro di calcio che vale la pena ricordare.

    A quei tempi a Milano, sulla sponda nerazzurra dei Navigli, brillava una stella di prima grandezza il cui nome, a distanza di quasi un secolo, ancora impone una certa solennità: Giuseppe Meazza. Il 29 maggio del 1930 Pepìn, come veniva affettuosamente chiamato il fuoriclasse, non aveva ancora compiuto venti anni, ma due settimane prima contro la fortissima Ungheria aveva segnato una storica tripletta che significò una vittoria leggendaria contro i maestri danubiani che prima di allora apparivano imbattibili. Il giovane Meazza, inoltre, stava guidando l’Ambrosiana Inter alla vittoria dello scudetto a suon di gol (31 quella stagione). Quando i nerazzurri giunsero a Napoli, in quell’ultima domenica di maggio, non si aspettavano di trovare al proprio cospetto una squadra così forte. Prima della gara Sallustro, appena un anno in più del fortissimo collega, offrì una medaglia d’oro al campione meneghino da parte del Napoli. Lo spettacolo in campo fu meraviglioso. Il Napoli impose il suo gioco e ai temibili avversari lasciò soltanto le briciole. Alla fine dell’incontro, che si concluse con il risultato di 3-1 per gli azzurri, il migliore in campo risultò essere il Veltro che, con giocate memorabili e una doppietta strabiliante, eclissò per una domenica la classe luminosa di Meazza.

    In campionato gli azzurri raggiunsero un onorevolissimo quinto posto che bene faceva sperare per gli anni a seguire.

    Sfogliando almanacchi ingialliti dal tempo, vecchi ormai di quasi un secolo, spiccano bellissime foto in bianco e nero che ritraggono le gradinate degli stadi di tanti anni fa. Il gioco del calcio, ancora di più che ai giorni nostri, attirava sugli spalti decine di migliaia di persone che accorrevano festanti alle partite dei loro beniamini.

    Tra tutte quelle immagini antiche, si rimane rapiti dalle istantanee che raccontano uno stadio Ascarelli sempre pieno in ogni ordine di posto agli inizi degli anni Trenta. Più di ventimila tifosi, tra cui una foltissima schiera di donne e giovanissimi appassionati, che agitavano fazzoletti azzurri (nelle foto appaiono drappi chiari) e assistevano incantati a uno spettacolo gioioso. Sembra quasi di poter respirare quella sana euforia così lontana dagli strascichi polemici dei nostri giorni, nei quali spesso al calcio si associa una rabbia ingiustificata.

    All’epoca, per esempio, non era assolutamente raro trovare mescolati gomito a gomito, tra le tribune degli impianti sportivi, tifosi di fazioni opposte in un clima di incredibile tranquillità. Quando il Napoli si recava in trasferta al nuovissimo stadio del Testaccio di Roma, almeno duemila azzurri raggiungevano in treno la capitale e si godevano emozionanti incontri di pallone assieme ad altri quindicimila sostenitori giallorossi.

    E nemmeno bisogna pensare che allo stadio si trovasse un pubblico ingenuo oppure indifferente alle sorti della gara, anzi: molto spesso i commentatori dei giornali sportivi di quel tempo rimanevano folgorati dai ventimila dell’Ascarelli che accompagnavano con canti e cori entusiasti i propri calciatori, tanto che a volte si creava un’energia così magnetica che alimentava le azioni degli azzurri in campo e sottraeva forze agli avversari quasi intimiditi da quella meravigliosa cornice.

    La passione nei confronti della propria squadra del cuore tracimò anche per le strade della città: proprio in quei tempi, infatti, a Napoli si inaugurarono i primi Bar dello Sport di cui si ha memoria. Tra le magnifiche pagine del sito di Riccardo Cassero si ricorda la Torrefazione Azzurra che è stata il primo e vero covo degli amanti del calcio. Inaugurata nel 1932, tra via Sanfelice e via Medina, interamente dipinta di azzurro, raccoglieva un’umanità variegata che soprattutto la domenica pomeriggio affollava l’ampio salone nel quale, su di una specchiera, veniva aggiornato il risultato della partita del Napoli in tempo reale grazie al collegamento telefonico con la redazione della «Gazzetta del Popolo». In quegli anni, a questo mitico locale se ne aggiunsero altri e tra questi sicuramente vanno ricordati il Bar Pippone del grande Innocenti e il Bar Cavanna di proprietà del portierone della squadra. In questi ritrovi addirittura c’era l’oggettivo vantaggio di poter commentare gli esiti dell’incontro della domenica direttamente con i protagonisti sul terreno di gioco!

