Milan. Capitani e bandiere
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Info su questo ebook
Il libro ripercorre i centoventi gloriosi anni di storia del Milan attraverso le gesta dei più grandi calciatori e allenatori che hanno militato tra le fila del Diavolo. Cinque epoche storiche per cinque capitoli, ognuno dei quali presenta un “undici ideale”: undici campioni storici che, sebbene non abbiano mai davvero giocato tutti assieme, rappresentano la squadra dei sogni di qualunque tifoso. Ecco dunque raccontati uno accanto all’altro Cesare Maldini e Gunnar Nordhal, Trapattoni e Hamrin, Gullit e Shevchenko: i capitani che hanno guidato la squadra attraverso decenni di vittorie e le bandiere per cui la maglia rossonera è stata una seconda pelle. Un libro per tutti gli appassionati, milanisti e non, per recuperare la storia di uomini che hanno scritto alcune delle più grandi pagine del calcio italiano.
Campioni, idoli, eroi rossoneri: un excursus sulla grande storia del Milan tratteggiata attraverso i ritratti dei più grandi giocatori e allenatori
Tra i capitani e le bandiere del Milan:
• Herbert Kilpin • Aldo Cevenini (Cevenini I) • Cesare Maldini • Nils Erik Liedholm • Juan Alberto Schiaffino • Gunnar Nordahl • Nereo Rocco • Karl-Heinz Schnellinger • Gianni Rivera • Giovanni Trapattoni • José João Altafini • Arrigo Sacchi • Fabio Capello • Mauro Tassotti • Alessandro Costacurta • Franco Baresi • Paolo Cesare Maldini • Roberto Donadoni • Ruud Dil Gullit • Marco van Basten • Carlo Ancelotti • Gianluigi Donnarumma • Alessandro Nesta • Gennaro Gattuso • Clarence Clyde Seedorf • Andrea Pirlo • Ricardo Izecson dos Santos Leite Kaká • George Manneh Oppong Ousman Weah • Andrij Ševčenko • Filippo Inzaghi
Giuseppe Di Cera
è nato a Taranto nel 1975. Laureato in Scienze politiche, ha collaborato con diverse testate e attualmente lavora come cronista per il «Corriere dello Sport» e le emittenti Canale85 e AntennaSud. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi libri legati alla squadra rossonera: 1001 storie e curiosità sul grande Milan che dovresti conoscere; I campioni che hanno fatto grande il Milan; Il romanzo del grande Milan; Il Milan dalla A alla Z; Forse non tutti sanno che il grande Milan…; Le 101 partite che hanno fatto grande il Milan, La storia del grande Milan in 501 domande e risposte e Milan. Capitani e bandiere.
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Anteprima del libro
Milan. Capitani e bandiere - Giuseppe Di Cera
Prefazione
di Mauro Suma
Duecentocinquanta chilometri a nord di Londra: parte giustamente da lì la grande Storia rossonera. Un principio che Milan. Capitani e bandiere ha fatto suo, tastando da Herbert Kilpin in poi la vena del milanismo e dei milanisti.
Il libro di Giuseppe Di Cera è soprattutto una rivisitazione umana delle persone che hanno fatto la storia del Milan. Uomini che facevano parte del loro tempo e che hanno unito una mano all’altra, un cuore all’altro, per arrivare fino a oggi. Riscoprire il portiere Tenaglia
Compiani, ricordare il magazziniere che con il suo occhio lungo ha scoperto Giuseppe Zagatti, scolpire il grande Giuseppe Burini con la felice definizione dell’uomo con le ali ai piedi
, significa andare alla radici del Milan, al centro di una Storia inimitabile. Non è passatismo, è solo e semplicemente Storia. Che non può essere che con la maiuscola e che può essere messa da parte solo da chi non la ama o non la conosce. Certo che, una pagina dopo l’altra, si arriva anche a Donadoni e Van Basten, a Ševčenko e Donnarumma. In ogni caso tutto senza iperboli. Il tratto del libro non è retorico, ma di ricerca. Uno sforzo che è piacevole presentare al lettore per quello che è: aneddoti, episodi, cammei, cifre, date. Senza il tono della glorificazione, ma con quello dello spirito di servizio.
