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Mercenari
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E-book338 pagine4 ore

Mercenari

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Info su questo ebook

La cerimonia funebre del longobardo Guaimaro, che un tempo era stato un potente duca di Salerno, sta per essere celebrata in sordina. La campana rintocca, il vescovo è pronto per avviare la liturgia, finché una parola interrompe la solenne sacralità del momento: "Normanni".Si apre così il primo romanzo della serie che vede come protagonisti i sei fratelli Altavilla, nobili di origine normanna che contribuirono a cambiare per sempre il destino dell'Europa. Con il solo aiuto dell'ingegno e del proprio coraggio, gli uomini sfideranno i longobardi, il Papa e addirittura il Sacro Romano Impero, cambiando per sempre il corso della storia.Riportando alla luce un periodo storico spesso trascurato dalla narrativa europea, David Donachie riesce a coniugare con maestria accurati dettagli storici e finzione, accompagnando il lettore in un'avventura mozzafiato tra intrighi storici, battaglie all'ultimo sangue e personaggi intrepidi e valorosi. -
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2021
ISBN9788728015278

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    Anteprima del libro

    Mercenari - Jack Ludlow

    Mercenari

    Translated by Raffaele Guazzone

    Original title: Mercenaries

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2009, 2021 Jack Ludlow and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728015278

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga Egmont - a part of Egmont, www.egmont.com

    Prologo

    Per essere i funerali di un uomo un tempo tanto potente, le esequie vennero celebrate in sordina. I monaci del convento intonarono le loro salmodie, mentre l’arcivescovo di Salerno recitava l’officio in un tono che pareva un bisbiglio. Poche persone presenziavano la cerimonia, e i più importanti tra loro erano il figlio e la figlia del defunto. In cima alla torre campanaria, dove nessuna campana poteva battere tocco per paura di rivelare la presenza dei convenuti, un servitore, maglio alla mano, teneva d’occhio la strada per la città, nascosta fra le colline a nord.

    Il suo compito era dare l’allarme all’avvicinarsi di un pericolo, dal momento che quello che si stava svolgendo non era un servizio ordinario, ma comportava rischi ingenti sia per chi assisteva che per chi officiava il rito. I cavalli sui quali erano arrivati l’arcivescovo e il suo seguito erano nascosti alla vista sul retro dell’edificio, e per un osservatore distratto nulla d’insolito stava avendo luogo nella chiesa dell’abbazia.

    Il longobardo Guaimario, un tempo potente duca di Salerno, veniva sepolto secondo il rito latino, con quella semplicità che era stata la misura del suo regno, e quelli che lo avevano conosciuto in vita erano ben consapevoli che se n’era andato di crepacuore, deposto dalle sue terre e dai suoi titoli nobiliari, vittima di un tradimento diabolico. I monaci con cui aveva condiviso i suoi ultimi anni stavano seppellendo un fratello – non di maggiore né di minor valore rispetto a ciascuno di loro, al cospetto dello sguardo di Dio. Per l’arcivescovo, l’officio era quanto dovuto al generoso benefattore di un tempo, che aveva dato molto per la diocesi e protetto le proprietà della Chiesa dalle continue razzie del flagello delle coste italiane, i saraceni del Nord Africa e della Sicilia.

    Il giovane uomo che portava il suo stesso nome, Guaimario – da poco sedicenne – e sua sorella, Berengaria, di due anni più giovane, stavano tributando gli onori che spettavano a un padre amato e riverito, un uomo dal temperamento equo e riflessivo, in tempi che chiedevano decisioni inflessibili. Cresciuti nel palazzo ducale, la fortezza turrita del castello di Arechi, anche loro erano stati strappati alla quotidianità delle proprie esistenze. Ma se ciò che avevano perso era un tetto sotto cui vivere da signori, il padre si era visto togliere il feudo che la sua famiglia aveva conservato – non senza difficoltà, ma senza interruzioni – per trecento anni. Ora era destinato a riposare non con gli antenati, nella cappella di famiglia, ma accanto alla sorella maggiore, che in vita lui aveva amato moltissimo.

