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Qui non crescono i fiori
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E-book201 pagine2 ore

Qui non crescono i fiori

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Info su questo ebook

Salvatore, Damiano e loro padre a volte sembrano una famiglia come tante e si trovano gomito a gomito nell’officina meccanica che gli dà di che vivere. Damiano e Pietro, che lavora con loro, sognano però di lasciare l’isola dove si trovano e finire in televisione, a Salvatore invece basta l’amicizia di un cane e non si chiede perché il fratello maggiore lo odi, o che fine abbia fatto sua madre, né quando e perché il padre abbia cominciato a cedere all’alcol e all’autolesionismo: in quella terra brulla tra due continenti lui cerca semplicemente un equilibrio, ma è destinato a incrinarsi e nessuno può immaginarne le conseguenze. Luca Giordano ha esordito con questo romanzo commovente e crudele, dando subito prova di una maturità stilistica ed espressiva davvero insolita.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2021
ISBN9788894845211
Qui non crescono i fiori

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    Anteprima del libro

    Qui non crescono i fiori - Luca Giordano

    nulla.

    Parte prima

    Caccia

    Il cielo si sta sciogliendo.

    C’è un sole che pulsa calore, fuoco, e neppure un soffio di vento a smuovere le foglie secche dei pochi alberi che ci sono in giro. Sono mesi che non viene giù nemmeno una goccia.

    Terra ed erba bruciata.

    I due sono sull’Ape già da un po’, stretti uno all’altro con il rischio di rimanere incollati. Sudano. Stanno ritornando a casa dopo aver attraversato l’isola per consegnare un motorino che il padre ha finito di aggiustare questa mattina. L’hanno fissato al pianale con delle corde consunte, cinghie marroni per tirare su e giù vecchie tapparelle.

    A guidare è il più grande. Tiene gli occhi chiusi a fessura perché così gli sembra di vedere meglio, canticchia il pezzo che esce dallo stereo pur non conoscendo le parole. Una canzone inglese.

    Non becca nemmeno una nota.

    Salvatore, il più piccolo, guarda dall’altra parte, oltre il finestrino che non c’è, infastidito dalle gocce di sudore che gli colano sulla fronte e che prova ad asciugare con un fazzoletto di carta sbrindellato.

    Ha lo sguardo serio. Sembra immerso in chissà quali pensieri, ma sta solo maledicendo il fratello. Detesta quel suo modo insopportabile di guidare e il sorriso che gli sta perennemente appiccicato al viso.

    Salvatore non sorride. Non sorride quasi mai per colpa di un dente storto che tiene sempre ben nascosto. Si volta verso il fratello solamente quando gli sembra di sentire uno strano rumore.

    Lo senti?

    Ogni giorno partono dicendosi che non si fermerà proprio quella volta, che arriveranno come sempre a destinazione. Pregano. Girano la chiave. Ringraziano quando si mette in moto. Il borbottio del motore è sempre lo stesso, insiste rauco e continuo, accompagnato da scoppiettii improvvisi ormai familiari.

    Stamattina hanno capito subito che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Quando sono saliti faceva già un caldo infernale, hanno aperto le portiere sfiorando a malapena le maniglie che sotto il sole diventano piastre bollenti. Il motore ha faticato più del solito ad accendersi e dal cofano è uscito un filo di fumo.

    Si sono guardati per un istante, dubbiosi, hanno pensato entrambi di tornarsene a dormire.

    Questa volta ci lascia, si sono detti.

    Vedendoli immobili in mezzo al cortile, il padre è uscito dall’officina con le mani ancora sporche di grasso e gli ha urlato di sbrigarsi, Siete già in ritardo, così loro sono partiti senza lamentarsi perché quando usa quel tono conviene non contraddirlo.

    Lo senti, chiede di nuovo Salvatore.

    Non è niente, dice Damiano, e riprende a canticchiare.