Tutti i tifosi rossoneri conoscono i fratelli Maldera e la dinastia Maldini, ma tanti anni fa c’era nel centrocampo del Milan un motorino, che dava l’anima a ogni partita della squadra milanese: si chiamava Francesco Soldera, non ha vinto niente ma i tifosi lo amavano lo stesso il loro Checc
. L’umanità dei capitani, l’umanità delle bandiere: perché al Milan il nome di ogni singolo giocatore sulla maglia viene dopo. Prima, per tutti, c’è lo stemma
AC MILAN 1899
sul petto. Si parte da lì e si arriva sempre lì. Buona lettura.
Introduzione
Capitani o bandiere si nasce o si diventa? L’una e l’altra cosa, e a partire da questa domanda ha preso corpo questo libro, che ripercorre i 121 anni della storia del Milan attraverso le gesta dei suoi grandi calciatori e allenatori.
Si può venire al mondo con la fascia al braccio, com’è successo alla dinastia Maldini (Cesare e Paolo), a Gianni Rivera e a Franco Baresi, o per atto dovuto e incalzante desiderio, come accaduto al fondatore del club Herbert Kilpin. In altro modo anche per militanza e competenza ed è il caso di Nils Liedholm, giunto dalla Svezia nel 1949 per una breve esperienza (così aveva detto alla famiglia) per poi rimanervi dodici anni da calciatore e in seguito sette da allenatore in tre diverse tappe. Altri non lo sono mai stati formalmente, ma per l’attaccamento dimostrato avrebbero meritato di esserlo.
Capitani o bandiere, bandiere e capitani: cambiando l’ordine non muta il concetto, perché l’uno non esclude l’altro, anzi spesso sono esperienze concatenate. In ogni caso si tratta dei vessilli che sventolano fieri e gagliardi sul più alto dei pennoni di ciascuno dei milioni di cuori rossoneri. Non sempre i nomi che leggerete vi risulteranno familiari o saranno altisonanti: alcuni potrebbero essersi smarriti nelle pieghe del tempo ed è questa l’occasione propizia per restituirli agli appassionati del Diavolo e non solo. L’obiettivo è dare spazio a coloro che per numero di partite giocate, gol fatti e fedeltà nel tempo hanno contribuito con un mattoncino alla storia di questa società. I successi sono solo uno dei parametri presi in esame, ma non il principale, men che meno indispensabile. Forse qualche esclusione eccellente verrà notata, ma è perché al di là dell’apporto, magari magnifico, il rapporto con società e tifosi è andato via via scemando.
Ho pensato che queste pagine potessero trasformarsi nella casa ideale per accogliere sessantuno uomini, prima che calciatori, e di comporre cinque squadre con relativi allenatori, collocate in un determinato arco temporale. Sono formazioni che non ritroverete in nessun libro o filmato, ma semplice proiezione della fantasia, perché questi immaginari assemblaggi rispondono al quesito che i tifosi spesso si pongono: «Peccato, se avessero giocato assieme, avremmo vinto tutto». Il calcio non è una scienza esatta, per niente. Neanche le emozioni che ci avvinghiano al Milan potranno mai essere ingabbiate da improbabili schemi intinti nel raziocinio. Mai, in nessun caso. E allora mi auguro che possa essere un piacere calarsi in questa virtuale realtà rossonera a molteplici dimensioni, come se stessimo visitando un parco giochi, per rivivere gesta, vittorie e splendori.
Il viaggio dei capitani è partito nel 1899 da David Allison (con Kilpin) ed è arrivato sino a noi con Alessio Romagnoli, sulle cui spalle ricade il peso di una luminosa e ultracentenaria storia. Noi abbiamo un solo desiderio, espresso mentre una scia luminosa tagliava la volta celeste: vederli tornare a sorridere e noi con loro.
Buona lettura, con il Diavolo nelle vene.
