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Futbolario
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E-book281 pagine4 ore

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Futbolario nasce dalle centinaia di articoli prodotti dall’autore e pubblicati su portali specializzati, blog personale, oppure archiviati in una cartella inesplorata del computer, per la semplice necessità di esprimere un’opinione personale. La smisurata passione per il calcio, tale da rasentare le malattia, e la volontà di organizzare questi appunti in un unico testo, sono la spinta decisiva alla stesura dell’opera.

Il volume, attraverso alcuni episodi rilevanti, si pone l’obiettivo di proporre una lettura, più leggera ma egualmente appassionante, della storia contemporanea e dell’evoluzione della nostro corpo sociale. Futbolario è un compendio di calcio e di vita, in cui emerge a più riprese la visione del gioco del pallone come spaccato della società in cui viviamo, in un costante parallelismo tra accadimenti sportivi e storico-politici.

Sebbene sia opinione comune identificare il calcio moderno con il mondo patinato dello show-business, in queste coinvolgenti pagine l’autore prova a indirizzare il punto di vista del lettore sul significato autentico del fútbol, il più democratico degli sport, dove tutti partono alla pari, in cui a vincere non è sempre il migliore in campo, ma nemmeno il più ricco o aristocratico.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2012
ISBN9788891100580
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    Anteprima del libro

    Futbolario - Francesco Ratti

    1998

    Prefazione

    4 dicembre 2011: ultima giornata del Campionato del Brasile. Finalmente scopriremo quale sarà il Club campione. Nella terra di Pelé, è una consuetudine lasciare i "torcedores (tifosi) con il fiato sospeso fino all’ultimo. Alcuni sostengono che, in questo modo, c’è più gusto a vincere e a sfottere gli avversari. Le emozioni che si vivono in quella terra sono da sempre forti. Lo erano già ai tempi delle civiltà precolombiane, con i riti officiati dai caciques (stregoni), poi arrivarono i Conquistadores. Ed infine le emozioni vissute nel periodo in cui combatterono i Libertadores da America".

    Nell’ultima giornata del Brasileirão, il Corinthians e il Vasco da Gama si contendono il titolo tanto ambito. Assieme, le tifoserie delle due squadre, totalizzano qualcosa come 45 milioni di anime votate ad un solo scopo: la vittoria finale. Il Corinthians per tutto l’anno ha dimostrato di essere una squadra concreta, ma è arrivato alla fine del campionato con il fiatone e ha vinto le ultime partite più per fortuna che per abilità dei suoi Moschettieri. Considerando solo i meriti sportivi, dovrebbe essere il Vasco da Gama a vincere. Il Club di Rio de Janeiro ha vissuto una stagione esaltante. Inoltre, per tutta la seconda parte del campionato, la squadra è stata guidata da Cristovão Borges, un carneade che ha preso le redini della situazione dopo che Ricardo Gomes, l’allenatore titolare, è stato colpito da un aneurisma cerebrale mentre veniva disputato un derby con il Flamengo. Dopo un periodo di apprensione per le condizioni del Comandante della Caravella, la squadra comincia ad inanellare una serie incredibile di successi, grazie anche alla rapidità con cui le condizioni di Gomes migliorano. L’allenatore si è ripreso talmente bene, da essere in grado di visitare i suoi ragazzi alla vigilia dell’ultima giornata, per infondere loro il coraggio necessario per osare e vincere. I presupposti per la bella favola ci sono tutti e così, sabato 3 dicembre, vado a letto convinto che gli dei del calcio staranno dalla parte del Vasco.

    Purtroppo, il risveglio nel giorno di Santa Barbara mi fa esplodere in lacrime. Apprendo che è morto Socrates. Una notizia che mi lascia attonito e profondamente triste. E’ morto il pensatore, l’artista, il Dottore, il calciatore. Le sue condizioni non erano buone da tempo, ma confidavo che ancora una volta, con un sorprendente colpo di tacco, "Magrão" (ovvero magrone, così era chiamato dai tifosi del Corinthians) avrebbe di nuovo spiazzato tutti. E invece se ne va, nel giorno più importante per il suo Corinthians. Socrates viene assunto nell’Olimpo degli dei del calcio, e cambia un destino che sembrava già scritto. Mancano circa 10 ore all’inizio delle partite finali. So perfettamente come andrà finire. Il Corinthians vince il Brasileirão 2011, e festeggia con il pugno chiuso alzato al cielo, come piaceva fare il Dottore.

