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Forse non tutti sanno che la grande Inter
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E-book372 pagine4 ore

Forse non tutti sanno che la grande Inter

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, aneddoti storici e fatti sconosciuti della grande beneamata

Tutto ciò che deve sapere un vero tifoso della squadra nerazzurra

Memorie nascoste che riemergono dal passato, primati difficilmente trapelati dagli archivi, aneddoti e curiosità tratti dalla vita quotidiana. Sono questi gli ingredienti che si mescolano in questa raccolta di storie che aiuta a colmare alcuni vuoti nei cuori dei tifosi. Forse non tutti sanno che la grande Inter… restituisce un affresco molteplice e vivace dell’ultracentenaria epopea nerazzurra, descrivendo statistiche poco note, episodi legati a personaggi celebri, vicende estrapolate dalle cronache, particolari interessanti e cenni di costume. Insomma, l’universo interista emerge nelle sue sfaccettature più variegate, invitando il vero tifoso a scoprire davvero il proprio grado di “interismo”.

Forse non tutti sanno che la grande Inter...

...ebbe alcuni giocatori che stipularono il Patto dell’Asado
...disputò una partita di beneficenza per gli alluvionati del Polesine
...è l’unica squadra ad aver battuto il Real Madrid in finale di coppa dei campioni
... Detiene il record per aver schierato undici giocatori di nazionalità diversa
...era chiusa in ritiro mentre Helenio Herrera era a ballare
...è stata la prima squadra ad avere un sito internet
Vito Galasso
è giornalista pubblicista e scrittore. Con la Newton Compton ha pubblicato 1001 storie e curiosità sulla grande Inter che dovresti conoscere, I campioni che hanno fatto grande l’Inter e L’Inter dalla A alla Z. Tutto quello che devi sapere sul mito nerazzurro e Il romanzo della grande Inter.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2017
ISBN9788822713377
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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che la grande Inter - Vito Galasso

    ANEDDOTI

    immagine

    Ernesto Pellegrini consegna a Peppino Prisco una targa di dirigente fazioso

    Di lodi al merito l’avvocato Peppino Prisco se ne intende: da giovane, come ufficiale degli alpini, ricevette la medaglia d’argento e la croce di ferro germanica al valore militare. Nell’ottobre del 1985 il presidente dell’Inter, Ernesto Pellegrini, gli consegna un’onorificenza in oro per i suoi 35 anni di appassionata e faziosa attività dirigenziale. Era, infatti, il 1950 quando divenne consigliere dei nerazzurri, anche se ancor prima fu socio semplice e segretario. Nel corso di anni di esemplare devozione, si mette in mostra per la strenua difesa delle disfatte interiste, la lingua pungente e la salace critica nei confronti degli avversari. Su tutti, Milan e Juventus. Come non ricordare il suo pronostico sulla sfida tra le due nemiche: «Spero perdano entrambe». Oppure: «Io sono contro ogni forma di razzismo, ma mia figlia in sposa a un giocatore del Milan non la darei mai».

    In questa serata speciale, realizzata in suo onore per donargli il premio, tanti giocatori, tecnici e giornalisti accorrono a Milano per rendergli omaggio e fargli i complimenti. E lui, il buon Peppino, arrossisce: «In verità, sentendo tanti elogi, mi è sembrato di assistere alle mie esequie. Era così bravo, il migliore di tutti… Quanti necrologi! Ho 64 anni, ma mi auguro di potere ancora resistere a lungo nella mia attività di dirigente fazioso, anche se ogni tanto mi viene la voglia di fare finalmente la persona seria e di vivere le partite in tribuna come uno qualunque. Però non è facile dopo avere dedicato tanti anni a questa passione».

    Muore il 12 dicembre 2001, due giorni dopo il suo ottantesimo compleanno, portando con sé 6 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 3 Coppe uefa, 2 Coppe Italia, 1 Supercoppa Italiana e un amore incondizionato per l’Inter e la sua famiglia.

