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Mbote Congo
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E-book381 pagine6 ore

Mbote Congo

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L'Africa di "Mbote Congo" è un'Africa un po' diversa da quella ritratta

nei film e nella maggior parte dei documentari. Non è l'Africa delle

acacie ad ombrello e delle immense distese erbose popolate da gnu e

pride di leoni.

È un'Africa che ancora non sogni soltanto perché non la conosci.

È

l'Africa dei misteri e della lotta alla sopravvivenza , degli elefanti

silenziosi e dei bufali curiosi, delle foreste dai verdi così accesi da

far male agli occhi, dei bonghi maestosi che come apparizioni

mitologiche sfilano eleganti lungo sentieri dimenticati dall'uomo, delle

piogge incessanti e dei fiumi selvaggi, degli insetti giganti e delle

migrazioni ignote di milioni di farfalle bianche.

Rincorrete il selvaggio nascosto tra le pagine di questo libro ed innamoratevi anche voi delle indomabili foreste del Congo.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2021
ISBN9791220324489
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    Anteprima del libro

    Mbote Congo - Alice Paghera

    sempre.

    08.12.2017

    La svolta

    La monotonia si stava impossessando di me in maniera lenta ma implacabile, come l’azione di un’anestesia. Mi ero data fino alla fine dell’anno per cercare di inseguire il mio sogno, un sogno definito da moltissimi impossibile, irrazionale, stupido e fuori dalle righe; un sogno che per me voleva dire tutto; un sogno che, via via che lo inseguivo, mi pareva si allontanasse sempre più. La corsa era iniziata ad aprile dello stesso anno quando, conclusi gli studi in field guiding in Sudafrica, dovetti rientrare in Italia con le mie qualifiche nello zaino e tantissima voglia di ripartire. Nature field guide, non una guida turistica, né tantomeno un accompagnatore di viaggio; avevo ricevuto una lunga formazione professionale per essere in grado di accompagnare i viaggiatori alla scoperta di parchi nazionali e riserve in Africa. La ricerca era iniziata quasi nell’immediato: curriculum, cover letter, ed una mail di rinforzo per mostrare ancora di più la mia voglia di fare, di buttarmi, di sperimentare, di mettermi in gioco. Stupidamente non vedevo tutti gli ostacoli che poi piano a piano si sarebbero delineati di fronte a me come bastioni insormontabili di una fortezza medievale. Le settimane, i mesi iniziavano a rincorrersi come atleti ad una maratona, intenzionati a non fermarsi, ma anzi desiderosi di arrivare al traguardo finale nel più breve tempo possibile; ed io, mentre il tempo passava, mi ritrovavo in quella trappola che molti giovani in Italia conoscono bene: quella della statica accettazione degli eventi. Una miscela di sentimenti e sensazioni negativi che segnano ogni giornata, ogni ora che passa; come una candela coperta da un vasetto di vetro, la cui fiamma tenta invano di resistere all’improvvisa assenza di ossigeno, io tentavo invano di arrivare in superficie per riprendere una boccata d’aria, ma più nuotavo verso la luce, più questa diventava flebile, inconsistente.

    I giorni si susseguivano inesorabili, sempre uguali, sempre gli stessi, sempre parte dello stesso libro. Le lancette dell’orologio della cucina, ogni mattina a colazione, mi fissavano e sembravano dirmi: Noi stiamo andando avanti, non ci fermiamo per te; sei tu quella che rimane indietro, sei tu quella che non si muove. Svegliati Ali, svegliati. Ogni giorno cercavo di non pensare che era un giorno in più sul calendario, un giorno in meno alla possibilità di seguire il sogno, seguire l’impossibile. Volevo non pensarci: andavo a lavoro, tornavo a casa, facevo le solite cose, e cercavo una soluzione, una soluzione che da sola oramai non potevo trovare, perché nei mesi precedenti avevo già fatto tutto quello che mi era lecito fare: avevo mandato centinaia di curricula, avevo inondato di mail le caselle di posta di lodges, hotel, organizzazioni umanitarie, organizzazioni che si interessano della salvaguardia animale, ma niente, erano tutte risposte negative; se ce n’erano, la maggior parte neanche si erano degnati di rispondere. Più il pensiero di dover rinunciare al mio sogno si insinuava in me, più diventavo inerme, più diventavo incapace di agire, incapace di pensare out of the box, fuori da paradigmi scritti e siglati come sacrosanti dalla società in cui viviamo, incapace anche di sorridere alle cose più semplici e vere che mi circondavano, incapace di sorridere con i miei genitori, incapace di sorridere con mia sorella. Non vedevo altro che il buco nero di fronte a me, non vedevo altro che la sconfitta, il fallimento.