    Il singolo colpo ovattato che la campana fece echeggiare fu sufficiente a dare l’allarme: c’erano dei cavalieri sulla strada, armati, e si avvicinavano al galoppo. Al rintocco l’incarnato del vescovo si fece bianco come la semplice tonaca che indossava; per distogliere i sospetti aveva lasciato la mitra e i suoi fastosi abiti episcopali nella sacrestia della cattedrale di Salerno. Subito cominciò a farfugliare e a incespicare nelle parole della liturgia, travolto dal desiderio di essere ovunque tranne che in quel luogo. Pandolfo, principe di Capua, conosciuto come il Lupo degli Abruzzi, colui che aveva usurpato il ducato dell’uomo che stavano ora accompagnando alla tomba, professava la fede in Cristo, ma non aveva mai veramente temuto l’ira di Dio quando si trattava di usare la forza contro i suoi vicari in Terra. L’arcivescovo di Capua languiva ancora nelle segrete di Pandolfo e il suo collega di Salerno non aveva alcun desiderio di condividerne le sorti.

    «Normanni.»

    La semplice parola fu sufficiente perché il vescovo e il suo seguito si precipitassero a recuperare i loro cavalli nascosti. Dal campanile la sentinella teneva d’occhio l’approssimarsi dello squadrone, cavalieri bardati, armati di lance sulle quali sventolavano le insegne rosse e nere del loro capitano, Rainulfo Drengot, l’uomo che aveva fatto a pezzi l’orgoglio che il defunto serbava nel cuore. Un tempo cognato e alleato militare del duca, Rainulfo ne aveva sposato la sorella minore, ricevendo come dote la ricca signoria di Aversa. Dopo la morte di lei, rivelatosi uomo avido e privo di scrupoli, aveva trasferito la sua fedeltà da Salerno a Capua; atto che diede a tutti la misura di quanto potente fosse diventato questo mercenario normanno in uno scenario come quello della Campania, i cui equilibri di potere erano stati completamente sovvertiti dal suo voltafaccia.

    «Ora vedremo chi crede davvero nella vita oltre la morte» disse il giovane Guaimario, lo sguardo fisso sull’arcivescovo che si dava alla fuga. Il prelato non era l’unico: anche l’anziano abate aveva trovato buone ragioni per assentarsi, e così fecero pure alcuni dei suoi monaci. Ciononostante, ne rimanevano altri per cui la fede in Cristo, o l’affetto per il confratello scomparso, erano ragioni sufficienti a vincere la paura; così un monaco si fece avanti per terminare la liturgia mentre il corpo veniva calato nella tomba; gli altri si impegnavano a far scivolare la lapide sulla fossa che, in segno di rispetto, era stata scavata davanti all’altare maggiore della chiesa.

    La lastra di marmo, sulla quale erano stati incisi il nome e i titoli onorifici del defunto, fu collocata nella sua sede proprio mentre i primi colpi cominciavano a farsi udire al portone dell’edificio: senza dubbio, l’elsa di una spada normanna.

    Il figlio del defunto, a capo del drappello dei dolenti, fece scivolare tra le mani di un monaco un contributo per le casse del convento, una piccola scarsella d’oro, quanto gli consentivano le sue magre finanze; nulla di quanto un tempo suo padre aveva posseduto – terre, castelli, forzieri colmi di monete frutto dei diritti sui commerci portuali, gioielli e tesori di famiglia – era mai giunto nelle sue mani. Tutto era ormai di proprietà del Lupo.

    «Lasciateli entrare» disse Guaimario.

    «È per la vostra sicurezza, mio signore, e quella di vostra sorella.»

    «Fanno la guerra anche ai ragazzi?»

    «I normanni, mio signore, fanno la guerra a chiunque.»

    «Eppure sono cristiani, non posso credere che intendano violare la santità di questo edificio.»

    Il dubbio aleggiò sul volto del monaco; nella sua esistenza appartata mai aveva incontrato uno di quei diavoli del profondo nord che ora tempestavano furiosamente di colpi i battenti del grande portale, ma stando a quanto aveva udito non c’era da sperare che fossero dei sacrileghi meno sanguinari dei saraceni, che già molte volte avevano profanato quelle sante mura. Guaimario con un cenno fece segno al monaco di procedere, mentre prendeva posto dietro la tomba del padre, Berengaria a stringergli la mano.