    Giuseppe Meazza e il vizio delle scommesse con i portieri

    Dall’alto della sua sfacciata presunzione, Giuseppe Meazza ha un vizio particolare: sfidare i portieri avversari. Non a caso fu coniata l’espressione gol a invito per definire il modo in cui segna. Per i milanesi il Balilla «l’è vun ch’el gha la bala legada al pé cun la curdeta»: è uno che tiene la palla legata al piede con la corda. Infatti, parte in un’azione personale seminando gli avversari come fossero coriandoli, si presenta davanti all’estremo difensore, lo spinge ad uscire dai pali per poi scartarlo e infilare il pallone in rete. Ne sa qualcosa il portiere della Roma Bruno Ballante, che il 27 aprile 1930 subisce tre reti nei primi minuti di gioco da parte del funambolico centrattacco milanese. Quando sta per raggiungere la porta per la quarta volta, il giallorosso si rifiuta di uscire. Tuttavia Meazza segna lo stesso. Proprio mentre l’autore del poker si sta dirigendo a metà campo, il portiere gli corre dietro e gli dice: «Questa volta non sono uscito». Con annesso gesto dell’ombrello.

    Sommerso dalla rabbia e dalla disperazione anche il guardapali del Novara, tal Gaviorno che, in occasione della semifinale del trofeo Lombardi e Macchi, dopo aver subìto otto reti di cui due da Peppin, esclama: «Questo Meazza non è un centravanti, è un demonio!».

    Nel corso della stagione 1932-33, mentre si sta allenando con la Nazionale, il compagno di squadra e portiere della Juventus, Gianpiero Combi, rimane stupefatto quando lo vede realizzare una splendida rovesciata al volo. Si volta verso di lui e scommette che non sarebbe stato in grado di ripetere il gesto atletico in una gara ufficiale contro la sua formazione. Così il 25 maggio 1933, in una sfida tra nerazzurri e bianconeri all’Arena Civica di Milano, Meazza si inventa una capriola che annichilisce i difensori Rosetta e Caligaris e lo stesso Combi. La rovesciata è identica a quella effettuata dieci giorni prima con la maglia azzurra.

    Questi sono solo alcuni episodi che raccontano la perfidia e il cinismo di un attaccante che ha segnato un’epoca a suon di gol, permettendosi il lusso di giocarsi cene, automobili e vizi di ogni genere.

    I grandi esclusi dalla Nazionale

    A volte si diventa grandi, ma nessuno se ne accorge. O meglio, fanno finta di non accorgersene. La storia del calcio italiano è piena di delusioni, rimpianti e scelte spiazzanti. Basti guardare ai grandi esclusi dal giro della Nazionale, quei giocatori che per decisione tecnica o disciplinare hanno avuto vita difficile nel clan azzurro. Tra i primi epurati illustri spicca Leopoldo Conti, ala nerazzurra degli anni Venti. A diciassette anni il ragazzo è la stella della compagine uliciana Libera Ardita e si fa notare dai dirigenti dell’Enotria Goliardo, formazione milanese che partecipava al campionato figc, che lo chiedono in prestito per un torneo studentesco. Tuttavia, le impressionanti prestazioni di Poldino spingono il club a non restituirlo. Ne nasce una lunga diatriba che termina con il passaggio del giovane all’Enotria per la cifra record di 50 lire. La storia non finisce qui perché il passaparola porta in alto la figura di Conti, tant’è che viene letteralmente rapito da un gruppo di tifosi interisti, capeggiato dal giornalista Leone Boccali, e trascinato nella sede della Beneamata. Anche in questo caso scaturisce un braccio di ferro tra le due parti che si risolve con il passaggio di Conti all’Inter per 100 lire. Nel calcio d’antan, però, è vietato parlare di professionismo e soldi e per questo motivo viene escluso dalla Nazionale olimpica e squalificato per un anno. Con la maglia dell’Italia registrerà successivamente 31 presenze e 8 gol.