    Mi ritrovavo anche a pensare che dopotutto la vita normale che stavo facendo non era poi così male: avevo un lavoro a tempo indeterminato con un salario più che decente; avevo una famiglia che mi sosteneva in tutto e per tutto, spaventata dalle mie possibili future scelte, ma sempre al mio fianco; avevo amicizie con cui riempire il mio tempo libero; avevo me stessa: avevo chiuso la mia storia qualche mese prima perché non mi sentivo più compresa, non percepivo più la vera me, non vedevo più quel futuro su rette parallele; era stata una delle decisioni più difficili e complesse che io avessi mai preso, una di quelle tappe che vengono marchiate a fuoco sul calendario della tua vita ed ogni volta che volgi lo sguardo al passato un pò fa male, un pochettino brucia; perché lo percepisci come un fallimento nella tua esistenza, lo consideri come un chissà se avessi potuto fare qualcosa di diverso. Ma poi riporti l’attenzione ai tuoi passi, incerti sì, ma sempre consapevoli del traguardo finale, del futuro che potrebbe essere. E allora, come se mi svegliassi da un sogno agitato, mi dicevo che quella non poteva essere la mia strada. Non volevo seguire quello che da tutti era considerato normalità, perché io la vedevo come mediocrità; non volevo inseguire i dogmi sacri alla società occidentale, li ritenevo quasi folli ed insensati: il paradigma del più soldi, più felicità non si amalgamava con il mio credo. Io desideravo ardentemente svegliarmi ogni giorno con la voglia di alzarmi dal letto, volevo abbandonare la routine ed avventurarmi nella vita, volevo dimenticarmi dello scorrere del tempo per vivere ogni istante intensamente, in maniera totalizzante, piena; volevo andare a letto stanca, ma felice, pronta a ricominciare tutto da capo il giorno dopo, e quello dopo ancora, e ancora.

    Eppure in tantissimi mi avevano detto: È una strada che non funzionerà… Non è neanche un vero lavoro… Hai una laurea in mano, perché non la sfrutti?; ed è vero, avevo una laurea in mano, ho una laurea in lingue e letterature straniere, bellissima. Un corso di studi che avevo scelto non tanto per lo sbocco professionale che ne sarebbe potuto conseguire poi, lo avevo scelto perché mi interessavano davvero le materie trattate, perché davvero mi piacevano le lingue, l’arte, la cultura, il cinema, la fotografia, la letteratura; volevo semplicemente approfondire questi argomenti, non avevo pensato ad un dopo, non avevo pensato che la laurea fosse una specie di cella all’interno della quale le altre persone ti rinchiudono e ti vedono soltanto in funzione di quel pezzo di carta. Anche se forse l’avrei dovuto percepire già al termine del periodo liceale, quando la fatidica domanda: Allora che hai deciso di fare dopo? iniziava a rincorrersi tra i banchi, rimbalzata da studenti ma soprattutto dai professori; e sì, perché nonostante la domanda risultasse all’apparenza a possibile risposta multipla, il riscontro che tutti cercavano era soltanto uno. Tutti volevano sapere che fine avrebbe fatto la tua vita, perché scegliere il corso di laurea significava tracciare rette sul piano della tua esistenza che ti avrebbero accompagnato fino al pensionamento, ti avrebbero definito secondo una categoria, una professione. E quando poi qualcuno osava permettersi di dire: Sto pensando di non iscrivermi all’università. Magari mi prendo un anno sabbatico, quel qualcuno veniva subito ostracizzato, classificato come alunno di serie B, un aborto del sistema scolastico, perché si sa: dopo il liceo è necessario iscriversi all’università, è l’unica strada che ti permetterà poi di ottenere un lavoro rispettabile, ben pagato, normale. E negli anni che seguirono moltissimi miei coetanei avevano trovato la loro strada seguendo i binari ben tracciati dall’università, camminando lungo un percorso ben delimitato, non tanto dalle loro apparenti scelte, ma da ciò che la società molto prima del loro arrivo aveva ritenuto giusto categorizzare come opportuno, corretto, normale. Ed anche io terminato il percorso universitario avevo pensato di ricadere in questo circolo, anche io avevo provato ad essere normale, avevo pensato seriamente fosse la cosa giusta da fare. Poi però senza accorgermene realmente, ero diventata Alice alla continua ricerca del Bianconiglio, perché per quanto frustrante potesse essere, la prospettiva di realizzare il sogno era elettrizzante, linfa vitale. Ed io, che nulla avevo contro la normalità degli altri, che forse un pò invidiavo anche chi l’aveva trovata e l’aveva fatta sua, volevo che il mio treno scardinasse i binari, volevo crederci intensamente, fino in fondo, sbattendoci la testa. Me lo ero addirittura tatuato anni prima, espressione che sarebbe poi inaspettatamente diventata una specie di mantra, una forza invisibile a cui aggrapparmi ogni volta che sentivo la terra sotto i piedi tremare. Credendo vides, post nubila Phœbus. Per vedere bisogna credere, dopo la pioggia arriverà il sole.