    La prima persona con la quale ho parlato quel giorno è stata Francesco. Sapevo che poteva comprendermi. Francesco è un grande conoscitore della storia politica e calcistica dell’America Latina. Mi disse che, proprio in quei giorni, stava ultimando la stesura di un suo libro sul calcio. Egli è un osservatore attento e sono certo che ha illustrato al meglio i movimenti calcistici che nacquero in America Latina, e sono altresì convinto che questa sua indole curiosa ed attenta, lo porterà in futuro ad analizzare l’altrettanto importante storia del calcio europeo. Francesco non vuole formare un’opinione, non gli interessa. So che gli piace dire la sua argomentando le sue ragioni con dei dati. Da troppo tempo la diffusione delle televisioni via cavo ha permesso una proliferazione isterica di esperti di calcio, la maggior parte, mi duole dirlo, poco preparati in termini di storia e di attualità. La capillare diffusione dell’informazione, delle mode e dei modi di dire supportati dai mass-media bombarda quotidianamente i miliardi di appassionati di calcio, propinando loro appena una infarinatura. La cultura? E’ roba che non fa audience. Meglio lasciar perdere.

    Con questo libro, Francesco si propone di illustrare ai suoi lettori ciò che gli appassionati di calcio a volte non sanno perché non hanno tempo, o voglia per scoprirlo. Ovvero: il calcio così com’è. La lente di ingrandimento che Francesco usa, non la rivolge alla marca dello scarpino dell’atleta, tantomeno all’opera avveniristica e sponsorizzata che rappresenta uno stadio moderno. Francesco ci parlerà di emozioni, di fatica, di sudore, di ambizioni, di voglia di vincere e di possibilità sociali che il calcio dovrebbe offrire a tutti, come accadeva in passato. Se in America Latina ancora (spero non per poco) si respira un’aria differente, ciò non deve essere visto come un sintomo di arretratezza. Il rinnovamento non reca con sé solo migliorie. Il calcio moderno che è approdato prepotentemente in Europa, ha spazzato con un colpo di spugna realtà storiche che hanno dato tanto all’evoluzione culturale di questo sport e che, loro malgrado, sono rimaste indietro. Purtroppo nessun organo che presiede il calcio ha interesse a mutare questa situazione. Nazioni come Austria e Ungheria sono rimaste al palo, dimenticate e gettate nell’oblio. Quanti fedeli telespettatori delle televisioni via cavo sanno del grande contributo che questi paesi hanno dato al calcio?

    In questi ultimi tempi va molto di moda seguire la Premier League. Un campionato ricco, che dà parecchie emozioni, grazie anche ai campioni pagati milioni di sterline. Quanti sanno che c’è una squadra inglese, attualmente in seconda divisione, che ha vinto più Coppe dei Campioni che scudetti?

    Spettacolo. E’ questa la parola d’ordine del calcio attuale. Mi troverei concorde se lo spettacolo si riferisse a quanto avviene in campo. Purtroppo, gli sforzi degli uomini del merchandising, della comunicazione sono rivolti a perseguire un ottimo fatturato, a far gonfiare le casse. E così la bella partita diventa un plus.

    Il vero spettacolo a cui siamo stati abituati da ragazzi, quando ancora si giocava per le strade, è veder emergere il talento. Che sia il talento la discriminante e non la capacità economica. Solo in questo modo si potrà tornare ad avere dei campionati elettrizzanti ed equilibrati fino alla fine, dando la possibilità di vincere a tutti.

