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Insieme nel buio e altri due racconti
Insieme nel buio e altri due racconti
Insieme nel buio e altri due racconti
E-book159 pagine2 ore

Insieme nel buio e altri due racconti

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Info su questo ebook

Un pensionato scomparso. La sua automobile data alle fiamme. Un ciclista che incrocia un Suv in fuga dal luogo dell’incendio.
È l’inizio del racconto: “Insieme nel buio”, nel quale, lentamente, emerge una realtà dove crimine, politica e forze dell’ordine sono unite per nascondere cosa è successo in una certa contrada della città di Savona. Nelle piccole città ci sono segreti pericolosi, e non è sufficiente essere ligi al dovere per restare al sicuro.

Nel racconto “Il risolutore” le frequentazioni di un candidato alla Provincia rischiano di mandare a monte mesi di campagna elettorale, proprio quando la vittoria è a un passo. Ci penserà “Il risolutore” a risolvere il problema. Mentre ne “La lezione” è il confronto, senza misericordia né futuro, tra una giovane che vive in un container nel bosco e un imprenditore senza scrupoli il cuore “bello e terribile” che conclude questa opera piccola, ma interessante.

Storie brevi, scene di vita di provincia che registrano la deriva di una società verso un territorio dove compassione o pietà sono concetti meno che astratti: perché si sono dissolti per sempre. Forse.

LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2010
ISBN9781452329024
Insieme nel buio e altri due racconti
Autore

Marco Freccero

Marco Freccero, ligure, è nato nel 1966 in provincia di Savona, dove risiede. Autodidatta, ha svolto diversi mestieri: garzone, operaio, magazziniere, autista, addetto alla vendita...Da anni si occupa della produzione di videocorsi e libri elettronici per la piattaforma Apple. A che scopo? Spiegare come usare al meglio iPhone e Mac.

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    Anteprima del libro

    Insieme nel buio e altri due racconti - Marco Freccero

    Breve prefazione dell’autore

    Nel 2010 (ma forse era prima: non ricordo…), ripresi a scrivere dopo 5 anni di distacco dalla scrittura. Avevo gettato via decine di libri, in modo da liberarmi da questo maledetto morbo dello scrivere, che mi aveva regalato solo delusioni.

    La prima storia che produssi dopo tanto silenzio fu un maldestro omaggio a Leonardo Sciascia, e la intitolai, dopo diverse riflessioni e cambiamenti: Insieme nel buio. In origine era Il male: un titolo pretenzioso, vero? A quella ne seguirono altre due: Il risolutore e La lezione.

    Pubblicai il file su Amazon.com quando la versione italiana del sito non era ancora disponibile. Dopo circa un anno, decisi di eliminarlo dalla vendita; pessima scelta, perché oltre ad aver venduto un centinaio di copie, quelle storie avevano raccolto una o due recensioni positive. Di una sono certo, dell’altra no, quindi chi legge deve fidarsi di quanto dico.

    Ho deciso di pubblicare di nuovo quelle storie, con il titolo di allora. Ha senso una mossa del genere? Soprattutto, perché scelsi di toglierle dalla vendita?

    Non mi piacevano più, ma adesso mi rendo conto che fanno parte di me. Anche se non scrivo più in quel modo (spero di aver fatto qualche progresso da allora), un autore non può voltare le spalle a quello che ha prodotto.

    Adesso faccio un uso moderato del gerundio (lo considero come i dossi artificiali che si incontrano sulla via: rallentano il viaggio del lettore). Gli avverbi in " mente " li uso pochissimo.

    Soprattutto i temi che provo ad affrontare, sono differenti.

    Non ho molto altro da aggiungere, quindi smetto di scrivere questa prefazione e spero che tu possa apprezzare questi miei vecchi racconti.

    Buona lettura.

    Savona, maggio 2017.