    Dentro l’Ape hanno messo una radio per far passare il tempo, una di quelle a pile e senza antenna, che intercetta al massimo un paio di stazioni e trasmette perlopiù musica brutta e pubblicità di deodoranti, assorbenti e olio d’oliva. Canti religiosi.

    L’hanno fatto perché si annoiavano, perché non avevano nulla da dirsi e consumavano il tempo dentro quell’abitacolo a litigare per ogni piccola cosa. Ora che hanno la musica, però, la situazione non è cambiata. Litigano perché la cassa funziona a malapena, perché esce una mitragliata di rumori fastidiosi, che uno sopporta e l’altro no.

    Così viaggiano mantenendo lo sguardo in direzioni opposte e si evitano da quando sono partiti. Sudano da fare schifo e con questo caldo è una fortuna che l’Ape non abbia i finestrini.

    Non ci sono più dal giorno in cui si sono lamentati per l’ennesima volta del caldo e dello spazio che là dentro mancava. Il padre li ha ascoltati senza reagire, poi si è alzato da tavola, ha preso il martello dalla cassetta degli attrezzi ed è uscito.

    Li ha zittiti così. Ora avete l’aria condizionata, gli ha detto con il martello ancora in mano e un ciuffo di capelli che gli copriva gli occhi bassi sui vetri rotti. Loro l’hanno guardato e hanno preferito non protestare ulteriormente. Hanno pulito i sedili, si sono ritrovati qualche cristallo sotto pelle che hanno tolto a fatica e sono rientrati come se non fosse successo nulla.

    I vetri sono rimasti sul terreno davanti a casa per chissà quanto.

    Spegni quella cazzo di radio, prova a imporsi Salvatore. La canzone che passa ora è una delle preferite dal fratello, lui lo sa e per questo insiste. Damiano fa finta di non ascoltarlo, continua a guidare e a cantare. Puzzano. Salvatore osserva il fratello per un po’, poi trova il coraggio di spegnerla.

    La gomitata in pieno stomaco è l’unica mossa possibile quando si è in due dentro un Ape, Damiano non ci pensa su. A Salvatore manca il fiato, si piega dal dolore e, mentre si lamenta, il fratello riaccende l’apparecchio e la musica riprende a gracchiare.

    Fanculo, dice lui a denti stretti, respirando a fatica e massaggiandosi la bocca dello stomaco. Sputa.

    Qua e là, sparsi, ci sono alberi che si attorcigliano su se stessi e qualche capanno per gli attrezzi abbandonato. Ci sono zone in cui qualcuno è riuscito a far crescere il grano, animali chiusi in piccole stalle bollenti e cani randagi che vagano alla ricerca di cibo e acqua. Insetti. Rocce e distese di erba bruciata. Le ruote dell’Ape corrono su strade piene di sassi appuntiti, ma non è colpa loro se il motore si ferma.

    (I sassi, a volte, non c’entrano nulla.)

    Salvatore smette di guardare fuori e si volta verso il fratello che bestemmia mentre insiste con la chiave, un giro due giri tre giri. Niente. L’Ape ha arrancato per qualche metro con il motore spento e si è bloccato all’improvviso dopo l’ennesimo scoppio.

    Dal cofano è uscito del fumo nero, denso.

    La radio continua a trasmettere canzoni d’amore anche quando scendono e ispezionano il motore che scotta, che sbuffa, che sporca le mani di grasso. Inalano la fuliggine senza batter ciglio.

    Mentre Damiano cerca di capire quale possa essere il problema, Salvatore si allontana di qualche passo. Non riesce più a trattenersi, tira giù la zip dei jeans e piscia tranquillo. La polvere giallastra si alza e la terra si scurisce. Quando ha finito torna dal fratello, che non ha smesso un istante di chiamarlo e bestemmiare.

    Chino sul motore, Damiano sbuffa e poi ammette, Non c’è niente da fare.

    Papà ci fa il culo.

    Avrà quasi vent’anni.