    Fulvio Bernardini, invece, è un eclettico centrosostegno che ha militato nella Lazio, nell’Inter e nella Roma. Nonostante fosse uno dei migliori calciatori in circolazione a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, il Dottor Fuffo conta solamente 26 presenze e 3 reti. Il motivo? Il commissario tecnico, Vittorio Pozzo, un giorno lo prende in disparte e gli confida: «Lei, Bernardini, gioca in maniera superiore, direi perfetta. I suoi compagni non arrivano alla sua concezione di gioco e si trovano in soggezione. Vogliamo che tutta la squadra sia in soggezione?». In parole povere, era troppo bravo per poter giocare. È come se il ct del Portogallo decidesse di far fuori Cristiano Ronaldo perché non regge il livello dei connazionali. Alla qualità dei piedi di Fulvio, Pozzo preferisce la quantità di uomini combattenti come Pietro Ferraris o Luis Monti per vincere i Mondiali del 1934 e del 1938. Bernardini, invece, si deve accontentare di un bronzo olimpico conquistato ad Amsterdam nel 1928 e una Coppa Internazionale nell’edizione 1927-30.

    Stessa sorte per Mario Corso, colui che proprio con la maglia della Nazionale conquista il nomignolo Piede sinistro di Dio. Dal suo debutto, avvenuto il 15 ottobre 1961 contro l’Inghilterra, fino al 1971, anno che coincide con la sua ultima gara, conteggia solamente 23 apparizioni e 4 gol. La sua esclusione è dovuta più che altro alla condotta. Nel 1962 il commissario tecnico, Giovanni Ferrari, lo esclude dalla lista dei 22 convocati in vista della spedizione al Mondiale cileno per scelta tecnica. A peggiorare i rapporti tra i due ci pensa un’amichevole allo stadio San Siro tra l’Inter e la Nazionale cecoslovacca. In quell’occasione, Mariolino segna una rete con il suo solito piede mancino e al termine dell’esultanza cerca con gli occhi proprio Ferrari, seduto in tribuna ad assistere al match, facendogli un manichetto. Questo gesto gli costa il posto per due anni, senza però tornare ad essere titolare fisso. Infatti, non viene convocato nemmeno al Mondiale del 1966 e all’Europeo del 1968.

    Un’altra eccellente esclusione è quella di Armando Picchi. Entra nel giro azzurro nel 1964, alle soglie dei trent’anni. Due anni più tardi, in occasione delle qualificazioni alla Coppa del Mondo che si sarebbe tenuta in Inghilterra, è protagonista di una polemica con Gianni Rivera. Quest’ultimo, a seguito di una deludente prestazione contro la Polonia, in un’intervista rilascia delle dichiarazioni critiche riguardo il modulo senza nerbo che vede il difensore nerazzurro sempre troppo rintanato all’indietro e mai partecipe attivo al gioco. Per Rivera i problemi sono l’immobilismo del catenaccio, che aveva fatto le fortune dell’Inter, e la mancanza di un sostegno sulla mediana. Al contrario, Picchi sostiene che a centrocampo servano più corsa e sacrificio. Tra i due fuochi, l’allenatore Edmondo Fabbri decide di punire per una gara il Golden boy, escluso contro la Finlandia, mentre Penna bianca viene fatto fuori dalla rassegna internazionale per dare spazio a uno stopper fluidificante come Sandro Salvadore. Le cose non andranno meglio e al Mondiale inglese l’Italia viene eliminata dalla sorprendente Corea del Nord.

    Armando torna in Nazionale con l’avvento di Valcareggi, ma anche in questo caso si tratta di un fuoco di paglia. Infatti, il 6 aprile 1968, nel corso del match di qualificazione al campionato europeo a Sofia contro la Bulgaria, subisce un ematoma con punta d’ernia e frattura del tubercolo del pube. Dopo solamente 12 presenze, quella è la sua ultima partecipazione in azzurro.

    Discorsi differenti per Benito Lorenzi e Giuliano Sarti. Il primo accumula solo 14 gare e 4 gol perché chiuso dagli uomini gloriosi del Grande Torino e per la sua idiosincrasia degli aerei, giustificabile dopo la tragedia di Superga. Il secondo, invece, compare 8 volte in quanto ha il complesso delle luci artificiali.

    E poi ci sono le storie degli oriundi Ermanno Aebi e Juan Valentín Angelillo, con appena 2 presenze, del toscanaccio Bertini, escluso dopo aver procurato un infortunio al perone al belga Wilfried Van Moer, dell’occhialuto Annibale Frossi (5 apparizioni), del granitico Gianfranco Bedin (6 comparse) e del vulcanico e polemico Mario Balotelli, ancora in attività e mai a pieno regime nel gruppo azzurro.