    Capitolo 1 - Insieme nel buio

    Quella mattina Osvaldo Spaccapietra, di anni 68, ex portuale della compagnia Pippo Rebagliati, lasciava la propria abitazione di via Verzellino, a Savona, per il piccolo podere.

    Vi si recava per dare da mangiare al suo terrier di un paio d’anni, e constatare per l’ennesima volta quanto fosse difficile spremere qualcosa da quel fazzoletto di terra. Lì aveva costruito un magazzino abusivo col tetto di lamiera, dove ricoverava i pochi attrezzi; e lì si aggirava tra i rachitici alberi da frutto, e i miseri ortaggi, crollando la testa. Amareggiato che lavoro e passione fallissero senza regalargli la gioia di un racconto decente.

    Aveva acquistato quella terra tre anni prima, con una parte della liquidazione, in un posto tranquillo, soleggiato, alla periferia della città; in quella che era conosciuta come contrada di C. Pianeggiante, con un piccolo torrente che non tradiva nemmeno d’estate, aveva, a un tiro di schioppo, un paio di confinanti nelle sue medesime condizioni. Vale a dire pensionati, contadini di ritorno e insoddisfatti di quella terra che non dava niente, o quasi. Con o senza concime, anche ricorrendo a fertilizzanti dell’ultimissima o ultima generazione, o di quella precedente ancora, si poteva star certi che non si cavava un ragno dal buco.

    Doveva rientrare per il pranzo attorno all’una; ma all’una e trenta non si era ancora visto. Idem alle due. Eppure era un uomo puntuale, forse un po’ troppo taciturno.

    Questo pensava la moglie, la signora Carla, quando la voce al telefonino le comunicò, giuliva, che l’utente da lei richiesto era al momento irraggiungibile. Che sciocchezza, borbottò: era sempre stato raggiungibile. Così chiamò il figlio, perché andasse a vedere se era successo qualcosa. Finirono con l’andare entrambi.

    Dopo mezz’ora giunsero al podere e notarono che la Panda rossa a trazione integrale non c’era. Non era possibile nasconderla perché a parte il fabbricato, non c’erano che i campi brulli e spogli che digradavano, pochi alberi di albicocche, amarene, un paio di ciliegi e verso il torrente, canne e rovi.

    Diedero un’occhiata all’interno del magazzino, dove tutto era in ordine. Tornarono all’aperto, ne percorsero il perimetro con attenzione, come se fosse stata una gigantesca costruzione pronta a svelare chissà cosa. Non c’era niente di niente. A parte la pena che saliva di secondo in secondo.

    Scorsero qualcosa che penzolava da un ramo, a una trentina di metri dalla porta del magazzino, dove si trovavano. Si avvicinarono. A un albero da frutto riconobbero il terrier. Impiccato.

    Impallidirono entrambi, e quasi svenne la moglie a quella vista.

    Quel tempo, e il dolore, la loro vita insomma, sarebbero appartenuti anche a giornali, televisioni e polizia. Almeno per un po’.

    ***

    Attorno alle tre di quella giornata, ed era sabato, Michele Parodi pedalava duro per la salita isolata e bucherellata che attraversava il bosco, alle spalle della città. Era ottobre e faceva caldo.

    A 33 anni aveva ingaggiato, con la supervisione del medico di famiglia, una guerra più o meno senza quartiere contro il colesterolo. Per questo nel fine settimana piegava pedali e schiena sulle strade dell’entroterra, con la speranza di perdere chili, e guadagnare in salute.

    Sulla strada niente e nessuno; d’un tratto il ruggire di un motore di un veicolo che sbucò da dietro la curva, a circa 30 metri davanti a lui.

    Era un Suv nero che strizzò le larghe gomme sulla ghiaia che occupava pure il centro della carreggiata, e si lanciò a tutta velocità sul corto rettilineo. Poi rallentò, rallentò ancora quando incrociò Michele, e i due uomini alla guida, celati da occhiali scuri, corti capelli neri e mascella squadrata, lo fissarono.