    Si stava avvicinando il periodo dell’anno che il centro commerciale mi aveva portato pian piano ad odiare. Non sono mai stata una persona religiosa. Sì da piccola con tutta la famiglia si andava alla Messa di Natale ma quello che mi è sempre piaciuto di questo magico periodo dell’anno era l’incanto, le lucine sparse ovunque, gli alberi addobbati, le vetrine dei negozi scintillanti, le guance rosse, lo spirito di festa che si respira passeggiando nelle vie principali della mia città; addirittura i soliti film di Natale che immancabilmente vengono ogni anno riproposti. Da bambina la mia famiglia si riuniva in una casetta piccina piccina, una casetta che tutti noi chiamavamo casa, un nido accogliente e dolce dove tutti avevano un posticino privilegiato: era la casa dei miei nonni paterni. Un luogo magico che sembrava potesse ingrandirsi la notte della vigilia di Natale per ospitarci tutti. Una tradizione che è proseguita per anni quella di cenare tutti insieme la notte prima di Natale, con le canzoncine che si diffondevano in lontananza, la Stella di Natale che passava nelle vie principali, il panettone buono, i cibi deliziosi della mia amata nonna, la camminata infreddolita verso il Duomo, la già citata Messa di Natale con tutta la famiglia, e poi di corsa a casa ad aprire i regali e a posizionare Gesù bambino nel presepe. Questo è il mio Natale, quello che, anche crescendo e cambiando tradizioni e abitudini, è sempre rimasto vivo nella mia mente nonostante ora alcuni dettagli stiano andando sbiadendosi purtroppo.