    Luis Suárez e la manata a un giornalista

    Sin dalla notte dei tempi i rapporti tra calciatori e cronisti non sono mai stati granché cordiali. A volte, infatti, il rispetto viene permeato da una carica di odio e nervosismo.

    Il 30 novembre 1963 l’Inter è in partenza dall’aeroporto di Linate per raggiungere Catania, dove il giorno seguente deve affrontare la formazione locale in una gara valida per la dodicesima giornata di campionato di serie a. Prima di prendere il volo, però, nel terminal avviene una lite tra il fantasista Luis Suárez e il direttore responsabile di un settimanale sportivo milanese, Bruno Slawitz. Il giornalista – che tutti conoscono come Don Ciccio – accenna un saluto allo spagnolo, il quale ricambia schiaffeggiandolo. Tra gli sguardi sbigottiti dei presenti, il giocatore decisamente irato farfuglia: «È ora di finirla. Da tempo avevo promesso che avrei fatto giustizia con chi ficca il naso nelle mie faccende private. Ora finalmente mi sono tolto questa soddisfazione. Ma non è finita qui!». Slawitz non si vendica con le mani, anche perché gli astanti intervengono per separare i due litiganti, si limita a riferirgli che l’avrebbe querelato per quel manrovescio.

    A far infuriare l’ispanico sono state le critiche ritenute inopportune sui suoi affari personali portate avanti dal giornale diretto da Slawitz. La questione non ha risvolti di carattere federale, in particolare Suárez non subisce alcun provvedimento disciplinare come paventato dagli organi di stampa del tempo. Il malessere tra i due si conclude nelle aule del tribunale. Per la cronaca, l’Inter vince 2-1 la gara contro gli etnei grazie alle reti di Giacinto Facchetti e Nicola Ciccolo.

    Carlo Ancelotti, il provino per l’Inter e la pancetta

    Gli sportivi conducono una vita regolata da un rigoroso regime alimentare e da esercizi volti a migliorare la parte atletica. Non tutti, però, sono ligi al dovere di mantenere una forma fisica impeccabile. È il caso del giovane Carlo Ancelotti, il quale sul finire degli anni Settanta si affaccia per la prima volta sui palcoscenici del calcio che conta. Dopo una buonissima stagione nelle fila del Parma, nell’estate del 1978 il presidente Ernesto Ceresini è costretto a metterlo in vendita per rimpinguare le casse societarie. Così lavora in prima persona affinché il diciannovenne trovi una sistemazione: la più gradita è l’Inter. L’occasione più propizia per vederlo all’opera in prova è il Torneo del Tirreno, competizione a carattere amichevole disputata tra Massa, Livorno, Lucca e Viareggio che coinvolge l’Inter di Eugenio Bersellini, l’Hertha di Berlino di Kuno Klötzer, il Lanerossi Vicenza di Giovan Battista Fabbri e la Fiorentina di Paolo Carosi.

    Ancelotti viene schierato nella semifinale contro i tedeschi in cui i nerazzurri vincono per 1-0 grazie a una rete all’89ʹ di Evaristo Beccalossi. A margine del match, il massimo dirigente dei ducali incontra il collega dei meneghini Ivanoe Fraizzoli per parlare dell’accordo economico tra le due controparti. Non se ne fa nulla poiché tra l’offerta e la domanda c’è una differenza di 200 milioni di lire. Inoltre, il patron nerazzurro si fa abbindolare dalle voci sul conto dell’integrità fisica delle gambe del centrocampista. Ceresini lo riporta a Parma mettendolo al servizio di Cesare Maldini, che però nota in lui una pancetta pronunciata che non si addice a un calciatore professionista. Tutta colpa del buon cibo che dispensano nel collegio dei salesiani, dove alloggia Carletto. Quindi, il tecnico s’impegna a metterlo a dieta e a tenere sotto controllo la perdita di peso. La ferrea presa di posizione ha i suoi effetti: Ancelotti dimagrisce e la sua squadra torna in b dopo aver battuto in uno spareggio promozione a Vicenza la Triestina. Ad assistere alla gara allo stadio Menti si presenta lo staff della Roma composto dal presidente Dino Viola, dal tecnico Nils Liedholm e dal direttore sportivo Luciano Moggi. Ancelotti segna una doppietta e i dirigenti capitolini fanno carte false per assicurarsi le sue prestazioni, sborsando 750 milioni per la metà del suo cartellino. Molto tempo più tardi, confessa il suo amore per i nerazzurri e la delusione per il grande rifiuto ricevuto dal presidente Fraizzoli: «Da ragazzo ero anche un tifoso dell’Inter, in particolare di Mazzola. Quando avevo 19 anni stavano per prendermi dal Parma, ma la cosa non si concretizzò. Ci rimasi molto male, anche se l’anno dopo passai alla Roma e iniziai a giocare in serie a».