    Certamente l’ultima Premier League è stata spettacolare, con un risultato incerto fino all’ultimo. Vorrei ricordare, però, che il City ha vinto a suon di milioni e la contendente (lo UTD) non era certo l’ultima arrivata. Ciò che è accaduto in Inghilterra quest’anno è stato sorprendente, ma c’è chi fa di meglio. Se guardiamo i campionati degli ultimi 40 anni, le statistiche parlano chiaro. Il campionato nazionale in Gran Bretagna è stato vinto da 11 Club differenti. In Italia e in Germania da 9, mentre solo 7 squadre spagnole hanno vinto il campionato negli ultimi 4 decenni. In pratica, in Spagna una tifoseria gioisce ogni 6 anni. In America Latina la situazione è ben differente. Sono 16 in Argentina e 17 in Brasile infatti, le squadre che hanno vinto il campionato nazionale negli ultimi 40 anni e la maggior parte di questi club nel corso degli anni ha conosciuto la seconda e a volte la terza divisione.

    Dunque la parola d’ordine è equilibrio, ma non solo economico. Al giorno d’oggi i grandi patrocinatori e gli introiti televisivi milionari sono arrivati ovunque, America Latina compresa. Spesso si vedono le maglie dei grandi Club piene zeppe di sponsor, ma l’emozione di una partita che non ha il risultato scontato, lì è ancora viva.

    Francesco sa bene tutto ciò, e per questo ha voluto scrivere questo libro, rivolto agli appassionati e agli storici del calcio che, sicuramente, ne sanno più di lui e del sottoscritto messi insieme. Anche chi ha seguito fin dall’inizio il calcio solo nella caverna via cavo può, grazie a questo libro, avere degli spunti di riflessione interessanti e scoprire cose nuove. Francesco non ci parla di ombre, ma di uomini, uomini che hanno fatto il calcio. Dopo aver letto questo libro non avremo paura di uscire dalla nostra caverna e convinceremo i nostri amici a leggere ciò che Francesco ha elaborato per noi.

    E’ il mito della caverna. Elaborato da Platone migliaia di anni fa per parlare dell’ingiusto processo subito da Socrate.

    Adesso che Socrates non c’è più, invito tutti a non rimanere incatenati al mondo dell’opinione e ad uscire dalla caverna.

    Buona lettura,

    Stefano Paolini

    Introduzione alla lettura

    Scrivere un libro, per un autore occasionale, è come approcciare a un esame universitario senza avere la benché minima base per affrontarlo. Oltre alle idee che ciascuno di noi può e deve possedere, l’attività necessita di una mole di tempo che un soggetto plurimpegnato come il sottoscritto trova la sera, spesso la notte, con le conseguenti difficoltà al risveglio mattutino prima di recarsi come di consueto in ufficio. Una volta iniziato, si è più volte sul punto di interrompere il manoscritto, stretti in una morsa dal sonno travolgente e dalle temporanee perdite d’ispirazione. Sono i momenti in cui emergono passione e motivazione, nell’esercizio di un’arte che potrebbe ripagare lo scrittore con l’apprezzamento dei lettori e non solo con l’orgoglio di aver portato a termine un’opera del tutto personale.

    L’idea di scrivere un libro sul calcio, anche se non tratta esclusivamente la materia sportiva, nasce dalle centinaia di articoli prodotti per il blog personale, pubblicati su portali specializzati o semplicemente riposti in un cassetto, per la gioia di esprimere un pensiero o un’opinione personale. Più in generale, è la smisurata passione per questo sport, tale da rasentare la malattia, a convincermi del fatto che l’unico antibiotico possibile per guarire è l’illustrazione dei fatti calcistici. Domandandomi il perché non fosse possibile organizzare questi appunti in un unico testo, emerge così la volontà di offrire vecchi articoli, adattarli al mutamento dei tempi, rielaborarli e implementarli con nuove tematiche. Questa è la genesi della bizzarria di procedere alla stesura del manoscritto, che assume un significato solo dopo aver catalogato gli appunti in differenti aree.

    I capitoli in cui si articola il libro, intendono rappresentare gli elementi che considero il motore del gioco più popolare al mondo. In primis il gesto tecnico, espressione dell’abilità individuale nel decidere le sorti di una partita entusiasmando il pubblico, proseguendo con il ruolo chiave dell’allenatore, senza far mancare un elogio alla fantasia del numero 10, ripercorrendo le reti più significative della storia del calcio e proponendo un’appassionata descrizione della partita che, per nessuna ragione al mondo, potrei perdermi. Procedo successivamente all’illustrazione dei principali sacrari del calcio, impianti che portano in dote innumerevoli memorie sportive, mentre non è possibile non mettere sotto la lente d’ingrandimento la crisi del gioco nostrano e un dilettantismo giovanile sempre più esasperato. Quando il fútbol sconfina nella tragedia, sfocia poi nel dramma: è questo l’ultimo capitolo dell’opera, prima della gustosa appendice finale.