    Negli ultimi anni odiavo il periodo natalizio; era il periodo dell’anno che tutte noi commesse del centro commerciale odiavamo di più: quello della gente che corre di qua e di là per i negozi senza salutare, ringraziare, guardarti in faccia, sorridere; il periodo in cui la gente si ammassa all’interno di questa gigantesca scatoletta di latta e spingendosi e sbuffando raccatta regali all’ultimo minuto; era il periodo dell’anno dove le mie amate canzoncine natalizie venivano soffocate dagli urli e schiamazzi di personaggi che ogni giorno litigavano per l’ultimo gratta e vinci o per una partita al lotto. E quest’anno, in modo particolare, il periodo natalizio rappresentava la fine di tutto quello che avevo tentato di realizzare nei nove mesi precedenti; lo avevo promesso sottovoce a me stessa, inviando gli ultimi curricula qualche settimana prima, sapendo già mestamente che si sarebbero persi nell’etere informatico. Camminavo a testa bassa, avvolta forse da un’aurea che mi evitava di inciampare nella fiumana umana che si muoveva in modo languido e sconnesso intorno a me, immersa nel mio mondo grazie alle cuffie auricolari conficcate nelle orecchie, con una musica totalizzante ad accompagnare la mia marcia; non volevo sentire nessuno, parlare con nessuno, erano trenta minuti di disconnessione totale da quel mondo fantoccio che mi circondava e non volevo che nessuno ne entrasse a far parte. Mi lanciai nelle corsie dell’immenso supermercato alla ricerca di assorbenti, dentifricio e balsamo per capelli, noncurante dei carrelli della spesa stracolmi di qualunque genere alimentare, delle signore impellicciate dal make-up perfetto, del teatro umano che manco Pirandello ne avrebbe potuto creare un’immagine migliore. Arrivata di fronte alla schiera infinita di balsami la musica si interruppe per un attimo, un secondo impercettibile. Con movimenti scocciati presi il cellulare dalla tasca laterale del mio zainetto per far ripartire la canzone, ma qualcosa sullo schermo del mio iPhone attirò la mia attenzione come un magnete e mi fece dimenticare la musica, il balsamo, il movimento umano. La musica si era interrotta perché una nuova mail era comparsa nella casella di posta elettronica. Riposi il flacone del balsamo con una cautela eccessiva quando tutto mi tornò alla mente: mesi prima avevo avuto una serie di colloqui con vari manager e direttori di questa Compagnia, erano stati tutti più o meno positivi, tanti punti di domanda da entrambe le parti, a cominciare dal fatto che il Congo non era esattamente l’Africa che mi sognavo, non sapevo neanche cosa immaginarmi del Congo; di una cosa ero certa: non era il bush africano che avevo conosciuto in Sudafrica e del quale mi ero perdutamente innamorata, ma di fondo non sapevo davvero cosa aspettarmi. La Compagnia stava ricercando una junior field guide da inserire nel loro organico, che conoscesse bene le lingue, fosse indipendente, avesse la volontà ed il coraggio di vivere in un luogo remoto per lunghi periodi e fosse addicted a questo tipo di lavoro. I punti interrogativi erano moltissimi, ma di fatto quella rappresentava un’opportunità per tornare dove realmente volevo stare; forse a qualche centinaia di chilometri di distanza da dove pensavo di voler stare allora, ma almeno era un inizio.

    La musica nelle mie orecchie si era interrotta, ma io la musica la continuavo a sentire; avevo abbandonato il supermercato senza ovviamente acquistare niente e correndo avevo raggiunto il retro del negozio dove mi dovetti sedere per un attimo e forzarmi a respirare in modo regolare. Ero lì, in un bugigattolo stipato di stecche di sigarette organizzate alla bell’e meglio su scaffali alti fino al soffitto, seduta su una scaletta ripiegabile con il mio cellulare in mano e piangevo. Piangevo perché non potevo crederci. Dovevo dirlo immediatamente a qualcuno, dovevo pronunciare quelle parole, dovevo sentirmi pronunciare quelle parole, dovevo renderlo vero, tangibile, dovevo essere sicura che non stesse svanendo come l’effetto di una qualche polverina magica. Registrai un videomessaggio di ventisette secondi, concitati ed emozionati, e lo inoltrai alla mia famiglia ed alla mia migliore amica, pilastri insostituibili della mia vita, soprattutto nell’ultimo anno. Mancavano ancora dieci minuti al termine della mia pausa, una buona manciata di minuti che riempii stampando il contratto inviatomi dal presidente della Compagnia, leggendo tutte le clausole ed, incredula ma elettrizzata, firmando il primo contratto che in meno di un mese mi avrebbe vista approdare nuovamente in Africa.

