«Ma tu chi sei?» - Alzheimer, la sindrome del tramonto
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Anteprima del libro
«Ma tu chi sei?» - Alzheimer, la sindrome del tramonto - Bette Ann Moskowitz
Perimetrie
Scritti periferici non marginali
MA TU CHI SEI?
Alzheimer, la sindrome del tramonto
Bette Ann Moskowitz
Traduzione di Gabriella Bacelli
MA TU CHI SEI?
Alzheimer, la sindrome del tramonto
di Bette Ann Moskowitz
© 2013 - Edizioni Exòrma
Via Fabrizio Luscino 73 - Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Collana Perimetrie
Illustrazione di copertina Daniel Cuello
Impaginazione omgrafica, roma
Traduzione Gabriella Bacelli
Edizione originale Do I know you?
, Kodansha America Inc., New York, 1998
ISBN 978-88-98848-82-9
A mia sorella
Prefazione
Ho cominciato a stendere queste note molto tempo fa, per cercare di calmare il dolore e mettere ordine nella confusione che ho provato quando mia madre ha iniziato a stare male e a perdere la memoria. Volevo cercare di capire cosa stesse attraversando, e indagare al contempo come sia la vita nelle condizioni estreme della vecchiaia, condizioni che, per quel che vedo, comprendono isolamento, debolezza, perdita della memoria, del rispetto e del controllo della vescica. Dopo qualche tempo ho cominciato a scrivere delle note d’altro tenore, informazioni pratiche, cose che avevo imparato cercando delle risposte a domande cruciali sulla sistemazione residenziale, l’assistenza sanitaria, il sostegno finanziario, legale e d’altro tipo a mia madre (o a me, che l’aiutavo). Col passare del tempo, ho voluto analizzare le possibilità di vita
in un posto come una struttura residenziale di cura, e come una società in cui si vive sempre più a lungo dovrebbe gestire tutti questi anni in più. Questo libro raccoglie tutte quelle note. Non è esattamente una guida che risponda a domande su che cosa fare e che cosa pensare, e in generale ho ignorato gli aspetti economici della cura geriatrica, perché di questo è stato scritto in altre sedi e da altre persone. Sebbene abbia parlato con degli esperti, il credito che posso avere deriva dall’esperienza in prima persona del percorso d’aiuto e, infine, dall’essermi fatta carico della decisione di dove mia madre avrebbe trascorso i suoi ultimi giorni. Questo è il libro che avrei voluto che ci fosse mentre mi trovavo a vivere quell’esperienza: qualcosa che mi potesse dare ciò di cui via via avevo bisogno, sotto forma di suggerimenti utili, testimonianze, rassicurazioni e supporto.
Il libro è una riflessione su quel che significa mettere via
un genitore, e cosa vuol dire convivere con questo tipo di realtà. Vorrei che fosse utile e che facesse pensare, senza però essere definitivo. Mentre scrivo, mia madre è ancora viva, e mentre gli ultimi giorni
diventano anni, non ho ancora la certezza che le decisioni che mia sorella e io alla fine abbiamo preso per lei siano state quelle giuste. I miei pensieri cambiano di giorno in giorno.
Il libro è anche la storia di mia madre. E poiché lei ne è la protagonista e tutto quello che so è filtrato dal velo di quanto accaduto in vecchiaia, questo libro non vuole essere oggettivo o scientifico. Talvolta tratterà di me e della mia famiglia, talvolta di mia madre nella sua ultima dimora. In quest’età incline alla confessione pubblica, dove l’intimità è divenuta moneta corrente, non ho alcun desiderio particolare di alzare la posta. Tuttavia, quello che ho visto e vissuto può essere d’aiuto per altri figli di genitori anziani, ed è con questo spirito che lo offro alla lettura.
* * *
Mia madre, Marie Tolbin, è nata a New York City un anno e venti giorni dopo l’inizio del ventesimo secolo, il 20 gennaio 1901. Per i successivi novantadue anni ha vissuto in pochi altri luoghi: con i suoi genitori nell’upper Manhattan, con il marito e le due figlie nel Bronx, ancora con il marito (dopo che mia sorella e io ci siamo sposate e ce ne siamo andate) a Long Beach, New York. Quando mio padre ha chiuso la sua attività e lei è andata in pensione – faceva l’insegnante –, sono diventati dei migranti stagionali
: i mesi invernali li trascorrevano a Miami Beach, in primavera tornavano a Long Beach e vi passavano tutta l’estate.