Parte I
Il diavolo si veste di rossonero (1899-1945)
Formidabili, quegli anni. E sì, intrisi di spirito pionieristico e di voglia matta di sbalordire, cimentandosi in uno sport che sta prendendo piede in tutta Europa.
Anche nell’Italia di fine Diciannovesimo secolo e inizio Ventesimo, visto che da almeno trent’anni nel Regno Unito il calcio è sulla bocca e tra i piedi di tutti, con tanto di federazione (Football Association) che detta le regole del gioco. Sono anni in cui i sudditi della regina Vittoria possono sognare a occhi aperti e far trattenere il fiato a folle oceaniche. Di folle, in Italia, c’è la voglia di rincorrere un pallone che rotola nel fango schizzando compagni, avversari e i pochi spettatori presenti. Genova e Torino (poi anche Udine) sono le antesignane di tutto il movimento: a ponente, nel 1893, nasce il Genoa Cricket and Football club; sotto la Mole antonelliana nel 1891 prende vita l’Internazionale Torino e nel 1894 il Football Club Torinese.
Nel 1899, a distanza di un paio di settimane l’una dall’altra, in due emettono il primo vagito: il 29 novembre il Barcellona; il 13 dicembre il Milan Football & Cricket Club. Il 27 febbraio 1900 tocca al Bayern di Monaco, mentre il 18 marzo all’Ajax. La sezione di cricket del Milan, gestita da Edward Nathan Berra, vivrà una decina di anni; tra il 1934 e il 1938, ne esisterà anche una di hockey, denominata Diavoli Rossoneri, vincitrice di una Coppa Italia.
Il fondatore si chiama Herbert Kilpin, nato a Nottingham, in Inghilterra, città da cui fa fagotto per motivi professionali, raggiungendo l’Italia. Nel gennaio del 1900 iscrive la squadra alla
FIF
, la Federazione italiana di football: il primo capitano è David Allison, un connazionale che non porterà alcuna fascia al braccio, perché inventata decenni dopo. Quel Milan si schiera con il tipico disegno tattico dell’epoca, il 2-3-5, due difensori, tre centrocampisti e cinque attaccanti; l’obiettivo è uno: segnare con qualunque mezzo, anche urlando a squarciagola. Da lì il soprannome dei giocatori del Milan, chiamati urlatori
o più semplicemente inglesi
.
Sotto la presidenza di sir Alfred Ormonde Edwards, si aggiudicano tre campionati (1901, 1906 e 1907), da assegnare al meglio di poche partite. Intanto nel marzo del 1908, una fronda dei soci sceglie una via diversa e fonda l’Inter. Tra il 1909 e il 1915 il Milan sfiora il quarto successo e a ritagliarsi la notorietà sono il centravanti Louis Van Hege, i fratelli Alessandro e Attilio Trerè (Trerè
I
e Trerè
II
) e il Figlio di Dio
Renzo De Vecchi, che però nel 1913 lascia Milano, ammaliato dalla sirene genoane. Nel 1914 scoppia la Grande Guerra e il calcio si ferma; si muove per raccogliere fondi destinati a scopi bellici. Solo nel novembre del 1918 il sole torna a risplendere sull’Europa, comunque sferzata dall’influenza spagnola, che nel biennio 1918-20 provoca milioni di vittime, e dalle idee della rivoluzione russa in atto sin dal 1917.
Il Milan, invece, inizia a vivere il suo tormento calcistico, la cui luce in fondo al tunnel non è minimamente visibile. Sono anni in cui si palesano diversi difetti in difesa e a centrocampo, dove pure operano uomini laboriosi come Luigi Perversi, Cesare Lovati, Pietro Bronzini, Giuseppe Antonini, Carlo Rigotti e Alessandro Scarioni. In attacco, al contrario, ci sono nomi di grido come Giuseppe Santagostino (1921-32, 106 gol in 236 gare) e Aldo Boffi (1936-45, 136 centri e 194 maglie sudate), a cui si aggiungono Amedeo Varese (1918-21, 32 reti in 35 gare), Rodolfo Ostromann (1924-28, 33 marcature in 73 partite), Giuseppe Torriani (1927-35, 34 reti in 206 incontri), Giovanni Moretti (1931-39, 68 reti in 223 presenze) e Mario Romani (1932-36, 37 reti in 83 gare).