    Massimo Moratti rischia di andare in collegio

    «L’Inter è un grande amore e una grande sofferenza. Anche la decisione di acquistarla è stata molto sofferta. Tanto è vero che in famiglia mi sono trovato con nessuno, proprio nessuno, che fosse d’accordo. L’ho acquistata lo stesso. Perché la ricchezza serve anche a questo: a comprare una passione». Con queste parole rilasciate in un’intervista a «L’Espresso», Massimo Moratti apre il suo cuore ai buoni sentimenti sottolineando la condizione di solitudine che dovette affrontare quando decise di prelevare la società meneghina dalle mani di Ernesto Pellegrini. Prima su tutti sua moglie Milly: «Mi aveva promesso che non lo avrebbe fatto. Lo aspettavo per cena, me lo ritrovai in televisione che annunciava l’acquisto».

    Massimo ha solamente 10 anni quando il padre Angelo prende le redini dell’Inter, nel momento in cui lascia ne ha compiuti 23 e, al fianco del fratello Gian Marco, guida già l’azienda di famiglia. Tutta la sua gioventù la vive con i colori nerazzurri tanto da lasciarsi contagiare da questo amore folle dei genitori. Riesce ad assistere da vicino ai grandi successi della formazione di Helenio Herrera, dagli scudetti alle Coppe dei Campioni fino alle Coppe Intercontinentali, e a conoscere fuoriclasse del calibro di Giacinto Facchetti, Sandro Mazzola, Mario Corso e Luisito Suárez.

    La sua testa è talmente soggiogata da questo passatempo da mettere in disparte tutto il resto, in primis lo studio. Un giorno un professore indirizza una lettera al padre in cui gli suggerisce di mandare il figlio in collegio perché troppo ossessionato dall’interismo. Papà Angelo non prende in considerazione il consiglio e la nasconde fino alla morte. E fa bene perché cresce un figlio diligente, lavoratore e con un grande spirito imprenditoriale. Con quell’impero che riesce a costruire nel corso degli anni, nel 1995 si concede il lusso di riappropriarsi della sua passione, portandola avanti fino al 15 novembre 2013, quando cede il 70 per cento del pacchetto azionario dell’Inter alla International Sports Capital (isc), società indonesiana indirettamente posseduta da Erick Thohir, Rosan Roeslani e Handy Soetedjo. Con amarezza si congeda, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore dei tifosi, che ancora non sono riusciti ad apprezzare appieno il lavoro degli asiatici.

    Il combattente Massimo sapeva sin dal principio che la sua esperienza da presidente non sarebbe stata per sempre e lo confida nei giorni dell’abbandono. «Abbiamo vinto tanto, ma prima c’è stata anche tanta sofferenza, perché abbiamo dovuto scavalcare le montagne. Nel 2011, dopo la Coppa Italia, ho pensato che fosse venuto il momento di fare un passo laterale, di trovare nuove soluzioni per il club. Ho cercato una soluzione che ci aprisse nuovi mercati. È stato giusto farlo. Non ho mai pensato di essere presidente dell’Inter a vita».