Quando mio padre è morto, a settantacinque anni, la mamma quasi subito si è trasferita definitivamente a Miami Beach, in un piccolo monolocale affacciato sull’oceano, in Collins Avenue. È stata la prima casa esclusivamente sua, in cui stava non in quanto figlia o moglie di qualcuno. Si è lasciata alle spalle tutti i mobili raffinati, seri e ben rifiniti della giovinezza e della maturità per ricominciare daccapo, arredando l’ambiente con intensi colori dorati, verdi sorprendenti, gialli carichi di speranza, molto diversi da quello che ci saremmo aspettati. Amava quell’appartamento. Lo teneva pulito come uno specchio. Non era permesso aprire i pesanti tendaggi bianchi, perché il sole avrebbe scolorito il sofà dorato, ma potevi scostarli di lato quanto volevi, per goderti la vista eccezionale dell’oceano e dell’orizzonte, di cui mia madre era orgogliosa come se li avesse creati lei.
Nel suo palazzo viveva una vera e propria comunità di anziani, per lo più in pensione. Avevano a disposizione una biblioteca, degli spazi ricreativi, un solarium. I residenti giocavano a carte, frequentavano corsi e organizzavano feste. In questa comunità, essere ricchi o di bell’aspetto era meno importante dell’essere ancora abbastanza in forma. Chi era in forze era un re. E così mia madre era una regina, rispettata e perfino adorata. Ci fece talmente l’abitudine che rifiorì, e sembrò affrontare positivamente la vedovanza e l’età avanzata come una liberazione, finalmente senza costrizioni, finalmente con il tempo libero per divertirsi e la disposizione d’animo per farlo. Senza esserlo mai stata prima, divenne una festaiola. Andava alle feste e ballava il cha-cha-cha. Giocava a carte e a mahjong,[1] ed entrò nel comitato che organizzava gli eventi sociali e pubblicava il bollettino delle attività del condominio. Ha iniziato a prendere lezioni di yoga a ottantaquattro anni e di acquerello a ottantacinque. Andava ai pranzi dell’associazione degli insegnanti in pensione, e incontrava vecchi colleghi e studenti. Aveva tutto il tempo che voleva per leggere – i libri erano l’unica cosa di cui fosse ingorda, e ora poteva assecondare questa passione andando alla biblioteca pubblica (quella nel suo palazzo non era abbastanza fornita) almeno una volta alla settimana, e divorando le provviste di romanzi tascabili che le inviavo regolarmente prima ancora che avessi il tempo di inviargliene altri.
La mamma ha deciso di trasferirsi a Miami senza consultare mia sorella o me; senza timore d’essere sola, senza alcuna preoccupazione per l’avanzare dell’età, si è costruita una nuova, magnifica vita.
Le sue uniche concessioni alla vecchiaia erano i foglietti che ci abituammo a vedere in giro per l’appartamento – vicino al telefono, in un cassetto del comò, perfino nello scolapiatti sopra il lavello – con i nostri nomi, indirizzi, numeri di telefono e le parole: «Se mi succede qualcosa, chiamate…». Un giorno ci disse, senza sentimentalismi, che aveva fatto in modo che il suo corpo venisse trasportato a New York una volta morta, per risparmiarci tribolazioni e spese.
Mia sorella e io sapevamo che la sua intenzione era quella di vivere fino alla fine della sua vita in questa che, in un certo senso, era stata la sua prima casa. Una volta, vedendo per strada una persona anziana particolarmente fragile e provata, mia madre disse brusca, alla sua maniera: «Se dovessi ridurmi così, fatemi fuori, sparatemi».
