101 gol che hanno fatto grande la Juventus
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Con una prosa fluida e appassionata come una radiocronaca, Renato Tavella ci racconta tutta la storia della Juve in 101 momenti magici, fatti di gol e di fuoriclasse indimenticabili del calcio italiano. 101 coinvolgenti narrazioni, agili e documentate, che legate tra loro fanno rivivere la straordinaria storia della Juve dalla fondazione ai giorni nostri.
Renato Tavella
nato a Torino e supporter bianconero DOC, dopo le giovanili esperienze calcistiche nella Juventus si è dedicato al giornalismo sportivo. Ha pubblicato vari libri, tra cui Un uomo, un giocatore, un mito: Valentino Mazzola e i testi per l’infanzia Nel Paese di Giocapalla e Sei favole e una torta. Per la Newton Compton ha scritto Nasce un mito: Juventus!, Il romanzo della grande Juventus, Dizionario della grande Juventus, Il Libro nero del calcio italiano e, insieme a Franco Ossola, Il romanzo del grande Torino (libro che ha ispirato la fiction televisiva RAI del 2005, Premio Selezione Bancarella Sport e Premio CONI), Cento anni di calcio italiano (Premio Selezione Bancarella Sport e Premio Paladino d’oro della città di Palermo) e 101 gol che hanno fatto grande la Juventus.
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101 gol che hanno fatto grande la Juventus - Renato Tavella
1. Quel bisonte di Forlano
Il gol numero uno della storia juventina si perde in una gigantesca nebulosa. Un po’ come la data esatta della nascita della società che la tradizione pubblicistica fa risalire al primo novembre 1897, senza però fornire un preciso riscontro del giorno e del mese. Finora, infatti, nessun documento credibile, né attendibili narrazioni, sanciscono con chiarezza l’istante in cui, sia ringraziato il cielo, viene ufficialmente alla luce la nostra cara e amata Juventus.
Ovviamente anche per quanto riguarda i gol numero due, tre, quattro... i primissimi per intendersi, non è stata tramandata alcuna informazione. Neppure immaginifica. Di una cosa comunque siamo stati messi al corrente: gli illuminati fondatori, per spedire il pallone al di là della linea di porta, dovevano compiere delle autentiche faticacce, come si evince da questa ironica filastrocca da loro composta:
Dare i calci avanti indietro
sì così così così
sbagliar gol di un solo metro
sì così così così ...
Canticchiano divertiti i nostri pionieri, artefici di un football che sta vivendo la sua alba. Intanto, in estate come in inverno, continuano a presentarsi sul prato gibboso della piazza d’Armi, seguitando con impegno a correre, sudare e affinarsi nel gioco. Così un anno dopo l’altro, fino a quando possono dire, finalmente, che la loro filastrocca non è più attuale, è divenuta una canzoncina stonata. Adesso, con gol a ripetizione, ormai da un paio di stagioni la Juve sfiora la vetta della classifica, seconda solo alla tirannia del Genoa, che dei sette campionati fin qui disputati ne ha vinti ben sei.
Stretti alla difesa davanti ai baffi vaporosi di Durante, un portiere tracagnotto che scaccia i pericoli dando dei gran cazzottoni al pallone, i bianconeri sono soliti ripartire all’attacco con l’improvvisazione dei vari Barberis, Varetti, Squire o con la furbizia del piccolo e sgusciante Domenico Donna. Ma in particolare si affidano alle avventurose sortite in slancio di Luigi Forlano. Il bomber. Un bisonte lunatico e mattacchione, che parla e discute continuamente con avversari, compagni e pubblico. Un omone che certe notti è costretto dormire sul pianerottolo di casa, perché il fratello più vecchio gli sbarra l’uscio, stufo di sentirsi batter cassa per il football e la Juventus. La mattina presto però gli amici juventini corrono a soccorrerlo, lo svegliano dal torpore e gli offrono la colazione. Solo in questo modo riesce loro di convincerlo a salire sul treno con una speranza nel cuore: che anche quel giorno Forlano sia... di luna, perché quando è in giornata mezza vittoria è già in saccoccia. E così si racconta che sul campo di Ponte Carrega, sull’invincibile terreno del Genoa, l’irruenza del bomber si impone: Forlano irrompe irresistibile tra le maglie avversarie e di forza sigla il gol del pareggio, quello che spiana la strada al primo scudetto juventino.