    06.01.2018

    La partenza

    Un Natale finalmente a casa dopo tantissimo tempo; un Natale con la mia famiglia prima di imbarcarmi per la mia grande avventura africana. Un Natale come volevo io, con il tempo per addobbare l’albero, passeggiare tra le bancarelle natalizie a Verona, cucinare con la mia mamma ed ascoltare All I Want for Christmas is You all’infinito. Era un Natale che però avrei ricordato per sempre, perché la felicità e i sorrisi si intrecciavano ad abbracci e pianti sommessi; ai pranzi in famiglia seguivano telefonate ed ore interminabili passate davanti al pc per cercare di organizzare tutto, per tentare di arrivare al 6 gennaio con tutti i documenti pronti, le vaccinazioni fatte, le valigie chiuse e l’immancabile ansia da prestazione che già celatamente si faceva sentire. Quelle ultime settimane a casa ero sottomessa ad un turbine di emozioni che mi prendevano lo stomaco e non mi lasciavano quasi respirare. Ero terribilmente a disagio con me stessa, ma non volevo mostrare a nessuno quanto questa corsa contro il tempo mi stesse destabilizzando: sono sempre stata una che pianificava le cose in anticipo, con meticolosità e precisione, ma questa volta il tempo mi rincorreva, e se prima rappresentava un ticchettio rumoroso che scandiva la monotonia dei giorni, ora era un presenza costante a ricordo che il mio tempo era assai limitato, e stava per scadere. E’ così irrazionalmente assurda la nostra percezione del tempo: il tempo non andrebbe mai misurato in ore e minuti, ma in trasformazioni, in cambiamenti, in momenti; non dovremmo aver bisogno di sognare di poter fermare il tempo, o addirittura di volerlo rivivere, perché dovremmo cercare di tuffarci nella vita, di vivere ogni istante che passa pienamente, dovremmo riempire il nostro tempo di esperienze, belle, brutte, positive, negative, difficili, pericolose, intense, sofferte, utili, piacevoli, futili, formative, per poter poi alla fine dire io l’ho vissuto, io l'ho fatto per davvero. Osservando la mia generazione, quella dei millenials, mi rendevo però spesso conto che una gran parte di noi avesse problemi a riempire il tempo: sempre di fretta, sempre con lo smartphone tra le mani, sempre attenti ai minuti che scorrono e non tanto alla vita che scorre, vivendo secondo il ma sì lo faccio dopo, lo faccio quando ho più tempo non capendo che il momento è ora, adesso; che se non lo fai adesso, magari non lo fai più.

    Andai diverse volte a Negrar, dove feci qualsiasi tipo di vaccinazione mi fosse stata richiesta o fosse necessaria per entrare nella Repubblica del Congo; inviai documenti e certificazioni alla Compagnia in modo tale da ottenere il mio visto lavorativo all’ingresso nel Paese e mi preparai a stipare la mia vita all’interno di due grosse valigie. E quando mi ritrovai di fronte alla mia valigia gialla, destinata a diventare uno dei simboli del viaggio, mi resi conto di un’altra cosa: possedevo un numero smisurato di cose che non avrei potuto (e forse neanche voluto) portare con me in Africa. In special modo negli ultimi anni avevo collezionato una serie di oggetti, vestiti, cianfrusaglie varie completamente superflui, non necessari; avevo riempito gli armadi con abiti che avevano visto la luce del sole in poche occasioni, e che non avrei sicuramente portato in Africa. Perché mai la mia vita era piena di cose prive di senso? Chi diavolo aveva acquistato quella giacchina blu striminzita, o quel paio di pantaloni a palazzo? Non sto dicendo che la società mi aveva forzato ad acquistare quei vestitini, ma in un certo senso aveva spinto affinché li comprassi; mi aveva fatto intendere che voleva che io li comprassi, e che poi comprassi quella pochette che ben si amalgamava ai colori del vestito, e poi perché no, mi aveva persuaso che anche quei sandali fossero perfetti per completare il look. Tutto si basava sull’apparenza ed io, prodotto di una società sbagliata, avevo fatto parte di un consumismo fine a se stesso. L’avrei apprezzato e capito pienamente poi, viaggiando e muovendomi per il mondo, quanto poco valore abbiano le cose materiali in confronto al bagaglio culturale e personale che ogni volta che parliamo, interagiamo, ci confrontiamo con la vita degli altri si allarga, si espande, ma non pesa, anzi ci rende più liberi, più leggeri, più abili nel camminare nella vita. L’unica cosa alla quale non avrei rinunciato, allora come oggi, erano i miei amati libri: romanzi, enciclopedie, thriller, di viaggio; e nonostante mi fossi regalata qualche anno prima un Kindle non ero ancora riuscita ad accettare quella lettura digitale, non riuscivo proprio a concepire la mancanza della carta, del profumo del libro, del peso concreto di quattrocento pagine di avventure, segreti, curiosità e personaggi, che alle volte mi parevano più reali dei fantocci che mi scorrevano davanti nella tabaccheria del centro commerciale. E così in quella prima valigia che mi avrebbe accompagnato in Congo ci feci anche stare alcuni libri. Terminate le valigie le guardai e con aria sollevata pensai che sì, la mia vita ci stava comodamente in quei due grossi borsoni da venti chili ciascuno.