    «Non temere, sorella. Se il principe Pandolfo ci avesse voluti morti, saremmo stati sottoterra ben prima di nostro padre.»

    Sperando che la propria fiducia fosse ben riposta, le rivolse un sorriso forzato ma rassicurante, facendo correre lo sguardo su quel lungo, pallido volto, sugli scuri occhi dal taglio sottile, sulla pelle immacolata, sul profilo che, seppure ancora acerbo, prometteva già molto. La sua bellezza era pronta a fiorire, ragione per cui avrebbe dovuto guardarsi da quei selvaggi anche per questa ragione, oltre che per la sua famiglia di provenienza.

    Entrarono con atteggiamento arrogante, una mezza dozzina di uomini massicci con i loro usberghi e gli elmi conici, mentre fuori, attraverso le porte ora spalancate, Guaimario poteva vedere l’intero gruppo dei cavalieri a supporto, appoggiati compiaciuti alle lance. Il capitano dello squadrone, più alto di Guaimario, portava la spada sguainata, un’arma pesante che difficilmente l’esile adolescente sarebbe stato in grado di brandire. I suoi stivali borchiati di metallo mandavano scintille sul lastricato di pietra man mano che avanzava.

    Guaimario riconobbe l’uomo semplicemente dalla corporatura e dal passo; era stato un tempo capitano degli uomini alle dirette dipendenze del padre, la sua guardia del corpo, sempre presente al suo fianco. Poco si scorgeva del viso, nessuna speranza di intravederne l’espressione, sebbene sotto le protezioni di naso e occhi gli angoli della bocca puntavano verso il basso in segno di disapprovazione. Marciò in avanti fino al lato opposto della pietra tombale e guardò in basso, poi fece scorrere la punta della sua arma sui caratteri dell’iscrizione latina che fregiava la lapide. Nel grugnito che proferì si coglieva una sfumatura di scherno.

    «Troppo morbido, quest’uomo.»

    «Troppo buono, Osmondo» replicò Guaimario «troppo fiducioso. Ignorava che la lealtà, per la tua gente, è solo un prezzo come un altro che ogni principe deve essere disposto a pagare. Solo, più caro.»

    «Forse che tuo padre non ha pagato Rainulfo per rivoltarsi contro Pandolfo?»

    «L’ha fatto, ma non l’ha ripagato soltanto con l’oro. Credeva di aver stretto un vincolo di sangue, solo per vederlo andare in pezzi alla morte di mia zia. Come se la passa quell’infame del tuo padrone Rainulfo con la sua nuova sposa? Se ha anche solo qualcosa in comune con suo zio Pandolfo, difficilmente dormirei sonni tranquilli, la notte.»

    In una frazione di secondo Osmondo di Vertin rivolse la punta della sua spada al petto di Guaimario che, giovane e cocciuto com’era, non diede cenno d’indietreggiare, mantenendo i suoi occhi fissi in quelli del mercenario. Incapace di piegare il ragazzo, mosse l’arma in direzione di Berengaria, mentre il fratello le stringeva energicamente la mano per frenarne ogni reazione. La spada si fece avanti come per toccarle il mento e sollevarlo. Guaimario la scostò con la mano libera, in modo delicato, ma deciso.

    «Siete cresciuta, giovane signora» disse il normanno. «Mi ricordo quando vi portavo sulle spalle.»

    «Sono cresciuta per odiare» rispose lei con voce ferma.

    «Non mi dire, forse quello smidollato che avete appena messo sottoterra è riuscito a dare alla luce una cucciolata fatta di fibra più robusta della sua.»

    «Non ci piegheremo mai davanti a te, Osmondo.»

    «No.»