Nel 1988, quando aveva ottantasette anni, non potevo immaginare che si sarebbe ridotta così, o che sarebbe stata incapace di badare a se stessa. Non avevo un piano per quell’eventualità. Posso certamente aver immaginato con maggiore facilità uno spegnimento
rapido, invece di alternative più probabili come una casa di riposo o un’assistenza domiciliare o il venire a vivere con una di noi. Sapevo molto poco, infatti, di quello che l’invecchiamento porta con sé. Immaginavo la senescenza come un riflusso uniforme della marea, della corrente del sapere e della mente, come uno scivolare indietro al mare, per così dire. Ho imparato nei mesi e negli anni che invece assomiglia di più a un acido che cade su uno strofinaccio: compaiono dei grossi buchi in ordine sparso e ciononostante persistono dei punti inspiegabilmente resistenti, dove la trama del tessuto tiene. È possibile osservare solamente le parti intatte, e non i buchi. È possibile piegare e ripiegare lo strofinaccio più e più volte, per lungo tempo, e questo è ciò che abbiamo fatto mia sorella e io.
I segni del declino mentale e fisico della mamma sono stati, inizialmente, piccoli e sporadici. Progredivano lentamente e talvolta sembrava che fossero scomparsi. Questo ha causato confusione e ha determinato contraddizioni e indecisioni su come valutare quanto stava accadendo. Spesso non sapevamo che cosa dovesse essere motivo di allarme e che cosa indicasse una condizione solamente temporanea. Non sapevamo a chi chiedere. Qualche volta non sapevamo neppure che cosa chiedere. Questo comportamento è normale? E quest’altro? Chi ti può dire una cosa del genere? Un dottore? Un’infermiera? Persone che vogliono venderti i loro servizi assistenziali? Di chi ti puoi fidare? Quali sono i segni in base a cui è chiaro che una persona non può più prendersi cura di sé? Che cosa è secondario? Che cosa è invece di primaria importanza? Qual è il momento giusto in cui intervenire nella vita di una persona e assumere un ruolo protettivo, di custodia? Non dipende forse dalla persona stessa? E nel caso di un nostro caro, non siamo noi familiari a conoscerlo meglio di chiunque altro?
No, nel nostro caso non era così.
Se questo periodo è stato deprimente e sconvolgente per mia sorella e me, senza alcun dubbio è stato terrificante per mia madre. Quanto si sarà impegnata per cercare di nascondere le proprie disabilità, per cercare di aggirare i vuoti di memoria e distrarre la nostra attenzione (e anche la sua) quando si presentavano, in modo da non notarli. E tutto questo cercando allo stesso tempo di conservare le energie e ponendo attenzione alle crepe del marciapiede, così da non inciampare mentre camminava.
Si ricordava di prendere le pastiglie per la pressione? Come fai a sapere queste cose da lontano? Metti in dubbio quello che ti dice? Come fai a imporre dei cambiamenti a qualcuno, grandi o piccoli, quando quel qualcuno non è disposto a cambiare? Come fai a parlargli del suo deterioramento mentale e fisico? Le nostre difficoltà erano sicuramente aggravate dal carattere fieramente indipendente della mamma e dalla nostra sensibilità di figlie per lo più obbedienti. Lei poteva ancora alzare la voce, farci senza troppe cerimonie una lavata di capo, e noi ci saremmo tirate indietro. «Ma certo che mi ricordo di prendere le mie pastiglie!». Chiusa la conversazione.
Abbiamo parlato con dei conoscenti, abbiamo tenuto orecchie e occhi aperti, abbiamo letto articoli qua e là, ma nessun caso sembrava abbastanza simile a quello della mamma, e nessuna soluzione adottata da altri sembrava soddisfacente. E con mia sorella spesso eravamo in disaccordo, poiché ciascuna interpretava ciò che vedeva e udiva in modo differente. Mia sorella era in generale molto attenta a cogliere i segni del declino della mamma – io sentivo che era troppo attenta – e ingigantiva tutto. Secondo lei io non guardavo abbastanza, oppure minimizzavo cose a cui avrei dovuto prestare maggiore attenzione. Da parte mia, mi opponevo all’idea di mandare nostra madre in un istituto, che si trattasse di una casa di riposo o di una struttura assistenziale, ben sapendo che avrebbe preferito farsi sparare piuttosto che vivere in posti del genere (e io ero d’accordo con lei). Il suo appartamento era troppo piccolo perché qualcun altro potesse viverci insieme a lei, nel caso considerasse quest’opzione, cosa che non avrebbe fatto.