    L’uomo pensò: Minchioni da Suv.

    Si alzò sui pedali, e riprese a pedalare con vigore.

    Poco dopo la curva vide una colonna di fumo alzarsi dal bosco. Accese allora il telefonino mentre accelerava la pedalata, e giunse dove si stava sviluppando l’incendio.

    Sul bordo della strada c’erano due vecchi; uno di essi stava al cellulare. Indicava col braccio sinistro il luogo, come se l’interlocutore con cui era al telefono, fosse lì a pochi passi, e non comprendesse una cosa tanto elementare come il percorso da compiere per raggiungerli.

    Non era il bosco a bruciare. In una piccola radura che si raggiungeva percorrendo una strada sterrata in discesa, stava consumandosi tra le fiamme la carcassa di un’utilitaria.

    Michele arrestò la corsa facendo stridere i freni: «Salve».

    «Salve» replicò l’uomo che non era al telefono. Sorrise, squadrò quel ciclista spilungone, dal fisico asciutto, le gambe pelose e storte: indossava una maglia scura, e corti calzoni rossi.

    «Che brutto affare» disse Michele, e col capo indicò la macchina in fiamme; si slacciò il casco, e si asciugò il sudore della fronte col palmo della mano destra.

    «Eh, già». Il vecchio crollò la testa, e tornò a osservare l’incendio, le mani dietro la schiena, dondolandosi sui piccoli piedi.

    «Capita, a volte. Surriscaldamento, un corto circuito». Prese la borraccia e bevve. Sbuffò: «Bisogna sottoporre la macchina a controlli periodici. Questo abbassa i rischi». Ripose la borraccia, e tastò la pressione della ruota anteriore.

    «E le sembra normale? Dico, dover sempre andare dal meccanico perché altrimenti si rischia di trovarla in cenere?». Lo fissò di nuovo, mentre l’amico continuava a parlare al cellulare, ma si era allontanato di qualche passo. Ora faceva vistosi cenni di assenso col capo calvo e lucido per il sudore.

    «Non sempre. Almeno una volta all’anno. Se la si usa spesso, anche ogni sei mesi».

    «E le sembra normale?». Tornò a chiedere, irrigidendo il collo grande, e sgranando gli occhi infossati.

    «Quando ha fatto l’ultimo controllo?» chiese Michele. C’era un’aria calda, ma non proveniva dall’incendio; si levava dall’asfalto, e a ondate investiva le gambe. Tossì.

    «Non ne ho idea. Non è la mia».

    «Del suo amico». Michele si riallacciò il casco.

    «Non ha nemmeno la patente».

    «Ah». Fece, dopo un attimo di sorpresa; guardò di nuovo lo scheletro della macchina sovrastato da una nuvola di fumo nero come la pece. «Credevo fosse roba vostra».

    «Ma no! Io compro solo macchine giapponesi».

    «Non esploderà mica».

    «Stia tranquillo, lo ha già fatto. Per questo siamo qui. Eravamo da quella parte», e indicò con la mano il tratto di bosco alle spalle. «Per i fatti nostri. Cioè alla ricerca di funghi. Lei è esperto?».

    «Nemmeno un po’».

    «Be’, dicevo: quando si cercano funghi è come entrare in un tunnel. Si guarda solo il terreno, dove si posano i piedi. Nient’altro. È una specie di gara, se sa cosa intendo» disse abbassando la voce e indicando col capo l’amico. Sorrise: «Niente di che. Però sono soddisfazioni se si riesce a trovarne di più del proprio compagno. A un certo punto abbiamo sentito un botto: ci siamo guardati, non sapevamo cosa pensare. Cioè, uno viene in un bosco, e non si aspetta i fuochi d’artificio. Le pare?».

    «Certo».

    «Siamo corsi sulla strada, e abbiamo visto la colonna di fumo. Lei non ha sentito niente?».