    Il viaggio a Milano Malpensa quella mattina non lo ricordo: rivedo la tensione, il caffè caldo preparato da papà come ogni mattina, il saluto ai miei gatti sornioni, ma non ricordo alcun dettaglio del percorso che da Desenzano ci portò a Milano; è come se quella diapositiva nella mia esistenza mancasse, come se l’avessi presa e lasciata da qualche parte, ma non mi capacito di dove posso averla lasciata. Il ricordo sbiadito e fumoso si fa più nitido dal momento in cui mi avvicino alla linea di demarcazione oltre la quale soltanto i viaggiatori possono transitare. Non riuscivo ad essere forte, non volevo esserlo; anzi, mi sentivo come un cucciolo bisognoso di affetto; volevo soltanto che quell’abbraccio con mamma e papà non terminasse mai, volevo portarli con me, volevo stiparli dentro il mio zaino ed avventurarmi con loro in questa nuova esperienza di vita; sentivo le lacrime scorrere lungo le mie guance accaldate, e percepivo la tensione di mamma e papà, che tentavano in ogni modo di non lasciarsi andare, cercavano invano di non lasciar vedere quanto quel distacco sarebbe stato pesante per tutti. Negli anni avevo viaggiato tanto, avevo conosciuto ed esplorato una porzione (seppur minima) di mondo, ma alla fine ero sempre tornata a casa, al nido caldo ed accogliente. Era il momento che forse avevo desiderato di più nell’ultimo anno, ma irrazionalmente mi sentivo talmente terrorizzata che avrei voluto tornare indietro, riprendere i miei bagagli, tornare in auto, e guidare nella direzione opposta; perché in quei momenti l’incertezza per quell’ignoto tanto sognato fa paura, è destabilizzante, mi faceva tremare le gambe e dubitare delle mie scelte.

    Passati i controlli di sicurezza e salutati per l’ultima volta i miei genitori intrappolati dall’altro lato delle grandi vetrate, mi lanciai verso il gate d’imbarco; decisi di regalarmi un ultimo buon caffè in uno dei tanti bar che costellano ogni aeroporto al mondo e, considerato il largo anticipo che ancora mi divideva dal mio volo, decisi di accomodarmi ad uno dei tanti tavolini: io, il mio zaino e un miscuglio di stati d’animo a cui ancora oggi non riesco a dare un nome. Cercando di non perdermi nelle mie giravolte mentali, mi ritrovai ad osservare le vite in transito, vite rincorse, vite sospese. Sarebbe diventato uno dei miei passatempo preferiti, il people watching (come la mia cara amica Claudia l’avrebbe poi descritto): dovendo passare svariate ore nell’area di transito di diversi aeroporti, come uno spettatore a teatro, osservavo i generi di essere umano che mi sfilavano sotto il naso, che creavano inconsciamente storie di qualche minuto, qualche istante, prima di scomparire per sempre dal mio palcoscenico. Facce abbronzate solcate da sorrisi mesti che sono un chiaro segnale del ritorno alla realtà; occhi stanchi per le tante ore di volo nascosti dietro giganteschi occhiali da sole a qualunque ora del giorno e della notte; signore truccatissime strizzate in vestitini dai colori vivaci e ragazze acqua e sapone che come me per viaggiare hanno scelto la comodità; businessmen in giacca e cravatta, completamente risucchiati da cellulari, tablet ed auricolari, mossi da fili inesistenti come marionette ad uno spettacolo di burattini; ragazzi schiacciati sotto il peso di enormi zaini che già di per sé avrebbero tante storie da raccontare; viaggiatori esperti che si muovono come in un balletto tra impacciati turisti alle prime armi, bloccati nel bel mezzo dei corridoi con le carte di imbarco tra le mani e lo sguardo interrogativo rivolto agli schermi luminosi; culture che si mescolano, si toccano, si guardano in faccia per pochi secondi per poi continuare la corsa ai loro gates; uomini, donne, bambini, anziani, disabili, musulmani, cristiani, indiani, tutti in bilico tra sconosciuto e quotidianità, routine ed avventura, sogno e realtà.