    Futbolario è sicuramente un libro sul calcio, ma non di storia del calcio. E’ piuttosto una rilettura, tramite episodi calcistici che ritengo salienti, della storia contemporanea e dell’evoluzione del nostro corpo sociale. In poche parole, un compendio di calcio e di vita, in cui emerge a più riprese la visione dello sport come spaccato della società in cui viviamo, in un costante parallelismo tra accadimenti sportivi e storico-politici. Per i più, il gioco del calcio dell’era moderna coincide con il mondo patinato dello show-business, con divergenti valutazioni tra chi ne decanta le lodi e chi lo disprezza a tal punto da ripudiarlo. In queste pagine, proverò a indirizzare il punto di vista del lettore sul significato autentico del gioco del pallone, il più democratico degli sport, dove tutti partono alla pari, in cui a vincere non è sempre il migliore in campo, ma nemmeno il più ricco e aristocratico.

    L’origine del gesto tecnico

    Quando si è giovani e alle prese con l’esercizio del pallone, una delle cose più divertenti e stimolanti è la simulazione di azioni e movenze tipiche di calciatori famosi, apprese tramite la televisione e, da qualche anno a questa parte, sui principali motori di ricerca per video in internet. Eseguita in maniera ordinata, naturale oppure goffa, la ripetizione del gesto tecnico ci fa sentire per un attimo campioni affermati, giocolieri raffinati, attori principali di uno sport sempre proteso alla ricerca di nuovi interpreti. In poche parole voliamo con la fantasia, smettere di farlo significherebbe invecchiare.

    I mass media pronti a spettacolarizzare ogni singolo movimento, anche il più banale, enfatizzano il tutto con la produzione di neologismi urlati a squarciagola. Spesso la loro memoria si ferma agli interpreti del calcio moderno, dimenticando le origini di gesta che risalgono ai tempi in cui la televisione non dominava i terreni di gioco. Questo capitolo ha l’obiettivo di restituire la paternità di reti al limite dell’incredibile, movimenti impossibili e terminologie finite nel dimenticatoio.

    Il calcio moderno, che offre alle squadre asfissiate dai ritmi di gioco ossessivi zone di campo sempre più ridotte, impone lo sfruttamento delle palle inattive. Situazione che ogni allenatore, me compreso, intende far fruttare al meglio è quella del calcio d’angolo. Schemi disegnati alla lavagna e testati per ore in allenamento possono essere cancellati in un colpo solo, quando la parabola disegnata dal giocatore calciante s’inarca fino ad assumere un effetto strano, sino a depositarsi in rete senza la benché minima deviazione di un compagno, avversario oppure arbitro. E’ il gol olimpico.

    Corre l’anno 1924 e la IFAB, organismo deputato alle modifiche regolamentari, autorizza il gol diretto dalla bandierina. Ne approfitta della situazione il britannico Billy Alston, che sigla la prima rete della specie il 21 agosto dello stesso anno, nell’anonimato generale. E’ un gesto tecnico di estrema difficoltà che richiede grande perizia nell’accarezzare il pallone, con l’interno collo del piede e, per avere una maggiore risonanza, necessita di essere eseguito in un incontro di cartello.

    Ne è ben consapevole l’esterno sinistro dell’Atlético Hurácan e della nazionale albiceleste, il giovane Cesáreo Onzari, che sente di avere questo colpo in canna. Per poterlo eseguire attende una partita che gli argentini sentono particolarmente, ovvero l’amichevole del 2 ottobre 1924 contro i rivali dell’Uruguay, freschi vincitori dell’Olimpiade di Parigi. In pratica la squadra più forte del pianeta, quando i mondiali ancora non esistevano.