    Lo spadone saettò improvvisamente sopra il capo di Osmondo di Vertin, e Guaimario si chiese se il suo fare provocatorio gli sarebbe costato la vita, anche in un luogo così sacro. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era mettersi davanti alla sorella, per proteggerla. Ma il normanno non lo degnava di uno sguardo. La spada si abbatté verso il basso, sulla lastra che copriva loro padre, scheggiandone l’iscrizione, parole che ne ricordavano discendenza e titoli acquisiti. Potevano averglieli strappati in vita, ma nella morte la tomba glieli aveva restituiti.

    L’antico capitano della guardia ducale rigirò la lama, per ottenere un effetto più deciso, tenendola con due mani e colpendo con forza verso il basso. Schegge di marmo cominciarono a volar via dalla lapide, mentre Osmondo di Vertin menava fendenti sulla pietra, facendo a pezzi le iscrizioni tracciate da poco e trasformandole in scarabocchi senza senso. Così finirono tutti i titoli di famiglia, simbolicamente sacrificati a quel covo di serpi che teneva i fili degli equilibri nella politica dell’Italia meridionale.

    Principati, ducati, contee conquistate e perse, ma mai cedute, poiché mai la potente famiglia longobarda aveva smesso di rivendicare ciascuno di quei titoli: principe di Benevento, duca di Salerno, conte di Puglia, Calabria, e perfino – un tempo ormai lontano – della stessa Capua. Tutti onori fatti a pezzi da un uomo che a stento possedeva la capacità di leggerne il nome. Dopo dozzine di colpi, il cui suono era amplificato dai muri di nuda pietra della chiesa in qualcosa di più sinistro perfino del gesto stesso con cui venivano inferti, Osmondo si fermò, e con il fiato corto guardò ancora una volta Guaimario. Dietro suo fratello, Berengaria piangeva.

    «Ecco. Lui non esiste più, né per i vivi, né per i posteri.» Guaimario non disse nulla; semplicemente si posò la mano sul cuore, un messaggio eloquente, che Osmondo recepì perfettamente.

    «Dovrei mettertelo a tacere quel risentimento, ragazzo. Potresti ritrovarti anche tu con una lapide di marmo sopra la testa.»

    «Non ho paura di morire.»

    «Me ne ricorderò, dovessi ricevere l’ordine di toglierti di mezzo.»

    Osmondo di Vertin non notò l’effetto che ebbero sul giovane quelle parole, ma l’espressione coraggiosa di lui celava un sospetto: dubitava che il normanno avrebbe commesso sacrilegio uccidendolo lì, in quella chiesa, ma ciò non significava che sarebbe stato ancora al sicuro una volta varcata la soglia. Osmondo gli aveva appena garantito che sarebbe sopravvissuto a quell’incontro, e se ci fosse davvero riuscito, avrebbe incominciato a prepararsi per il giorno in cui tutte le terre e le proprietà della sua famiglia gli sarebbero state restituite e quei barbari normanni sarebbero stati cacciati dall’Italia, o perlomeno ricondotti a una qualche forma di controllo.

    Erano passati quindici anni da quando i primi normanni erano giunti a Salerno, una banda di guerrieri di ritorno da peregrinazioni che li avevano impegnati per i primi diciassette anni del nuovo millennio. Anche se erano appena arrivati, armati semplicemente di spada e di un coraggio senza limiti, si erano fatti avanti per respingere una scorreria saracena contro la città, un’impresa coronata da tanto successo che parve ovvio a tutti chiedere loro di rimanere.

    Così non fecero, preferendo tornare a spargere la voce al nord, in una terra che brulicava di guerrieri del loro calibro, a cui mancavano combattimenti che li impegnassero davvero, se si escludevano scaramucce e lotte intestine. Vennero a sud come mercenari, accolti per la loro abilità militare, pronti ad aiutare i longobardi nell’abbattere il giogo di Bisanzio, un sogno ancora irrealizzato. Ma la loro presenza si era trasformata in una maledizione, cresciuta come una cancrena, finché nessun signore longobardo a sud dello Stato Pontificio poté ritenere il proprio feudo al sicuro da tali vicini, senza pagarli per il loro aiuto.

