Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I sotterranei di Notre-Dame
I sotterranei di Notre-Dame
I sotterranei di Notre-Dame
E-book344 pagine10 ore

I sotterranei di Notre-Dame

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il libro più atteso e avvincente dell'anno

Un grande thriller storico

C’è un segreto nascosto nei sotterranei di Notre-Dame.
L’unico uomo che può svelarlo si nasconde in Vaticano…

PARIGI, 1301. Perché il re di Francia e i suoi uomini più fidati si aggirano furtivi nei sotterranei di Notre-Dame? Che cosa stanno disperatamente cercando? Filippo il Bello è disposto a tutto pur di scongiurare un evento fatale per il suo regno e la sua discendenza. Anche a mobilitare i migliori consiglieri perché raggiungano Roma: proprio in Vaticano, sotto la protezione del papa, si nasconde il celebre Arnaldo da Villanova, noto come il Catalano, geniale e discusso medico di Bonifacio VIII, un tempo al servizio di Filippo il Bello, poi accusato di praticare la magia. Ora il re lo rivuole presso di sé. Per quale motivo? Il pontefice nutre dei sospetti su quella richiesta e teme che Filippo il Bello stia orchestrando un complotto contro la Santa Sede. Per questo affida il compito di indagare al nipote, Crescenzio Caetani, giovane studente in Medicina, e a Dante Alighieri, delegato della Repubblica di Firenze. Addentrandosi nei meandri della Biblioteca Apostolica, sfogliando inestimabili trattati medici del mondo antico, i due tenteranno di scoprire cos’è che tormenta il monarca più potente della cristianità. Un segreto che il Catalano, custode della tradizione magica dell’Oriente, pare conoscere, ma che non sembra disposto a rivelare…

Una terribile minaccia è nascosta nei sotterranei della cattedrale di Notre-Dame
L’unico uomo in grado di porvi riparo si trova in Vaticano

Perché il papa si affiderà a Dante Alighieri?

Hanno scritto dei suoi libri:

«Una studiosa che ha dedicato anni di lavoro e altre opere a questo argomento… Si legge con gusto.»
Umberto Eco

«È un libro che si beve.»
Corrado Augias

«La fantasia del lettore già corre.»
la Repubblica
Barbara Frale
(Viterbo, 1970) è una storica del Medioevo nota in tutto il mondo per le sue ricerche sull’ordine dei Templari. Autrice di varie monografie scientifiche, ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e documentari storici entrando nel dibattito internazionale su temi di vivo interesse per il grande pubblico quali il processo ai Templari e la Sindone di Torino. Nel campo della narrativa storica, ha pubblicato i romanzi La lingua segreta degli dei e Il gioco degli arcani, e curato, in collaborazione con Franco Cardini, la consulenza storica per la serie I Medici. Master of Florence in onda sulla RAI.
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2017
ISBN9788822715944
I sotterranei di Notre-Dame

Correlato a I sotterranei di Notre-Dame

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su I sotterranei di Notre-Dame

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I sotterranei di Notre-Dame - Barbara Frale

    1. La Bestia dell’Apocalisse

    Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la tua mano verso il cielo e vi siano tenebre nel paese d’Egitto, così fitte da potersi toccare!».

    Esodo, 10. 21

    I

    Squarci di lampi in un cielo nero come un abisso. Il cavallo scartò terrorizzato. Ripresosi, voltò l’angolo con troppa foga. Il selciato di Parigi era un lago di fango. La bestia scivolò, il fuggiasco fu scaraventato a terra.

    Si rialzò di scatto. Dio, che botta in testa! L’elmo trace gli aveva salvato la vita, un’altra volta. Ora doveva trovare il fiato per scappare, darsela a gambe dentro i vicoli della Rive Droite, e giù a perdifiato nella tenebra notturna verso il luccichio della Senna all’orizzonte, lo slargo di Place de Grève, le zattere ondeggianti sull’acqua, la linea lunga del ponte, le case illustri intorno a Notre-Dame. La luna donava alla grande facciata un carisma spettrale. Diavoli e santi, beati e profeti di pietra lo fissavano con il loro sguardo severo, quasi ce l’avessero con lui.

    La marmaglia dei pitocchi assiepati a dormire sul sagrato della chiesa lo vide. Il loro vociare confuso come le strida di tanti insetti brulicanti si fermò di colpo.

    «Guardate! È Lanius», bisbigliò qualcuno.

    Silenzio, e un’onda di paura che correva sottopelle.

    «Scansatevi. Avanti!», ordinò il capobanda.

    Era il più vecchio in quella sinistra congrega di gente un po’ misera e un po’ miserabile. Innocui mendicanti di giorno, ladri e tagliagole di notte, nemici giurati dell’Ospizio dei poveri e delle guardie del temutissimo Signore il Re.

    Nessuno si oppose. Nessuno osava. Quando appariva senza preavviso, ferale e devastante come una forza della natura, quel maledetto bastardo lasciava sempre uno sfregio sul volto dorato della Parigi che conta. Non si sapeva nemmeno se fosse del tutto umano, o magari un demone vomitato fuori dalle viscere della terra. Lo spaventoso elmo che portava in testa era diventato nero, dicevano, perché bruciato dalle fiamme dell’inferno.