Corre l’anno di grazia 1905. Poco più di sette stagioni calcistiche sono trascorse dal giorno della fondazione, ed è già gloria.
Luigi Forlano.
2. Pio di nome, satanasso per i portieri
Pio Ferraris s’innamora del football e della Juventus grazie al fratello Alfredo, socio-giocatore e capitano della squadra bianconera intorno al 1910. Ma a differenza di quest’ultimo, portato a disimpegnarsi nella seconda metà del campo come mediano o mezzala, Pio predilige giocare in attacco. È in questo ruolo che più si diverte e riesce a dare il meglio di sé, segnando caterve di gol. Tra lui e Valerio Bona è una bella lotta nella corsa a chi segna più punti, come amano dire al tempo. Anche Bona, infatti, è un indiscusso goleador, tanto da essere soprannominato Zio Bomba
per i suoi tiri potenti, gli infallibili rigori e le valanghe di reti. Bona inoltre, nel piccolo mondo del calcio dell’epoca, è già un mito, un esempio a cui guardare per lealtà sportiva. In una delle ultime partite giocate prima dello scoppio della Grande Guerra, un incontro tra l’Unione Sportiva Milanese e la Juventus, ha infatti rinunciato a sfruttare un calcio di rigore concesso in suo favore, confessando all’arbitro di aver commesso un fallo di sfondamento e non di averlo subìto. Un bel gesto d’altri tempi, viene da commentare.
Terminato il conflitto mondiale e ripresa l’attività sportiva, Valerio Bona, ormai sul finire della carriera, cede definitivamente lo scettro di goleador juventino al più giovane Pio Ferraris. Il suo ritratto ci viene trasmesso da Vittorio Pozzo:
Era un rappresentante dell’antica stirpe, giocava per diletto, era funzionario di banca. Era entrato quattro volte nella Nazionale che potremmo chiamare «grande»: ai suoi tempi la squadra dei cadetti non esisteva ancora. Aveva preso parte alle tre partite giocate dalla squadra italiana alle Olimpiadi di Anversa, nel 1920, come centravanti ed ala destra. Ritornò ancora con la Nazionale, in Belgio, l’anno seguente. Si era al termine della partita, le squadre erano in parità, quando dalle gradinate partì un insulto, gridato a gran voce contro di noi: Voilà les macaronis! Per Pio Ferraris quella fu come una sferzata: si impadronì della palla a metà campo, partì come un proiettile, evitò ogni ostacolo ed andò a piombare nella rete belga, sfera al piede. La partita era vinta.
A costo di spezzarsi le gambe, sconvolge le difese con la sua irruenza, Pio Ferraris. Tutto fuoco attacca sempre, l’animo pugnace. Mitico nelle stagioni dal 1919 al 1923. Il suo bilancio juventino indica infine 38 gol segnati di forza in 66 partite. A cui bisogna aggiungere la storica rete ottenuta in azzurro contro il Belgio, sul campo ostile di Anversa.
Conclusa la carriera sportiva, il ragioniere Pio Ferraris entra a far parte del Consiglio direttivo juventino voluto dal neo presidente Edoardo Agnelli. È la Juve della svolta. Da adesso la società innesta un’andatura inarrestabile e va incontro alla modernità e ai trionfi.
3. Carlino costruisce, la Gazzella
fa gol
A testimoniare il tempo eroico dei soci-giocatori disposti a finanziare la propria squadra, è rimasto il solo Carlo Bigatto, classe di ferro 1895 e da anni al servizio della maglia bianconera. Ormai tutti i suoi compagni di squadra vengono pagati profumatamente ma Carlino
, come viene chiamato, seguita a non volere compensi. Né mai prenderà un soldo. Gioca per passione e amore, il capitano, gentiluomo dal baffo ispido che accompagna la società nell’era del professionismo.