    Ma noi ce l’abbiamo solo da otto mesi.

    Si siedono a terra, sconsolati, poggiano le schiene contro la portiera arrugginita, che ha iniziato ad arroventarsi.

    Hanno le bocche impastate dalla saliva mischiata alla sabbia, e non possono farci nulla perché non hanno neanche un po’ d’acqua.

    Portatevi l’acqua, gli urla ogni giorno il padre prima che partano.

    Aspettano che passi qualcuno. Anche Damiano comincia a irritarsi per la musica e le pubblicità che traboccano senza sosta dalla radio. Si muove di scatto, la spegne con rabbia, vorrebbe quasi scaraventarla via.

    Cicale.

    In questo silenzio improvviso si accorgono per la prima volta del frinire assordante delle cicale.

    I fratelli hanno la pelle scura quasi quanto i capelli, gli occhi, il lercio sotto le unghie. Hanno entrambi canottiere ormai diventate giallastre e fisici nervosi.

    Hanno sete.

    L’estate, intorno a loro, sembra non dover finire mai.

    Damiano si alza.

    Non ho voglia di aspettare, dice, Vado a casa.

    Salvatore osserva dal basso il fratello che si toglie la canottiera, gli ricorda che sono lontani, che ci metterà una vita per arrivare.

    E poi con questo sole, cerca di convincerlo. Riproviamo a farlo partire, aggiunge.

    È inutile, dice Damiano mentre si lega la canottiera lurida attorno alla testa per ripararsi dal sole, Ci ho già provato.

    È che non sei buono, si lascia scappare Salvatore prima che gli venga in mente qualcosa di meglio da dire. Damiano lo squadra e gli dice solo, Alzati. E lo ripete, Alzati da lì.

    Salvatore obbedisce cercando di non apparire intimorito. Sono uno di fronte all’altro, si fissano negli occhi, poi Damiano avvicina la sua fronte a quella del fratello e comincia a spingere.

    Tu adesso te ne rimani qua, dice digrignando i denti per sembrare più minaccioso, E controlli questo cazzo di catorcio. Salvatore può solo reggere lo sguardo, non dice nulla, urla di dolore soltanto quando il fratello gli tira una testata per sottolineare l’ordine dato.

    Secca, decisa, in piena fronte.

    A vederlo di spalle, mentre si allontana, la tentazione di prenderlo alla sprovvista è grande. Prima che Damiano sparisca dal suo campo visivo, Salvatore fa un fischio per attirare la sua attenzione. Non ha nemmeno bisogno di mettersi le dita in bocca, perché grazie al dente storto gli basta appoggiare la lingua sul palato e spingere fuori l’aria.

    Un fischio fortissimo, acuto.

    Ti vuoi sbrigare, gli urla quando il fratello si gira.

    Come risposta ottiene un gestaccio, e quando Damiano scompare dietro una collina secca di rocce e arbusti, Salvatore si risiede e cerca riparo nella poca ombra rimasta.

    Si guarda intorno e non c’è nulla se non sole, sabbia e cielo.

    All’orizzonte, la terra sembra evaporare.

    Una cavalletta gli salta vicino alla scarpa da ginnastica con la suola mezza staccata. Salvatore la osserva e aspetta che salti di nuovo.

    (Per un attimo è come se si guardassero.)

    E visto che non sembra avere intenzione di saltare di nuovo, lui avvicina piano le mani giunte a coppa, si muove lentamente e, prima che l’insetto se ne accorga, lo cattura. Lo sente dimenarsi, sente i piccoli arti appuntiti che sbattono contro i palmi e attraverso uno spiraglio tra le dita osserva la sua preda. Si chiede se le cavallette respirino. Avvicina l’orecchio alla mano, inutilmente. Per un attimo, lontano da casa e sotto un sole sempre più caldo, Salvatore ha qualcosa a cui pensare.

    Non pensa al fratello che sta camminando verso casa, non pensa alla noia che lo accompagnerà per tutta l’estate, come tutte le estati.