    Insomma, nonostante questa narrazione descriva tempi (il ventennio fascista) che diventeranno piuttosto bui davanti al tribunale della Storia, per ciò che riguarda il mondo del calcio si possono sicuramente utilizzare tonalità pastello che sempre restituiscono maggiore luminosità.

    Rispetto al calcio attuale, per esempio, fatto di centinaia di milioni di euro e di sponsor, di procuratori e di scommesse, tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta non c’era ancora un vero e proprio professionismo. Molto spesso i calciatori, anche se pagati bene alle squadre di provenienza, erano assunti dalle società con stipendi impiegatizi e non mancano aneddoti singolari che, ricordati ai giorni nostri, appaiono ammantati da un’aura di incredibile semplicità: il primo fuoriclasse della storia azzurra, Attila Sallustro, viene descritto tutt’oggi come il primo divo del gioco del calcio. Bello, famoso, rispettato, si fidanzò tra l’altro con una graziosissima ballerina, Lucy D’Albert, stella del teatro di rivista, dando vita così al primo gossip della storia riguardante un celebre sportivo e una donna dello spettacolo. Ebbene il Veltro, quando si trattò di dovere accettare uno stipendio dalla società, elegantemente declinò l’offerta: la sua famiglia trovava disdicevole guadagnare denaro per un’attività ludica e sportiva che era, prima di ogni altra cosa, un divertimento. Fu così che a Sallustro venne regalata una fiammante automobile, una Fiat Balilla 521, con la quale scorrazzava per le strade della città sempre felice di firmare autografi e di regalare un sorriso a quanti lo avvicinavano per complimentarsi della sua bravura. L’inesauribile penna di Mimmo Carratelli racconta che una volta Sallustro investì un passante in via Roma che, una volta riconosciutolo, disse: «Scusate tanto, è colpa mia! Voi potete fare quello che volete…».

    Anche se non girava troppo denaro, soprattutto nelle tasche dei calciatori, a volte le società si impegnavano molto dal punto di vista economico e poteva capitare che affrontassero spese ingenti per accaparrarsi le prestazioni di qualche campione. Fu questo il caso di Enrico Colombari, fortissimo mediano in forza al Torino, che nell’estate del 1930 venne pagato 265.000 lire, una cifra esorbitante per i parametri dell’epoca. La somma di denaro versato nelle casse della società granata fece abbastanza scalpore e fu così che, la prima volta che Colombari subì un fallo e si trovò accasciato sul terreno di gioco, dagli spalti qualcuno gridò: «Se n’è caduto ’o Banco ’e Napule!». Un quarto di secolo più tardi, la stessa esclamazione, con gli stessi toni sorpresi e ironici verrà urlata dalle gradinate dello stadio del Vomero per Hasse Jeppson che pure verrà pagato una tombola.

    Il Napoli degli inizi difficili, intanto, era stato dimenticato. La squadra intimamente rimodellata da mister Garbutt cominciò a essere rispettata e temuta in ogni rettangolo di gioco d’Italia. Basti ricordare che l’Ascarelli dal giorno dell’inaugurazione contro la Juventus, il 23 febbraio 1930, fino a un Napoli-Genoa del 15 febbraio 1931, rimase inviolato. Un anno di imbattibilità casalinga meglio di ogni cosa dimostrava l’avvenuta metamorfosi della compagine partenopea: da matricola a grande realtà nel giro di nemmeno un lustro.

    Nel campionato 1930-31 gli azzurri tallonarono la Juventus – che a fine anno si laureò Campione d’Italia – per l’intero girone di andata. Nello scontro diretto che si giocò a Torino il 23 novembre del ’30, i bianconeri arrivavano da otto gare consecutive vinte ed era la nona di campionato. Quella partita fu memorabile: le reti della vittoria azzurra furono firmate da Buscaglia e da Vojak. Sallustro fu formidabile. Il gol dei padroni di casa arrivò a un quarto d’ora dalla fine e lo mise a segno Renato Cesarini (quello della zona Cesarini). Il risultato finale della partita fu 1-2 e la squadra di Garbutt aveva appena superato un esame difficilissimo. (La storia si è incredibilmente ripetuta nel 1985, stesse squadre, stessa imbattibilità dei futuri Campioni d’Italia, stessa giornata di campionato, la nona).