Sono lontani i tempi della goliardia che dal torinese Collegio San Giuseppe lo hanno condotto al Club bianconero. Centravanti agli inizi, mediano truce e sagace poi. In allenamento ha segnato tantissimi gol, ma mai uno in una gara ufficiale. Però non se ne fa un cruccio. Dopotutto, lui alla domenica non ha il tempo per concedersi un simile lusso, piuttosto deve fare in modo che i punti non li segnino gli avversari, e soprattutto deve contribuire a confezionarli per la propria Juve, cercando di servire con passaggi adeguati Hirzer.
Ferenc Hirzer viaggia alla media di almeno un gol a partita. E dopo ogni sgroppata che lo porta a concludere a rete, con noncuranza estrae dalla tasca un piccolo pettine e si permette una riordinata alla chioma. Le folle lo osservano ammirate. L’identica ammirazione che prova un Gianni Agnelli bambino, quando all’età di cinque anni il padre Edoardo lo porta con sé al campo di corso Marsiglia, per fargli conoscere la Juventus di Ferenc Hirzer, appunto.
Ungherese di Budapest, gioca di preferenza sulla parte sinistra, allargandosi all’ala, da dove ama far valere le sue doti di scattista. Veloce e abile nel palleggio, nel dribbling, è dotato di un tiro potente e preciso. In altre parole, è il primo vero fuoriclasse straniero venuto a giocare in Italia. Taglia con le sue rasoiate il campo e va a incidere, con particolarità chirurgica, nelle difese avversarie. I tifosi gongolano. La sua capigliatura rosseggiante volteggia sul prato. La testa alta del campione di razza, il tiro saettante e improvviso, il gol come naturale conseguenza. La Gazzella
hanno preso a chiamarlo, per come si muove nella corsa lineare e potente, volando a pelo sull’erba. In verità, vola l’intera squadra in questa stagione esaltante della conquista del secondo scudetto. Ne sa qualcosa l’Alba di Roma, che nelle due partite di finalissima becca in totale 12 gol, tre dei quali recano la firma di Hirzer, la Gazzella
.
Il suo gol più bello, nonché determinante, si racconta sia il secondo dei due segnati in una partita delle finali per il campionato: Bologna-Juventus, terminata 2-2: «L’ungherese va via in combinata con Torriani e sull’ultimo passaggio dell’ala, pur essendo spostato sulla sinistra, coglie con un diagonale fulmineo l’angolo opposto. Un diavolo per i bolognesi. Un padreterno per i torinesi».
Per il mutato regolamento, che vieta la partecipazione degli stranieri al campionato, la Gazzella
alla fine della stagione lascia l’Italia. Ancora una volta il mondo sta cambiando, nella nostra penisola il fascismo si è impadronito anche del football.
4. Gol, di un centravanti-attore
A condividere con Hirzer l’abitudine di segnare gol a grappoli è un centravanti-attore di nome Pietro Pastore. Un ventitreenne padovano che in quanto a fascino e bellezza latina non si sente inferiore a Rodolfo Valentino. In effetti, la somiglianza con l’idolo di Castellaneta, stella del cinema muto acclamata nel mondo, è davvero stupefacente. Volto da bel tenebroso, capelli scuri e fisico atletico, Pietro Pastore ha movenze accattivanti ancora rivolte, per il momento, al solo gioco del calcio, di cui è un interprete popolare tra i tifosi per via dei suoi tiri prepotenti e dei gol improvvisi. Infatti, per eterni quarti d’ora, ama stazionare quasi assente al limite dell’area. Ma appena intravede l’occasione, la rete è sicura.
Uno dei suoi micidiali gol è ricordato in modo particolare, poiché ha aperto la porta al secondo scudetto juventino sul difficilissimo campo della Pro Vercelli. La mitica Pro dalle bianche casacche, squadra sempre battagliera, vessillifera, avendo già conquistato sette tricolori, l’ultimo dei quali appena tre anni prima.
Pro Vercelli-Juventus, dunque, domenica 15 novembre 1925. La proverbiale grinta che sono capaci di gettare in campo le bianche casacche mette subito alla frusta i bianconeri, guidati da mister Karolj. In più il pubblico urla imbestialito, scagliandosi particolarmente contro il figlio degenere Virginio Rosetta, che ha lasciato la Pro per andare alla Juve in cambio di soldi, diventando di fatto il primo giocatore italiano professionista. Un gesto imperdonabile, a Vercelli, dove la società continua a essere dilettantistica e non dà una lira ad alcun tesserato, neanche come rimborso per un viaggio in tram.