Lodevoli e continui gli sforzi del milanese Pietro Pirelli, il presidente (1909-1928) che costruisce lo stadio di San Siro (poi Meazza nel 1980), inaugurato il 19 settembre 1926 con un infausto Milan-Inter 3-6. La nuova casa del Milan può ospitare 35.000 spettatori e risponde alle pretese di una grande società, ansiosa di tornare a contare sul palcoscenico nazionale. Sono gli anni in cui i milanisti sono definiti casciavit
e gli interisti bauscia
: una distinzione che, all’epoca, cela una differenza di ceto (operai i primi, borghesi i secondi). Nel 1929, dopo avere messo un freno all’esorbitante nascita di società, la federazione italiana apre i battenti della serie
a
a girone unico. Tuttavia non c’è pace per il Milan, perché dopo Pirelli si susseguono cinque presidenti in otto anni: Luigi Ravasco (1928-29 e 1933-35), Mario Benazzoli (1929-33), Pietro Annoni (1935-36), Emilio Colombo (1936-39) e Achille Invernizzi (1939-40). È un piccolo Milan, che si batte dinanzi a grandi corazzate: l’Internazionale di Peppino Meazza, la Juventus della famiglia Agnelli, il Bologna di Héctor Puricelli che «tutto il mondo tremare fa». I derby vinti con l’Inter dal 1927 al 1940 (tra il 1921 e il 1926 le due squadre militano in gironi diversi) si contano sulle dita di una mano. Il digiuno di vittorie abbraccia dieci anni, dall’8 luglio 1928 (Internazionale-Milan 2-3, tripletta di Aigotti) al 20 febbraio 1938 (Milan-Ambrosiana Inter 1-0, rete di Egidio Capra).
Nella decade 1931-40, il Diavolo si affida a calciatori milanesi o lombardi, una politica applaudita nel Ventennio fascista, ma che non paga a sufficienza. In società si crea malumore quando nel 1934 sono ingaggiati l’attaccante Eliseu Gabardo e l’ala sinistra Vicente Arnoni, di origine italiana ma a tutti gli effetti brasiliani. La contrapposizione è così tormentata che il club invia ai soci una lettera in cui presenta anticipatamente i due rinforzi.
Nel febbraio del 1939 la denominazione anglofona Milan
si italianizza, alterandosi in Associazione Calcio Milano
, perché le lingue straniere sono bandite. Intanto esplode la seconda guerra mondiale e nel 1942 il Diavolo sfiora la vittoria della Coppa Italia, che sfuma in finale. Si vive sotto le bombe, ma il calcio si dimostra una vera arma di giustificata distrazione di massa.
Il nome Milano
si conserva sino al 10 giugno 1945 (Milano-Vigevano 2-3), sparendo il 14 (Milan-Pro Patria 1-1). Insomma, il primo mezzo secolo di vita è affascinante e travagliato allo stesso tempo, ma nonostante tutto il Milan mantiene alta la bandiera dell’orgoglio davanti a un tifo che manifesta sempre il suo incondizionato amore.
La squadra
Selezionare un undici, il più forte o quantomeno il più suggestivo, non è facile, perché il periodo preso in considerazione abbraccia quarantasei anni (1899-1945) in cui il calcio contribuisce a cambiare i costumi degli italiani, ma l’influenza è reciproca.
Il modulo per questa prima fantastica (nel senso di immaginaria) squadra è il 2-3-5, unica soluzione tattica degli allenatori del tempo, e consta di cinque capitani: Luigi Perversi, Giuseppe Bonizzoni, Giuseppe Antonini, Francesco Soldera e Louis Van Hege.
Allenatore-giocatore è, ovviamente, Herbert Kilpin, e d’altronde come poteva essere altrimenti? L’inglese ha fondato il Milan e l’ha svezzato subito con tre scudetti in otto anni.