    Osmondo di Vertin, degno rappresentante di quella razza, girò sui tacchi e abbandonò l’abbazia con la stessa arroganza con cui era entrato. Dietro di lui un ragazzo e una giovinetta, a chiedersi non solo se un giorno avrebbero potuto riprendersi quello che spettava loro, ma soprattutto se mai avrebbero visto quei maledetti normanni lasciarsi alle spalle le loro terre.

    Capitolo 1

    1033

    Confine franco-normanno

    Guglielmo d’Altavilla cominciò ad avvertire l’approssimarsi della loro destinazione già prima che si rivelasse allo sguardo, anche se non era in grado di spiegare come, precisamente. Si tirò in piedi sulle staffe per annusare meglio l’aria, scostandosi dal lezzo di sudore della sua cavalcatura. Aleggiava quel familiare odore di stallatico e piscio di cavallo, mescolato a fumo di legna e all’aroma forte di carni arrostite, ma la nota predominante era quella di un invadente puzzo di latrina, insopportabile.

    «Questo, ragazzo» grugnì suo padre quando si fece avanti per chiedere spiegazioni «è il tanfo di un’armata ferma da troppo tempo nello stesso posto.»

    Tancredi d’Altavilla aveva preso parte a diverse campagne in passato, ed era per lui familiare quel fetore di uomini relegati con i loro animali in uno spazio troppo ristretto. Stupiva invece i suoi figli e i compagni della medesima età che cavalcavano con loro – non avevano mai visto né fatto parte di un esercito della dimensione di quello che si radunava sul confine normanno del Vexin, un’intera armata ducale raccolta nel medesimo luogo, pronta per la battaglia. Improvvisamente, Tancredi tirò le redini e si volse all’indietro fronteggiando il suo seguito.

    «Ricordate cosa vi ho detto» ammonì. «State attenti.»

    Obbligata a fermare i cavalli, la metà dei cavalieri che non aveva legami di parentela con chi parlava annuì con attenzione, poiché lui era il loro signore e padrone. I suoi figli, una mezza dozzina, indipendentemente dall’età, assunsero l’espressione vacua di chi ascolta una paternale ben nota, ripetuta fin troppo spesso.

    «Niente scherzi o buffonate» continuò; sapeva bene quanto i ragazzi riuscissero a cacciarsi nei guai. «Sarete in mezzo a uomini cresciuti, guerrieri veloci con il coltello e gelosi del proprio onore, poco disposti a prendere alla leggera le vostre stupide burle. Afferrate quel che sto dicendo?» Le ultime parole imponevano una risposta pronta, anche se falsa, da uno dei membri della famiglia. «Guglielmo, dico a te.»

    «Si, padre» rispose Guglielmo con lo sguardo stanco di un fratello maggiore sovente chiamato a fare le veci di genitore.

    «E ora, su la testa» concluse Tancredi, girando il cavallo e spronandolo al trotto.

    «Fate vedere a tutti loro che siete della casa degli Altavilla.»

    Parole che scatenarono l’esultanza comune, perché se di qualcosa quei giovani uomini andavano fieri, era della propria discendenza.

    * * *

    Oltrepassato il picchetto di vigilanza allestito per garantire la sicurezza interna del campo, il gruppo si fermò in cima a un’altura dalla quale la vista spaziava sull’esercito lì radunato.

    La Senna, vitale fonte di approvvigionamento che il loro duca avrebbe cercato di tenere il più a lungo possibile, scorreva sinuosa e argentata attraverso la valle, dove le sue acque si mescolavano a quelle dell’Epte in prossimità del villaggio di Giverny; laggiù, le terre normanne confinavano con quelle dei franchi capetingi.

    La riva nord era quasi spoglia, gli alberi abbattuti per fare legna e per spianare la strada alle centinaia di cavalli che, a turno, venivano condotti al fiume per abbeverarsi. Barche, alcune vuote, altre ancora cariche di grano, carne, biada, e avena, venivano tirate in secca su un altro tratto di riva ripulita da affaccendati servitori, che sgobbavano per scaricarle. Sul colle che dominava il campo sorgeva l’ampio doppio padiglione del loro feudatario, comandante in capo di quell’esercito: Roberto, duca di Normandia. Le sue insegne sventolavano a ogni angolo, cavalieri della familia, la guardia scelta, armati da capo a piedi stavano in bella vista a guardia dell’entrata, dove era appeso il gonfalone adorno di nappe che celebrava il titolo nobiliare del loro signore.