    «No, mi spiace». Si stiracchiò.

    «Si capisce. È una questione di vento».

    «Vento». Ripeté Michele.

    «Sì vento, la direzione del vento». Agitò le mani robuste in aria. «Da dove tira, dove va. Questo che soffia è di mare, non sente?». Inumidì l’indice, e poi alzò la mano, per sincerarsi di non stare dicendo una sciocchezza: «Sì, proprio vento di mare. Non è cambiato».

    «Ecco perché salivo così bene».

    «Davvero non lo ha notato?».

    «Adesso che mi ci fa pensare, sì, è di mare. Avrei dovuto accorgermene. Ma la macchina che si è allontanata?».

    «Che macchina?».

    «Il Suv. Non lo avete visto?».

    «C’era un Suv?».

    Michele annuì: «L’ho incrociato mentre salivo. Andava di fretta».

    «Ah!». Fece il vecchio.

    «Comunque, tra poco sarà tutto finito». Tornò a voltarsi verso l’incendio.

    «Il suo amico sta chiamando i soccorsi?».

    «Sì, ma mica capiscono. È da cinque minuti che glielo spiega, e loro niente».

    «È una zona poco conosciuta, e anche la strada non è molto trafficata».

    «Sì, ma i soccorritori dovrebbero conoscere questi posti. Non possono sempre sperare che tutto accada in via Paleocapa».

    «Quello è vero».

    «Se uno abita in un bosco non può essere abbandonato a sé stesso».

    «Immagino che abbia ragione». Si massaggiò la schiena.

    «Pensi se ci fosse qualcuno là dentro» disse l’uomo.

    «Meno male che non c’è nessuno».

    «E chi può dirlo? Ma tanto ormai…». Allargò le braccia.

    «Lei pensa che…».

    «Non penso nulla. Però se c’era qualcuno, adesso è dal Creatore, questo è sicuro. Era già avvolta dalle fiamme quando siamo arrivati. E non avevamo niente per cercare di domarlo. Non è mia abitudine uscire di casa con degli estintori». E rise, colpendosi la coscia destra con una mano.

    «Certo. Voi non avete bisogno di nulla?» domandò Michele; e già immaginava l’arrivo dei Carabinieri: le domande, l’accertamento dell’identità dei testimoni, il resto del pomeriggio perso a causa di una faccenda che non lo riguardava.

    «Oh no, grazie. Come le dicevo, siamo qui per fare una passeggiata, trovare qualche fungo. Ma credo che per oggi, non cercheremo più nulla. Tanto, non era giornata». Si strinse nelle spalle.

    «È ora di tornare a pedalare, per me» disse; spense il telefonino, lo ripose, salutò e riprese la sua seduta di bicicletta.

    Dopo i vigili del fuoco, giunsero i Carabinieri, poi il sostituto procuratore della Repubblica. E a ragione.

    Era la Fiat Panda 4x4 di proprietà di Osvaldo Spaccapietra.

    ***

    Il giorno seguente, attorno alle nove, Michele sfogliava il quotidiano, dove la notizia della scomparsa del pensionato, e il ritrovamento della sua automobile nel bosco, occupava la prima pagina.

    «Forse ho visto qualcosa che può essere utile» disse alla moglie Francesca sospendendo la lettura. E appoggiò la schiena alla sedia in legno della cucina.

    Abitavano senza figli al terzo piano di un condominio di via Tripoli, nel quartiere di Villapiana. Circa otto anni prima, e due dal giorno delle nozze, avevano deciso di impiccare la loro vita a un mutuo per l’acquisto di quell’appartamento composto da un piccolo balcone, due camere e bagno, un minuscolo ripostiglio, e la cucina. Lui impiegato presso un istituto bancario cittadino, lei cameraman presso una locale rete televisiva.

    «Non c’era solo l’auto bruciata. Poco

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