Sul ruolo di portiere la lotta è almeno a tre: Compiani, Zorzan e Barbieri. Sono numeri 1 diversi, con i primi due che si incrociano realmente, perché Zorzan è colui che prende il posto del collega alla metà degli anni Trenta. Invece Barbieri anticipa entrambi di vent’anni, epoca in cui si parla di calcio in francese e perciò una parata in tuffo diventa plungeon e il terreno di gioco pelouse. La scelta ricade sul primo, perché è figlio di un calcio che prova a scrollarsi di dosso la polvere del passato e a cercare nuove vie verso la modernità.
In difesa, non v’è dubbio: Perversi e Bonizzoni, coppia affiatata del Milan degli anni Trenta. Sono atleti generosi, ragionatori e impulsivi: a loro è affidato il compito di rimanere sempre nei pressi dell’area e di cedere il pallone al mediano. Vederli realizzare un gol sarebbe come scorgere una tigre durante un safari nel Serengeti.
I tre della mediana sono Trerè
II
, Antonini e Soldera, uomini che hanno fatto la storia del Milan. Trerè, seconda decade del passato secolo, è un eroe di guerra, non ha paura di nulla e lotta con ardore in campo come in trincea. Soldera piomba sulla scena calcistica negli anni Dieci, quando il Milan annaspa, ma con orgoglio, tanto da superare uno dei suoi successori nel ruolo: Antonio Gino Bortoletti (1933-1940). Quest’ultimo è un centromediano di belle speranze prelevato con altrettanti ottimi auspici dalla Triestina, ma che alla prova dei fatti disattende le aspettative. Il gioco prodotto in quegli anni passa da ruoli come il loro e nei rispettivi limiti in molti individuano parte dei problemi del Milan. Malgrado ciò Soldera rimane simbolo di quel Diavolo, povero, non bello, ma genuinamente combattivo. Infine Antonini che, tra gli anni Trenta e Quaranta, coopera fattivamente per porre le basi per un Milan più competitivo. Dalla sua Cremona porta quella ventata di freschezza che giova non poco al Diavolo.
Infine i cinque dell’attacco, prelibatezze da rimembrare, a partire da Cevenini
I
, primo di cinque fratelli consacrati come vestali al calcio, per finire col belga Van Hege, passando per Santagostino, Moretti e Boffi. Cevenini è la classe, Santagostino (per la verità più una mezzala) è un cecchino, Boffi è l’esplosione della potenza, Moretti è l’antesignano dell’attaccante evoluto (per quei tempi), ovvero solido e concreto, Van Hege è il centravanti che tutta Europa desidererebbe avere.
1899-1940 (2-3-5): Compiani; Perversi, Bonizzoni; Trerè
II
, Antonini, Soldera; Santagostino, Cevenini
I
, Moretti, Boffi, Van Hege. All.: Kilpin.
Herbert Kilpin
(1870-1916)
Il papà di tutti i rossoneri
«La sera delle nozze mi arriva a casa un telegramma che mi invita a far parte della rappresentativa italiana che a Genova doveva giocare con il Grasshoppers di Zurigo. Mia moglie, naturalmente, non voleva lasciarmi partire, ma io le ricordai che, prima di fidanzarmi, l’avevo avvertita che se non mi permetteva di continuare a giuocare non mi sarei sposato. In quel match, presi sul naso un tremendo calcio… Ritornai da mia moglie con il viso irriconoscibile».
(«Lo Sport Illustrato»)
«Un nome che la nova generazione dei footballers non onorerà mai abbastanza; un nome magico che fece vibrare e prime folle di appassionati del delirio sportivo per un grande campione; un nome che è quasi tutto nella storia dei primi lustri del nostro football».
(«Lo Sport Illustrato»)
Lunedì 24 gennaio 1870 a Nottingham, 250 chilometri a nord di Londra, da Edward Kilpin e Sara Smith nasce Herbert che, sin da bambino, s’innamora del calcio tanto da dare vita a tredici anni a una squadra. Ispirandosi alle camicie garibaldine, la casacca è rossa.