    Finito il mio caffè mi alzai, riportai la tazzina al bancone del bar, salutai sbadatamente il cameriere che non mi degnò neanche di uno sguardo intento com’era a produrre caffè e cappuccini e ripresi la mia strada verso il gate, B1; feci una capatina alla piccola libreria che si trovava proprio di fronte al gate alla ricerca di qualche altro giornale che potesse nutrire la mia mente per quelle ore infinite coi piedi staccati da terra. Gli altri passeggeri iniziavano già a branchi ad avvicinarsi al gate, sparpagliandosi sulle poltroncine tutt’intorno. Quello sarebbe stato il primo di tanti viaggi con un volo gestito dalla Royal Air Maroc, e rimanendo nascosta all’interno della piccola libreria ad osservare gli altri viaggiatori mi resi subito conto che probabilmente mi trovavo già in Africa: persone che mai si erano viste prima iniziarono ad intrattenere conversazioni di qualsiasi tipo, sbracciandosi, urlando, ridendo a pieni polmoni, parlando di politica, famiglia, e chissà che altro; jeans, camice e maglioncini avevano lasciato il posto ai tipici indumenti musulmani: lunghe tuniche dai colori del deserto, caffettani riccamente decorati, veli leggeri ad incorniciare i visi delle ragazze, e copricapi infeltriti magicamente in bilico sulle loro teste; e quando poi il gate annunciò la possibilità di imbarcarsi i passeggeri non formarono una fila ordinata e singola, ma si dispersero di fronte al gate come tentacoli di un immenso polipo, continuando a parlare ed urlare. Quando finalmente riuscii a farmi spazio, passare l’ultimo controllo biglietto/passaporto e raggiungere l’aereo una situazione assurda mi si parò di fronte agli occhi: pacchi, sacchetti, valigette, borsoni, tutto veniva stipato in modo irreale nei vani del velivolo, la signora al 30B urla parole incomprensibili a quella seduta al 16D, e questa risponde strillando e ridendo a due centimetri dal naso del vicino, sorridendo gentilmente dopo averlo fatto, il ragazzo al 12C attacca una musica tipicamente arabeggiante a tutto volume, il vecchino cammina avanti ed indietro nel corridoio del suq volante, col biglietto in mano, con il fez schiacciato sulla testa e le babbucce da casa già ai piedi, il bambino al 5A inizia a piangere e viene passato ad una signora (no, non la sua mamma che è seduta al 5B) che si alza nel bel mezzo del caos pre partenza e cerca impassibile di calmarlo. Mi fermai un secondo a guardare la scena che si stava muovendo tutto intorno a me e l’unica cosa che potei fare era sedermi, sistemarmi come meglio potevo, sorridere e godermi lo spettacolo che mi avrebbe prima accompagnata a Casablanca, e poi con un volo notturno, mi avrebbe trasportata nel cuore nero dell’Africa.

    07.01.2018

    Favorisca il passaporto

    Mi ritrovai accartocciata in un posto finestrino, con i muscoli del collo indolenziti, le gambe incastonate sotto il sedile del passeggero di fronte, e la mente offuscata. Avevo forse dormito un paio d’ore su quel volo notturno, un pò per la scomodità del sedile, un pò per l’agitazione che come magma liquido fuoriusciva da tutti i pori della mie pelle e rimbalzava all’impazzata all’interno del velivolo, un pò perché le hostess avevano deciso di servire la cena alle undici di sera e la prima colazione alle tre di mattina, scombussolando il mio ritmo circadiano di circa cinque ore. Aprii gli occhi lentamente, mangiai parte della mia colazione, chiesi due caffè e mi misi a fissare il mio riflesso nel finestrino: vedevo le occhiaie solcare un viso stanco e pallido, occhi che ore prima avevano pianto. Decisi di guardare oltre; l’aereo sembrava essere inghiottito da un enorme buco nero; cercavo riferimenti verso quella terra che ora appariva così lontana, così irraggiungibile, ma forse stavamo sorvolando parte del grande Sahara od eravamo nel bel mezzo del niente perché laggiù non s’intravedeva neanche una luce. Continuai a guardare fuori dal finestrino, aspettando l’alba; albe e tramonti ad alta quota sono sempre stati qualcosa di indescrivibile, da vivere intensamente; e così anche in quella occasione decisi di rimanere sveglia ed accogliere attivamente quel nuovo inizio; lo avrei capito poi quanto bello e rigenerante fosse assistere al nascere di un nuovo giorno, ad uno spettacolo quotidiano così unico ed ammaliante che lo si finisce per dare per scontato. In Italia non avevo mai pensato di lasciare il mio caldo nido per scivolare nel freddo della notte e rincorrere l’alba, ma nei miei vagabondaggi in giro per il mondo almeno un giorno alla settimana lo avevo dedicato a questo: puntando gli occhi verso l’infinito i tuoi occhi si ancorano a questa gigantesca palla infuocata e l’accompagnano nella risalita; e tutto, in maniera lenta, riprende vita e colore, riconquista le forme e le sembianze di cui la notte si era impossessata, tutto ricomincia a muoversi, ad interagire, a vivere.