    Si gioca sul terreno dello Sportivo Barracas e la partita è molto spigolosa. Il risultato finale sarà di 2-1 per i padroni di casa, ma poco importa. Ciò che gli storici ricordano di quella partita è l’episodio che avviene al 15’ di gioco, quando sulla bandierina si presenta Onzari, per calciare un pallone che i più si aspettano corto sul primo palo o lungo sul secondo. Tra lo stupore degli increduli avversari ne esce un disegno perfetto, una traiettoria che si alza pian piano per poi scendere sino a depositarsi nella rete, senza che nemmeno un soffio di vento abbia sospinto la sfera. Di quell’esecuzione rimane solo un’istantanea in bianco e nero, ma non vi sono dubbi sul fatto che sia andata così. Cesáreo Onzari segna il primo gol olimpico, che mai sarà siglato in un’Olimpiade ma solo in un’edizione dei Mondiali. E’ il 1962 ad Arica, nel Cile settentrionale: il colombiano Marcos Coll mette in ginocchio sua maestà Lev Yashin.

    Alzi la mano chi, anche solo per una volta, non ha mai aperto un pacchetto di figurine dei calciatori della serie A italiana. Forse lo avete solo accarezzato, rubato o semplicemente visto, rapiti da quel logo che vi compare dalla metà dagli anni ‘60. L’Italia vanta importanti interpreti del gesto tecnico della rovesciata, da Riva ad Anastasi, ma prima di loro a eseguirla è il difensore juventino Carlo Parola, quello immortalato dalle figurine appunto. Un movimento perfetto, che nella specifica situazione ha l’obiettivo di liberare l’area dagli attacchi avversari, giunto nel paese di Garibaldi nell’immediato dopoguerra.

    La storia del calcio, che dovremmo imparare a leggere su scala planetaria e non semplicemente nel nostro amato orticello, ci insegna che la prima sforbiciata risale al 1914 per opera di Ramón Unzaga. Sul campo del porto cileno di Talcahuano con il corpo sospeso nell’aria, di spalle al suolo, le gambe lanciavano il pallone all’indietro nel repentino andirivieni delle lame di una forbice¹. Il gesto atletico si rivela al mondo con l’appellativo di chilena solo qualche anno dopo, nel 1927.

    La squadra del Colo Colo, fondata appena due anni prima, si trova in Spagna per un ciclo di amichevoli. Il suo leader è David Arellano, un’ala sinistra consacratasi al recente Sudamericano dopo aver segnato 7 reti, giocatore di tecnica squisita e dalle ottime prospettive. Il venticinquenne incanta il pubblico con questo gesto sconosciuto agli europei, mentre la stampa spagnola si affretta a identificare tale meraviglia con la nazionalità del giocatore.

    Il pallone alto, il corpo che spinto dall’irrazionalità si solleva nel cercarne il contatto, le gambe che in maniera fulminea, ma elegante, sforbiciano la sfera cercando di sorprendere il portiere avversario. E con ciò stupire il pubblico, esaltare le folle oppure deprimerle, riportare il calcio a una dimensione puramente estetica, ma anche librare l’animo alla ricerca dell’extraterreno. La rovesciata è uno dei movimenti più difficili, se non il più difficoltoso, dicotomizza i bravi e gli scarsoni, i predestinati e i senza futuro. Il perfetto esecutore della chilena è un superbo folle, consapevole dei propri mezzi, che sfodera il colpo quando lo ritiene opportuno e senza preoccuparsi di ciò che potrebbe scaturire da una pessima esecuzione.

    L’eroe che inventa la rovesciata entra nella mitologia del calcio ed esce da tutti i campi di gioco lo stesso anno. Nella sfida contro il Valladolid cade in un contrasto e, colpito da peritonite, muore in ospedale. La sua squadra gli intitolerà il proprio stadio e non poteva essere altrimenti. Nel testamento non scritto, Arellano lascerà in donazione al gioco del pallone il suo gesto, con la precisa condizione che non venga abusato da interpreti dell’ultim’ora.

    A evolvere ulteriormente il movimento, sino a renderlo una bicicleta, ci penserà il brasiliano Leônidas, il diamante nero destinato a diventare una leggenda del San Paolo, l’autore di gol talmente belli che persino il portiere avversario si rialzava per congratularsi². Un altro brasiliano, Rivaldo, renderà il gesto sublime: la rovesciata che all’ultima giornata della Liga Spagnola 2000/01 schianta il Valencia è l’emblema della perfezione artistica.