È figlio di un macellaio, il padre vorrebbe instradarlo nell’attività di famiglia, ma lui non ne vuol sapere. Appena in età lavorativa, all’epoca priva delle odierne tutele sindacali, è assunto in un’azienda tessile, dove conosce Edoardo Bosio, che diviene un suo buon amico e lo invita ad andare in Italia per insegnare ai suoi operai come lavorare sui telai più moderni.
Gli ingredienti base per raccontare la storia di Kilpin ci sono tutti, non manca nulla. La sede dell’azienda è a Torino e nella città sabauda il rossonero in pectore contribuisce a fondare l’Internazionale Football Club di Torino, che l’8 maggio 1898 perde in finale il primo campionato italiano, vinto dal Genoa, altra società fondata da britannici.
La sconfitta subita gli lacera così tanto l’animo che medita una vendetta sportiva, attraverso un’altra squadra a cui dare vita in un’altra città: Milano. Qui, il 13 dicembre 1899, viene alla luce il Milan e la culla è l’Hotel du Nord et des Anglais, in piazza della Repubblica. Ci sono una cinquantina di soci, tra italiani e inglesi, che Kilpin insegue per diverso tempo (i primi frequentano la birreria Spatenbrau, i secondi l’American bar). Viene nominato presidente sir Alfred Ormonde Edwards, fratello del sindaco di Roma e viceconsole di Sua Maestà la regina Vittoria, mentre il vice è Edward Nathan Berra, che gestisce la sezione di cricket. Samuel Richard Davies è il segretario; mentre i consiglieri sono: Johann Sebastian Barnett, Henry Saint John e Piero Pirelli (presidente dal 1909 al 1928). Qui Kilpin potrebbe avere coniato il detto che ci rende orgogliosi: «I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura negli occhi degli avversari». Viene scelto il diavolo quale emblema: il movente andrebbe ricercato, è un’ipotesi, nel peso della componente inglese, di religione anglicana e in funzione anticattolica.
Si discute anche della sede societaria e a questo uso viene adibito una fiaschetteria in via Berchet 1, alle spalle del Duomo. La preferenza per una fiaschetteria la dice lunga sui litri di vino e birra ingurgitati dai primi milanisti. Infine bisogna stabilire dove si giocherà e Kilpin, assieme ai soci, punta il dito verso il campo sportivo del Trotter: non è il massimo, ma per iniziare potrebbe andare bene. Fare di necessità virtù è un pregio.
Un ufficio stampa non esiste e perciò sono gli stessi soci fondatori a correre a perdifiato verso la sede della «Gazzetta dello Sport», che ne dà così notizia: «Finalmente! Dopo tanti tentativi infruttuosi, finalmente, anche la Milano sportiva avrà una società pel giuoco del Football». L’articolo è pubblicato il 18 dicembre, dando il via all’errore sul giorno della nascita del Milan, ancora ufficialmente celebrata il 16 dicembre. Ma la pagina dell’edizione del 18 che ne dà notizia riporta articoli datati al 14, dunque la società è nata prima.
A gennaio si svolge la prima assemblea, in cui si stabilisce anche quanto debba annualmente versare ciascun socio: 25 lire, che ai giorni nostri corrisponderebbero a 112 euro. Il 15 aprile 1900 la nuova realtà calcistica fa il suo esordio, ma è una fragorosa batosta, perché la Football Club Torinese s’impone per 3-0: le reti hanno la paternità di Bosio, sua vecchia conoscenza.
Il secondo anno, il 1901, è quello buono, anche perché il calendario del campionato è cortissimo, giusto due partite. Il 28 aprile il Milan affronta la Juventus; si gioca in trasferta al Piazza d’Armi di Torino ed è una battaglia: i rossoneri ne escono vincitori per 3-2, con la doppietta di Negretti e rete decisiva proprio del baffuto Kilpin, tuttofare dalla difesa all’attacco. In finale, il 5 maggio, si gioca come da regolamento al Ponte Carrega, campo sportivo dei campioni uscenti del Genova, ed è un successo, inaspettato: 3-0 e Kilpin va nuovamente in gol. La gioia è incontenibile, perché si tratta della prima vittoria italiana del giovane club. Non si può parlare di scudetto, poiché quest’ultimo quale simbolo del successo, viene inventato negli anni Venti dal poeta-soldato Gabriele D’Annunzio, il conquistatore di Fiume. L’unico non dell’umore giusto è proprio Kilpin, che in quei giorni apprende, da una lettera giunta dall’Inghilterra, della scomparsa del padre.