    «Cristo santo!» sbottò Guglielmo quando realizzò le dimensioni dello spettacolo che gli si parava di fronte.

    Tancredi lo guardò torvo a quell’esclamazione che puzzava di bestemmia: una cosa che non tollerava. Spesso i suoi figli trasgredivano in quella direzione – come facevano in molte altre – e altrettanto spesso doveva riprenderli, magari a suon di ceffoni. Questa volta lasciò correre; non aveva provato forse la medesima emozione quando lui stesso aveva, per la prima volta, fatto parte di una simile moltitudine, all’incirca alla stessa età del figlio, servendo il padre dell’attuale duca? Allora aveva combattuto contro i capetingi, la stessa gente con cui le schiere normanne stavano ora per stringere alleanza.

    In un istante Tancredi fu trascinato nella sua infanzia, fianco a fianco con suo padre, dall’altro lato suo zio di Montbray, nel cuore di una linea di cavalleria normanna; davanti a loro i ranghi dei franchi, gli scudi e il metallo delle armi che scintillavano nel sole ancora basso dell’alba. Poteva richiamare alla memoria con chiarezza la miscela di eccitazione e paura, la necessità di mascherare quella frenesia che avrebbe rivelato ai compagni più anziani tutta la sua ansia, le teste dei cavalli che sbuffavano e scartavano di lato, i pennacchi sulle lance dei cavalieri che avrebbero guidato l’attacco a sventolare nella brezza del mattino.

    Poi, finalmente, l’ordine di spingere avanti i cavalli, prima piano, tenendo la formazione, fino a rompere al trotto, segnale che lanciava l’attacco; la sensazione era che il mondo si rimpicciolisse, riducendosi a quel che c’era immediatamente davanti, al fianco destro e a quello sinistro: suo padre che alzava la lancia pronto a infilzare o a scagliarla, e lui che faceva lo stesso, la linea di scudi che si faceva sempre più vicina come un muro invalicabile. Ma si infranse, quel muro, dinnanzi alla carica della migliore cavalleria del mondo conosciuto.

    «Mai visto uno spettacolo simile, padre!»

    Quelle parole riportarono Tancredi al presente, e alla consapevolezza che, a Dio piacendo, i suoi figli avrebbero cavalcato al suo fianco in un contesto simile, guadagnandosi il posto che spettava loro, così come avrebbero fatto i loro vassalli, incluso il suo intrepido nipote di Montbray, guerriero valoroso e impaziente, nonostante avesse preso i voti da prete.

    «Nessuno può dirlo, ma forse, se la sorte vi favorisce, lo rivedrete spesso.»

    Serlone e Roberto, poco più che ragazzi, al seguito dei fratelli maggiori come scudieri, avevano spronato i loro asinelli per avvicinarsi a lui, bramosi di spiegazioni. I fratelli ne condividevano la curiosità, ma simulavano un’indifferenza che credevano più degna della loro maggiore età, strappando con il loro atteggiamento un sorriso al padre, considerato che a malapena arrivavano a diciott’anni. Con il dito puntato e la voce ben udibile a tutti, mostrò loro il padiglione ducale, e le più basse postazioni del connestabile e del primo maresciallo, dislocate poco sotto, lungo il pendio.

    Da là fino alle sponde del fiume si allargavano i vari battaglioni, che avevano sistemato i loro fuochi e i loro giacigli attorno alle piccole tende circolari dei signori di cui erano vassalli. Sul ciglio, all’ombra delle poche querce superstiti, il fabbro aveva temporaneamente installato una forgia, arroventato le braci e messo mano al martello. Similmente l’armaiolo era al lavoro con il suo aiutante, impegnato alla mola da cui volavano scintille, mentre le spade venivano affilate, le else avvolte di corda e le guardie delle mani messe in forma, per meglio accogliere le armi. Lì vicino, il sellaio si dava da fare al suo robusto bancone di legno grezzo, montato per l’occasione, sul quale riparava selle e bardature.