    Si perde una partita per colpa di una 100 lire

    Il 14 gennaio 1968 va in scena la quindicesima giornata del campionato di serie a. Allo stadio San Siro di Milano si affrontano l’Inter di Helenio Herrera e il Cagliari di Héctor Puricelli. Una normalissima partita tra due squadre che non hanno nulla da dire: i lombardi, ormai, sono al crepuscolo dei migliori anni, mentre i sardi si apprestano a diventare grandi facendo leva sui gol di Gigi Riva. Al termine della prima frazione, quando il risultato è ancora fermo sullo 0-0, mentre conversa con l’arbitro De Robbio, il difensore rossoblù Miguel Ángel Longo viene colpito all’occhio da un oggetto lanciato dagli spalti. La botta è tremenda, il calciatore non farà più rientro in campo costringendo i compagni a giocare con un uomo in meno. L’Inter ne approfitta per andare a segno con una doppietta di Mazzola e una rete di Domenghini.

    Ma cosa è successo? L’italo-argentino, all’altezza del sottopassaggio, cade per terra urlando per il dolore procuratogli da una ferita riportata all’occhio destro. Il dirigente accompagnatore dell’Inter, Giammaria Visconti di Modrone, trova per terra una moneta da 100 lire e la consegna al guardalinee Tomasino, il quale la dà immediatamente al direttore di gara. Inizia un bailamme di considerazioni in merito al reale stato del giocatore: per il medico sociale dei nerazzurri si tratta di una contusione alla regione orbitale destra; il medico federale e quello sociale dei rossoblù riscontrano, invece, una ferita alla palpebra inferiore destra e un ematoma alla palpebra superiore. Secondo i padroni di casa Longo si sarebbe procurato la lesione a seguito di una gomitata ricevuta da Facchetti in uno scontro di gioco e non ritengono possibile che un oggetto metallico, seppur scagliato con violenza e da distanza ravvicinata, abbia potuto provocare un tale trauma. Dal canto loro, i cagliaritani presentano prima un esposto orale e poi uno scritto con allegato il certificato del medico federale per fare in modo che il risultato non venga omologato e per ottenere la vittoria a tavolino. Tutto si decide in base al referto dell’arbitro, che, non potendo fermare la contesa per regolamento, può scrivere una relazione su quanto è avvenuto. Spetta al giudice sportivo della Lega, l’avvocato Alberto Barbe, decidere se applicare o meno l’articolo 7 del codice di disciplina.

    Nel frattempo, Longo è trasportato nella clinica oftalmica dell’università di Torino, dove viene sottoposto alle cure specialistiche. È proprio dalla struttura ospedaliera che giungono chiarimenti sull’episodio:

    Il paziente riferisce che la lesione potrebbe essere stata provocata da una moneta metallica da lire cento lanciata da persona a lui sconosciuta – si spiega in un comunicato –, mentre rientrava negli spogliatoi nell’intervallo della partita di calcio giocata il 14 gennaio ’68 allo stadio di San Siro a Milano. In effetti applicando il dorso di una moneta da lire cento sulla linea di ferita della palpebra inferiore si vede che la moneta si applica esattamente alla lesione riscontrata e cioè corrisponde alla abrasione della palpebra superiore, alla zona di emorragia sottocongiuntivale e di commotio retinae. Il corpo contundente ha colpito il Longo in modo improvviso perché le lesioni si sono verificate ad occhio aperto. È mancata cioè la reazione di difesa istintiva ed involontaria di chiusura dell’occhio per la subitaneità dell’evento.

    Pochi giorni più tardi il giudice sportivo emette la sua sentenza, riconoscendo la responsabilità oggettiva dell’Inter e, di conseguenza, accreditando la vittoria a tavolino in favore del Cagliari. In particolare, il dottor Barbe ha dedotto che in qualunque modo fosse stato colpito Longo, la dirigenza meneghina sarebbe stata in ogni caso colpevole del suo ferimento ai sensi di quella norma regolamentare che attribuisce alla società ospitante l’imputabilità concreta non solo del comportamento dei propri accompagnatori e sostenitori ma anche del mantenimento dell’ordine pubblico.

    La Beneamata si sente danneggiata dalle anomalie dei regolamenti e dalla loro cattiva applicazione e per questo decide di presentare appello ai giudici della Commissione disciplinare della Lega nazionale. Nel reclamo la difesa nerazzurra asserisce che Longo è stato colpito dall’involontaria gomitata di un agente di polizia, trovando di fatto un escamotage per liberarsi da ogni responsabilità. Tuttavia, questa tesi viene subito

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