    E questa volta, il sorgere del Sole mi aprì le porte di questa nuova strabiliante avventura. Atterrai all’aeroporto di Brazzaville-Maya Maya di prima mattina; mi ritrovai in una fila scomposta e assonnata di fronte ai banchi dell’immigrazione a compilare il documento d’entrata nel Paese; guardandomi attorno capii che però di turisti ce n’erano ben pochi: erano quasi tutti uomini d’affari, con cartelle in pelle in una mano ed il cellulare nell’altra; compilai il modulo e mi accodai nuovamente agli altri passeggeri. Una donnina bassa e formosa era seduta dietro ad una scrivania bianca e svogliatamente, senza neanche bisogno di parlare, controllava il certificato di vaccinazione contro la febbre gialla, indispensabile per entrare in Congo. Passato questo primo controllo mi ritrovai di nuovo in attesa; l’avrei capito poi, anche se già in Sudafrica lo avevo annusato: in Africa tutto si muove accompagnato da pole pole, malembe malembe, leve leve, piano piano, lentamente, con calma; e la fretta di noi occidentali sempre di corsa, sempre con lo sguardo puntato sul tempo che scorre, viene gentilmente buttata nel cestino. Così attesi un’altra buona mezz’ora prima di arrivare di fronte al cubicolo dove ad attendermi trovai un poliziotto paffuto, indolente, già stanco di prima mattina. La Compagnia me lo aveva assicurato più e più volte, il visto lavorativo sarebbe arrivato nel momento in cui sarei atterrata in Congo, quindi con me avevo la mia lettera d’invito per l’ingresso nel Paese ed il contratto lavorativo che comprovava le mie parole, altrimenti vuote. Il poliziotto prese il mio passaporto con fare apatico, e allo stesso modo cominciò a sfogliare una dopo l’altra le pagine del mio libretto giramondo; où est le visa?, e a quella domanda iniziai tutta la pappardella spiegando in ogni minimo dettaglio che la Compagnia mi avrebbe dato il visto lavorativo solo nel momento in cui sarei fisicamente arrivata nel Paese. Lo sguardo con cui mi guardava non era per nulla rassicurante; al termine del mio sproloquio mi disse solo di attendere, ed uscì dal piccolo stanzino trascinando i piedi pesanti, lasciandomi lì ad osservare, per la seconda volta nel giro di poche ore, la mia immagine riflessa. Aspettai per alcuni minuti, con gli sguardi un pò annoiati degli altri passeggeri dietro di me, ai quali rivolsi un sorriso gentile ed una scrollatina di spalla, come per dire non è colpa mia, non so neanche dove sia finito con il mio passaporto…. E mentre mi guardavo intorno un pò spaesata il poliziotto riemerse da chissà dove e mi disse come fosse la cosa più normale al mondo che avrei dovuto lasciare il mio amato passaporto lì in quel bugigattolo con lui perché il direttore dell’immigrazione non era ancora arrivato e non avrei quindi potuto ottenere il mio visto se non prima del pomeriggio. Lo guardai come se stesse parlando in arabo ed io non potessi comprendere quello che mi stava chiedendo. Mi presi alcuni secondi prima di rispondere; non avevo una scheda telefonica congolese, era comunque troppo presto per chiamare qualcuno della Compagnia; non c’erano molte soluzioni di fronte a me: chiesi dettagli per poter poi, chissà quando, recuperare il mio passaporto, osservai quell’uomo in divisa prendere il mio libricino giramondo e lanciarlo in mezzo a tante scartoffie, pregai che quella non fosse l’ultima volta che io e lui ci saremmo visti, e mi avviai verso i caroselli dei bagagli con una sensazione strana, di mancanza; non avevo mai lasciato il mio passaporto da nessuna parte, come diceva mamma tieniti sempre il passaporto attaccato che è la cosa più importante che hai; ed ora mi trovavo ad allontanarmi volontariamente dal punto immigrazione in Congo senza un documento di identità! Con questi pensieri-non-pensieri mi avvicinai al carosello numero 2, quello in arrivo da Casablanca, trovai i

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