    La prima partita del girone di ritorno di quel campionato, Pro Vercelli-Napoli fu un’inaspettata battuta d’arresto che ridimensionò le ambizioni azzurre, ma che va ricordata per omaggiare i protagonisti di questa storia. Il portiere del Napoli, Beppe Cavanna era nato a Vercelli e nella squadra piemontese aveva giocato dal 1925 al 1929. Per lui tornare a giocare nello stadio della sua città era sempre un’esperienza particolare, ma quella volta, forse, Beppe aveva un motivo in più per essere emozionato: tra le fila dei padroni di casa c’era un ragazzo di diciassette anni che giocava in attacco ed era suo nipote, figlio della sorella Emilia. Quel giovanissimo centravanti era Silvio Piola, leggenda del calcio, e miglior marcatore italiano di sempre con 274 reti realizzate in serie A. Era l’8 febbraio 1931 e la Pro Vercelli si impose sul Napoli per 6-3. Sei volte capitolò Cavanna, nonostante in quella gara fosse stato tra i migliori in campo, e addirittura Piola realizzò una tripletta. Quando il ventiseienne portiere azzurro stava per raccogliere il sesto pallone dalla sua rete, gli si avvicinò il nipote che in un impeto di irriguardosa ironia gli disse: «Lascia fare a me, zio, che ormai sei stanco!». Dovette provare una fitta al cuore il grande Cavanna che perdonò il mitico attaccante quando qualche anno più tardi gli dedicò i suoi primi gol segnati con la maglia della nazionale.

    Complice l’annata discontinua di Sallustro, che durante quel torneo fece anche il militare, il Napoli a fine campionato giunse al sesto posto, non riuscendo quindi a mantenere il passo di quello splendido girone di andata.

    Uno degli episodi più pittoreschi riguardante il rapporto che c’era tra il pubblico sulle gradinate e i calciatori sul terreno di gioco, è relativo a un pomeriggio di inizio anni Trenta. Più precisamente era il 24 maggio del ’31 e a Napoli il caldo era veramente torrido. In campo, all’Ascarelli, l’avversario degli azzurri era l’Ambrosiana Inter e si rinnovava l’epica sfida tra il Veltro e il Balilla Meazza.

    Fu proprio Sallustro che, a pochi istanti dalla fine del primo tempo, portò in vantaggio il Napoli grazie a un violentissimo destro scagliato appena dentro l’area di rigore. Un gesto tecnico eccezionale che strappò applausi scroscianti alla folla partenopea. Nella ripresa, però, la classe di Meazza, che mai si sarebbe arreso a uno splendido colpo del rivale, riportò con un bel gol la gara in equilibrio. Mentre la partita si accendeva per alcune macroscopiche sviste arbitrali (tra cui un gol annullato a Sallustro e alcuni falli – definiti addirittura sfacciati nelle cronache dei quotidiani sportivi del tempo – non puniti dall’arbitro Scorzoni), l’Inter raddoppiò con Visentin. Un po’ l’esultanza corredata da ampi gesti delle braccia che qualcuno forse confuse con l’antipatico gesto dell’ombrello, un po’ il continuo fischiare a vanvera del giudice di gara, fecero scivolare il clima della partita verso una contestazione sempre più rabbiosa. Dagli spalti cominciarono a piovere oggetti all’indirizzo dell’arbitro e questi non trovò di meglio da fare che assegnare un rigore dubbio agli azzurri per cercare di rimediare alla sua ridicola prestazione.

    Il risultato della partita si fissò sul 2-2 ma diventò uno 0-2 a tavolino visto che tra le decine di cose che arrivarono in campo ve ne furono due che colpirono al petto la giacchetta nera Scorzoni. Un signore di mezza età, tale Domenico Fenuta, si era tolto le scarpe e le aveva scagliate da una distanza considerevole addosso all’arbitro, evidenziando

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