    Soffia per infastidire la preda.

    Pensa a quanto è leggera una cavalletta, a quanto si muove veloce tra le sue mani, e quando la schiaccia sorride perché non si aspettava potesse fare così tanto rumore.

    Nemmeno ci fai caso ai denti affilati e al sangue che gocciola dalle tue mani, al sangue che cade per terra e diventa fango mischiandosi con tutta questa sabbia. Puzzi di paura. Piscio e paura.

    Hai nelle orecchie un ronzio continuo e fastidioso.

    Non hai il tempo di realizzare quello che è successo, ma per un istante ti sembra di sentire odore di bruciato. Hai la vista annebbiata e piangi, piangi fortissimo. Fumo. Vedi tuo padre che ti porta via.

    I suoi baffi.

    Il volto tirato dalla fatica, la bocca che si spalanca in un urlo disperato. Ma non senti nulla. Solo un fischio, il legno che scoppia.

    Hai l’illusione di poter ricordare qualcosa di lei, il colore degli occhi, il neo vicino alla bocca. Il suo ultimo sguardo.

    Poi ritorni al sangue, alla paura, ai denti del cane sulla tua carne. Al ronzio che ti martella la testa, all’uomo che ti guarda dall’alto. Non ti accorgi che, prima di non vedere più nulla, ti passa davanti agli occhi solo il primo ricordo della tua vita. Te lo porti dietro, nitido, ma non sai cosa sia.

    Ti porti dietro l’odore di bruciato e il calore delle fiamme.

    Ogni metro è come un minuto di vita in meno.

    Il sudore comincia a bruciare la pelle e la canottiera sulla testa non basta più per ripararsi dal sole. Damiano ha l’impressione di essere sul punto di svenire, ma continua a camminare. Non si ferma ma bestemmia sottovoce, le scarpe che gli fanno bollire i piedi.

    Ha l’impressione di sentir nascere delle vesciche e zoppica impercettibilmente, come sempre, per colpa di quei due centimetri che gli rendono la gamba destra più corta della sinistra.

    C’è stato un momento in cui ha avuto paura di aver sbagliato strada. Si è fermato guardandosi attorno per cercare un punto di riferimento e, scorgendo in lontananza un pilone della luce su cui una volta aveva cercato di arrampicarsi, gli sono tornate in mente le camminate che faceva per andare a scuola le mattine in cui il padre non poteva accompagnarli. Quei tre quarti d’ora che non passavano mai, sotto il sole, al caldo o con il vento che a settembre nell’isola cominciava a farsi potente. Quello che preferiva era essere sorpreso da uno di quegli acquazzoni improvvisi, violentissimi, e correre nella terra che in poco tempo diventava fango, bagnarsi sperando di ammalarsi per saltare qualche giorno. Iniziare a starnutire durante le lezioni.

    Il pensiero della pioggia lo rassicura, riprende a camminare un po’ più spedito, ma la casa non gli è mai sembrata distante come oggi, il giorno più caldo di questa estate che chissà quando finirà. Cammina con lo sguardo serio, affaticato, non si toglie dalla faccia quell’espressione fino a quando non vede casa. Finalmente, sorride.

    Sorride a quell’ammasso di mattoni scheggiati, al frigorifero scrostato abbandonato in cortile, ai motori, ai pezzi di ricambio e a tutte le cose buttate a caso vicino all’officina. Vorrebbe entrare, bere qualcosa e buttarsi sul divano, ma c’è qualcuno in bilico sul bordo del tetto, che si lamenta e armeggia con una cosa bianca che sembra un disco volante. Da lontano non riesce a riconoscerlo, ha la vista confusa dalla fatica e dal sudore, così la figura sul tetto è solo una massa informe e sfocata. Rumorosa.

    Capisce che è Pietro solo quando è a pochi metri da casa. Lo vede muoversi disinvolto, maneggiare la parabola con movimenti leggeri

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