L’unica cosa su cui mia sorella e io eravamo d’accordo era che la mamma non avrebbe potuto vivere con una di noi. Anche lei, fino alla fine, l’avrebbe considerata la sua ultima scelta.
Per molto tempo ho pensato che, se fossimo riuscite a tirarla abbastanza per le lunghe, la mamma avrebbe semplicemente chiuso gli occhi, e questo sarebbe stato tutto. La realtà però non era così semplice. Lei si è mostrata troppo forte per morire e non abbastanza forte per sopravvivere incolume, così alla fine ha dovuto lasciare il suo amato appartamento e nessuno l’ha fatta fuori né le ha sparato. In un giorno d’autunno del 1992 è entrata in una struttura residenziale di cura a Long Beach, New York, e mentre scrivo queste righe è ancora lì. Ma non è stata la fine, è stato un altro inizio.
«Com’è la vecchiaia?», le chiedo. Mia madre ha diverse risposte. Una di queste è: «Puzza». Un altro giorno, però, dice con un’alzata di spalle: «È come qualsiasi altra cosa, solo che ti muovi un po’ più lentamente e non mangi molto».
Mia madre continua a essere così: schietta, pragmatica, con un senso dell’umorismo da sopravvissuta. Questa è la sua storia.
[1] Gioco da tavolo di origine cinese.
IL DECLINO
«Non mandate nessuno ad aiutarmi.
Se vengono, non li faccio entrare».
MIAMI BEACH, MARZO 1988
OTTANTASETTE ANNI
Cade.
Dice di essere inciampata nel bordo di un tappeto e di essersi slogata una caviglia. Chiama un taxi e va da sola al pronto soccorso dell’ospedale, dove viene curata per una brutta distorsione. Torna a casa, sempre da sola. Veniamo a sapere dell’accaduto solamente dopo i fatti, quando chiama mia sorella per informarci di che cosa è successo.
«Riesci a crederci?», ci chiediamo l’un l’altra. «Che donna!».
Altri dicono: «Che Dio la benedica!».
Lei dice che non è nulla, che non vale la pena agitarsi.
Però di cose del genere abbiamo sentito parlare anche da altre persone; ed è proprio quello che temevamo potesse accadere: tutto procede bene e poi all’improvviso cadono. E tu non sei lì ad aiutare.
Nonostante abbia gestito bene la situazione, pensiamo che l’abbia scampata bella. Rifiuta di indossare uno di quei dispositivi d’allarme del tipo sono-caduta-e-non-riesco-a-rialzarmi
, e non vuole sentir parlare di tornare a New York, dove sarebbe vicina a noi in caso d’emergenza.
«Sono in grado di badare a me stessa», dice. Noi però non siamo tranquille.
MIAMI BEACH, GIUGNO 1988
Viene a Long Beach, New York, per l’estate, come al solito, e per via del problema alla caviglia ha bisogno di aiuto nel fare i bagagli e durante il viaggio.
Io vado a Miami, in aereo. (Mia sorella e io abbiamo cominciato a dividerci i compiti, all’incirca in base ai nostri impegni e ai rispettivi caratteri. Lei si occupa di sentirla quotidianamente, io di aiutarla con il volo). Arrivo nel primo pomeriggio come previsto, in perfetto orario, e la mamma è sollevata perché non mi sono schiantata durante l’atterraggio. È suo tipico preoccuparsi. Essere terrorizzata per la sicurezza dei suoi figli è il suo modo di amarci. Quando ero giovane lo odiavo, ma adesso mi sembra bello che ci sia ancora qualcuno, su questa terra, che si preoccupa irrazionalmente per me, proprio come io ora mi preoccupo per i miei figli.
Non faccio in tempo a posare i bagagli che mia madre insiste per portarmi a vedere l’oceano. Rimandiamo a più tardi l’incombenza