    «Le insegne dei Montfort, padre» esclamò Drogone, il secondogenito, indicando un vessillo distante, in prossimità del fiume.

    «Vedo, ragazzo, ma credo che, come cugini e parenti del duca nostro signore, convenga presentarsi prima a lui.»

    «Cosa che non farà certo piacere al signore di Montfort» ribatté Drogone con un mezzo sorriso, in attesa di una risposta rabbiosa; ma il padre non si scompose.

    «No di certo, ma può andarsene all’inferno» replicò Tancredi, facendo finta di scordarsi le proprie convinzioni in materia di blasfemia.

    Senza farsi vedere, Drogone scambiò uno sguardo divertito con Guglielmo che, troppo vicino alle ire del padre, non poté ricambiare. Il conte Evro di Montfort, di gran lunga più ricco in terre e beni, e il più potente dei loro confinanti, reclamava a gran voce gli Altavilla come propri vassalli. Tancredi era categorico sul fatto di aver ricevuto i suoi possedimenti direttamente dal duca; menzionare la questione dei Montfort era per il figlio un modo sicuro per irritarlo, specialmente considerata la sua natura suscettibile.

    Spronando la propria cavalcatura, Tancredi guidò il gruppo lungo il crinale, piegando verso l’interno quando furono a fianco del padiglione ducale, facendosi strada tra i cavalieri della scorta del duca, pochi dei quali ricambiarono i loro sguardi. Smontò davanti all’ampia apertura centrale, seguito dai figli. Gli altri sei del seguito fecero lo stesso, ben consapevoli del proprio compito: sarebbero rimasti con gli animali finché il loro signore non avesse sbrigato i propri affari.

    «Tancredi, signore d’Altavilla, con i suoi figli, in visita al cugino, il duca Roberto.»

    Uno dei cavalieri della familia si voltò a guardarlo: gli occhi ai lati della protezione del naso che non davano alcun cenno di benvenuto. L’uomo innanzi a lui lo aveva annunciato a chiara voce, per farsi intendere al di là delle tende, nella parte interna del padiglione, dove lavoravano gli scrivani e si affaccendavano i servitori. Uno di loro si sarebbe certo affrettato verso i quartieri del duca per comunicargli chi aveva chiesto udienza, e se veramente quel tale brizzolato era un parente, difficilmente se la sarebbe vista negare.

    Il costume imponeva che nessun uomo d’armi potesse rimanere di fianco a un suo pari senza essere attentamente valutato. Davanti a Tancredi stava un guerriero all’incirca della stessa altezza, bardato di usbergo di maglia ed elmo che sfoggiava i colori del duca.

    Come cavaliere della familia era parte del contingente di guerrieri che avrebbero combattuto personalmente fianco a fianco con il loro signore, e sarebbero morti per proteggerlo, se necessario. Da quanto si poteva scorgere, i suoi lineamenti erano affilati e duri, così il suo fisico, come si addiceva al suo ruolo e al suo incarico.

    L’esame del postulante signore d’Altavilla partì dai capelli grigi, spruzzati alle punte con un residuo del colore dorato che avevano un tempo posseduto. Il volto arrossato, segnato dalle intemperie e solcato da rughe profonde, era carico di numerose cicatrici che portavano il ricordo di duri combattimenti, sfregi sulle guance e un taglio che aveva intaccato pelle e ossa ben oltre la linea di protezione che un elmo dovrebbe garantire. Gli occhi azzurri erano duri quanto ferma era la mascella e, quasi ad accrescere la sensazione di pericolo che emanava quest’uomo ormai vecchio, con due dei suoi figli, piantati immediatamente accanto a lui, componevano una triade di stazza imponente, superandolo entrambi in altezza.

    La figura affannata che emerse dall’oscurità della tenda aveva il corpo curvo, la tonsura e le dita macchiate d’inchiostro tipiche dello scribacchino da convento, e la sua voce era flebile abbastanza da intonarsi all’aspetto. «Sua grazia, il nobile duca Roberto,

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