    Nelle semifinali dell’Europeo 2000 disputato in Olanda e Belgio, la lotteria dei calci di rigore riserva agli occhi degli appassionati una piacevole sorpresa. Dopo 120 minuti di autentica sofferenza catenacciara, che contraddistingue dal dopoguerra la nazionale in maglia azzurra, la competizione calcistica attende ancora di conoscere chi, tra Italia e Olanda, accederà alla finalissima. Le imprecisioni dei tulipani dal dischetto aprono la strada alla morbida esecuzione di Francesco Totti, che mette a sedere il lungo portiere Van der Sar con un delizioso scavetto. In Italia nasce il mito del cucchiaio. La mania del rigore alla Totti imperversa in tutto lo Stivale, acquisendo nel giro di pochissimo tempo una folta schiera di imitatori. Solo qualche storico del calcio, dall’alto della propria obiettività, ricordava però le vere origini del gesto.

    L’anno è il 1976, in Italia impazza il terrorismo, Seveso è devastata dalla diossina e il Friuli distrutto dal terremoto. Nasce Francesco Totti e il rigore alla Panenka, dal nome del suo inventore. Ma andiamo con ordine.

    Nel nefasto ‘76 che vede morire il monumentale Mao Tse Tung si giocano anche i campionati europei di calcio, che dopo un’intensa fase eliminatoria giungono alle finali disputate nella Jugoslavia del socialismo autogestito. Le semifinali premiano la tenacia e la preparazione atletica di Germania Ovest e Cecoslovacchia, capaci di sconfiggere rispettivamente i padroni di casa e l’Olanda totale dopo i tempi supplementari. Lo scenario che si apre è quello di una finale dall’esito scontato, considerata la levatura dei teutoni capitanati da Kaiser Franz Beckembauer. I cecoslovacchi sono un collettivo ben amalgamato, ma che sulla carta non sembra reggere il confronto con la prestanza di Vogts, i calci piazzati di Bonhof e la fame di gol di Dieter Müller.

    Contro ogni pronostico, sospinti dall’entusiasmo di uno sparuto gruppo di sostenitori, i ragazzi di Jezek passano rapidamente in vantaggio per 2-0 e lo mantengono per un po’, grazie soprattutto alle prodezze del portiere Ivo Viktor. Poi i tedeschi dimostrano per l’ennesima volta di avere sette vite, accorciando le distanze e pareggiando in chiusura con Hölzenbein, mostrando finalmente la prima sfida a calci di rigore decisiva nella storia delle competizioni ufficiali per nazioni.

    Gli undici metri che separano il dischetto dalla porta assumono i gradi di una tesi di laurea per un calciatore. Come lo studente modello deve dimostrare di saper arrivare a conclusione del percorso universitario, con un elaborato adeguato alla media voti e corredato da un’ottima esposizione, il rigorista deve mostrare qualità che trascendono da un mero discorso tecnico. La freddezza nel controllare le naturali emozioni, la lucidità nel leggere i movimenti del portiere, l’abilità squisitamente balistica nel calciare la sfera: queste sono le caratteristiche del perfetto uomo dei rigori.

    Ne sa qualcosa Uli Hoeness, giovane attaccante del Bayern Monaco e prolifico come pochi, che dopo una partita di sacrificio spara altissimo sugli spalti del Marakana. Sul dischetto si presenta quindi il baffuto Panenka, centrocampista di ventotto anni che milita orgogliosamente nel Bohemians Praga, una squadra che vivacchia tra la Prima e la Seconda divisione Cecoslovacca. Un giocatore tecnico, ma di cui si conosce poco, complice una cortina di ferro che separa capitalismo e socialismo reale. La rincorsa del cecoslovacco è lunga e lascia presagire una soluzione di potenza, egli giunge veloce al pallone fermandosi bruscamente davanti a questo, accarezzandolo col piede destro e depositandolo morbidamente in fondo al sacco. Sepp Maier steso al suolo vede il pallone entrare lentamente al centro della porta, beffato e deluso da un calcio di rigore mai visto sino

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