Trascorrono gli anni, il Milan cambia campo sportivo e si trasferisce all’Acquabella, ma non muta il sentimento di Kilpin che ama il calcio più di sé stesso e forse anche della moglie, la signora Maria Capua, donna lodigiana sposata nel gennaio del 1905. Neanche il tempo di proferire il «Sì lo voglio» che, prima di andare in viaggio di nozze, da Genova lo chiama per formare una mista Genoa-Milan e sostenere un’amichevole con gli elvetici del Grasshoppers, che vince 4-3. La signora Capua non sarà rimasta soddisfatta della decisione del marito, che per di più la spaventa al suo ritorno perché si presenta a casa senza essersi fatto un buon bagno. A raccontare l’aneddoto è lo stesso Kilpin, con toni indiscutibilmente ilari. Un’altra spassosa storiella lo vede protagonista insieme a Renzo De Vecchi, prodotto del vivaio rossonero: durante un allenamento, Kilpin sta per battere un calcio da fermo, ma De Vecchi è più svelto e lo fa al posto suo. La sanzione irrogata consiste in una serie di pedate all’incosciente giovincello, che anche a distanza di anni amerà ricordare questa monelleria.
Nel 1906 è ancora in prima linea nella conquista del secondo campionato, che il Milan gioca al Porta Monforte. Domenica 7 gennaio il Diavolo supera l’
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Milanese con un sofferto 4-3: Kilpin non segna, ma l’apporto è determinante. Come lo è nel derby di ritorno vinto 2-1 e nel girone finale con il Genoa e soprattutto la Juventus: per trionfare sono necessari due spareggi con i bianconeri, il secondo dei quali (decisivo e previsto per il 6 maggio) è vinto a tavolino per la polemica rinuncia della squadra piemontese. Nel 1907 arriva il terzo successo, il secondo consecutivo. Ancora una volta si parte con l’
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Milanese, sconfitta all’andata (6-0) e al ritorno (1-0), poi, nel girone finale, vengono regolate Torino e Andrea Doria con gare di andata e ritorno. Nel corso del campionato Kilpin realizza quattro delle undici reti totali. L’anno dopo il club rinuncia al campionato per profondi dissapori con la
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, a cui sono affiliate cinquantadue società da nord a sud e che vorrebbe introdurre un campionato di solo atleti italiani, e passa le domeniche giocando diverse amichevoli. L’ultima gara nel Milan è disputata all’Arena Civica, nel giorno di Pasqua del 20 aprile 1908, con l’Old Boys di Basilea. Se ne va vincendo 2-1, ma a passare in primo piano non è il successo, bensì la cospicua presenza sugli spalti di tifose.
Kilpin, capitano e bandiera allo stesso momento, ha oramai trentotto anni ed è troppo grande per continuare a giocare. Il calcio è il primo dei vizi, il secondo è l’alcol. Beve troppo, ma non si allarma affatto e sbaglia. La salute è minata e il 22 ottobre 1916, in piena Grande Guerra, chiude gli occhi lasciando a disposizione di tutti l’eredita più bella: il Milan!
La sua memoria è viva ancora oggi, tanto da poter trovare a Nottingham un pub dedicato, ma delle sue spoglie terrene si perde subito traccia, anche se nel 1928 venne pagata la tumulazione perpetua, con il nome italianizzato di Alberto Kilpin, presso il Cimitero Maggiore di Milano. Sessant’anni dopo, nel 1999, anno del centenario della fondazione, vengono ritrovati i resti dallo storico del Milan Luigi