Pietro Pastore.
Nonostante tutto ciò, i professionisti juventini non ne fanno un dramma. Ribattono colpo su colpo e sul finire del primo tempo sfiorano il gol con Pastore, che ben servito da Hirzer spedisce fuori di poco. La prima frazione di gioco finisce sullo 0-0 ma durante la seconda parte Pastore si riscatta: dopo appena sei minuti raccoglie il solito invito di Hirzer e stavolta non sbaglia, con una botta travolgente fa scuotere la rete ed è 1-0 per la Juve. A nulla serve l’arrembaggio vercellese, la partita si conclude con la vittoria bianconera.
Non pago dei successi calcistici, Pastore nel 1927 lascia la Juventus per il Milan e si avvicina al mondo della celluloide, il suo sogno. Dividendosi tra football e cinema tenta la strada del sosia di Rodolfo Valentino, debuttando come attore nel 1928 nel film La leggenda di Wally. Quindi si cimenta in altre interpretazioni, partecipando anche al cast di Vacanze romane, con Gregory Peck e Audrey Hepburn. Ma a me, senza nulla togliere alle sue qualità di attore, piace ricordarlo per i suoi 55 gol, segnati in bianconero in 67 presenze autoritarie.
5. Tante grazie, Zoccola
Da quando calcio è calcio, chi si rende responsabile di un autogol è uno sciagurato. Tutte le giustificazioni portate in soccorso al malcapitato, tese a chiamare in causa un ipotetico fatto di sfortuna, magari anche evidente, in fondo sono soltanto balle. Nessuno ci crede. Nell’intimo ogni tifoso, in quei momenti, si sente frustrato e si infuria; trancia il traditore con ingiurie inesprimibili, mentre i beneficiari dell’inaspettato regalo se la ridono con beffarda esaltazione.
La lista dei goleador al contrario è davvero lunga. In un secolo e oltre di storia del calcio italiano si distingue senz’altro Comunardo Nicolai, inarrivabile per la sua precisione millimetrica nell’infilare la propria porta, quasi con colpi di alta scuola. Al suo attivo, sei autentiche magie, che peraltro non gli sono bastate per salire in vetta a questa speciale graduatoria, che vede solitario in classifica Riccardo Ferri con ben otto perle, seguìto da Francesco Morini e Sergio Santarini con sette, mentre a pari merito con Comunardo troviamo i nomi prestigiosi di Armando Picchi, Giacinto Facchetti e Sandro Salvadore.
Padre di tutti gli sfortunati è Biagio Zoccola. Mediano del Napoli che non risulta essere mai stato etichettato con un soprannome, bastando evidentemente il cognome originale per distinguerlo. C’è addirittura chi giura che tra il pubblico napoletano, al sentirlo nominare, più di un tifoso si portasse d’istinto una mano tra le gambe, per scongiurare all’istante la sfortuna portata da quel cognome che, oltre a portare male, attirava gli sfottò. Figuriamoci poi le reazioni il giorno in cui Zoccola, nell’attesissima partita contro la Juve, commette l’autorete e si aggiudica il record di primo sciagurato e traditore della storia.
In realtà è solo l’ultimo di una lunga lista di scarponi, ma la sua disdetta è che il conteggio per gli almanacchi futuri inizia da questo giorno, da quando cioè, finita l’epoca degli estenuanti gironi eliminatori, il campionato si gioca a girone unico. Finalmente un campionato che può dirsi per davvero nazionale.
È il 6 ottobre 1929. Prima giornata del torneo 1929-30. Pubblico numeroso ed elegante sulle tribune del Campo Juventus di corso Marsiglia. Squadre in campo. Fischio dell’arbitro e incomincia il titic e titoc da parte dei bianconeri. Una ragnatela di passaggi di studio, prima di affondare un attacco con Cevenini III, detto Zizi
per la lingua pungente. Un tipo bizzarro, che in campo disegna arabeschi a dispetto del gioco duro del tempo. E Zizi
in maniera sublime dribbla secco e se ne va, involandosi al tiro. Il povero Zoccola, generoso ma nella