    La teppaglia si aprì in due all’istante. Il fuggiasco era fra loro e nessuno voleva stargli troppo vicino. Alto, possente, feroce. Passò rapido con quella sua andatura equivoca da gladiatore romano, con quella grande scure bipenne sporca del sangue di tante vittime. Non parlò. Un’occhiata veloce al loro capo, che annuì senza fare un fiato. Si erano cavati fuori dai guai a vicenda, e non una volta sola. Il vecchio pitocco era la sua bussola per orientarsi lungo le rotte della città notturna, quando quella specie di chimera vivente s’inabissava nel buio per mandare a segno qualcuna delle sue malefatte. Lanius lo ripagava trovando il modo di allontanare la morte dal capobanda e dai suoi, muoveva le giuste leve nei palazzi del potere, e così facendo li metteva al riparo dalla mannaia e dalla forca. A legarli c’era un patto di ferro stretto tacitamente in nome dell’aiuto reciproco; né l’uno né l’altro intendeva tradirlo.

    La luna rimbalzò sul metallo dell’elmo. Quasi niente appariva della sua faccia, se non gli occhi; ma già bastava al capobanda per provare paura e venerazione.

    Fu un attimo. Il bandito s’infiltrò fra quegli stracci luridi, respirò il tanfo della carne non lavata da troppo tempo, dei fiati guasti per la fame. Era una cortina serrata di corpi maceri e puzzolenti che lo ingoiò per rivomitarlo al sicuro, e poi richiudersi al suo passaggio rendendolo invisibile.

    Gli inseguitori arrivarono. La teppaglia ritta e compatta faceva ostinatamente muro contro i soldati dello Châtelet, che agitavano minacciosi la verga con il fiore di giglio.

    «Levatevi di torno, cani!», tuonò il sergente. «L’abbiamo visto bene. Si è infilato in chiesa!».

    «Fate la carità, signore!».

    «Pietà di noi!».

    «Un tozzo di pane!».

    Cento mani, cento voci all’unisono si accalcarono sul drappello implorando, tirando vesti, sfilando borse, mentre i soldati colpivano alla cieca con i loro randelli gigliati su grugni senza denti e groppe storte. Si sentivano in pericolo, troppo pochi per prevalere.

    «Via! Andiamocene!», gridò il sergente. I suoi uomini si sfilavano a fatica da quel flutto purulento di fetore e miseria che rischiava di inghiottirli.

    «Figli di puttana!», gridavano i pitocchi scagliando torsi di mele marce, sassi e tegole rotte sull’ingloriosa ritirata delle forze reali.

    «Dove sarà finito?», chiese uno dei pezzenti.

    «Cos’avrà combinato, stavolta?», incalzò un altro. «Da chi scappa?».

    Il vecchio fece spallucce.

    «Fugge dal re di Francia. E da se stesso», mormorò.

    Ed era verità sacrosanta, granitica quanto la certezza che le guardie non lo avrebbero mai preso. Perché era maledetto, diceva la gente comune, quindi possedeva una forza impareggiabile; in realtà le sue altissime connivenze con gli ambienti di corte lo rendevano inafferrabile, facevano in modo che la ronda si tenesse abbastanza alla larga rispetto ai luoghi che il fuorilegge sceglieva per le sue sortite notturne. E poi meglio per gli sbirri, se non lo trovavano; specie se era vero quel che assicuravano gli studenti della Sorbona, che lanius era un nome latino, e significava carnefice.

    Veniva all’improvviso, colpiva, spariva. La notte l’aveva partorito come una madre sgualdrina, e il selciato di Parigi era stato la sua culla. Forse aveva trovato la strada per nascondersi nel labirinto di cunicoli sui quali poggia Notre-Dame. Strettissimi passaggi scavati nella viva roccia dai costruttori stessi, gallerie clandestine realizzate per motivi ignoti al resto del mondo.

    In quei sotterranei, diceva la gente, avvenivano cose che non era lecito compiere alla luce del sole. Aveva un volto e un nome, la paura superstiziosa che sentivano correre sottopelle tutti i canonici della cattedrale, che faceva sussultare al minimo sibilo i custodi quando cominciavano a incombere le ombre della sera. Un volto adusto dal sole di viaggi interminabili nelle terre d’Oltremare, un nome fin troppo colluso con le usanze degli infedeli che lui conosceva a menadito: Arnaldo da Villanova, detto il Catalano. O come lo si chiamava al di là del Mediterraneo, Al-Madiya: colui che ha ricevuto la Luce.

    Anziano sapiente, celebrato in tutte le università del mondo cristiano come medico talentuoso, era ritenuto dai meglio informati anche un mago di formidabile potere. Sotto la grande chiesa, il Catalano era stato visto scendere avvolto in un mantello nero: la sua fosca figura, che zoppicava leggermente come si dice faccia anche il Maligno, incuteva nel popolo un timore innaturale, accresciuto dallo strano bastone cui s’appoggiava, un lungo scettro sacerdotale d’ebano sormontato da una testa di sciacallo.

    Là sotto, per mesi e mesi, era stato il suo covo. Ogni parete dei muri di fondazione della cattedrale del resto celava alla vista cavità inattese. Una cattedrale ipogea, occulta e notturna, scendeva nel ventre di Parigi. Gemella di quella esteriore, che svettava alta con la gloria delle sue torri e dei pinnacoli che bucavano l’azzurro del cielo. Una cattedrale segreta che affondava le sue radici nel centro della terra; e Lanius, il guerriero resuscitato dall’inferno, ci si era annidato come una bestia nociva.

    In quegli oscuri recessi, avulsi da ogni legge, si potevano fare incontri insospettabili. Vedere persone che mai e poi mai avresti immaginato di trovare laggiù. Arnaldo il Catalano doveva conoscere molto bene quel bandito, e chissà per quale scopo si erano incontrati lì sotto: ma tra figli delle tenebre, del resto, ci si intende.

    Silenzioso come un ladro nel buio, Filippo di Fontainebleau sfiorava le pietre alla base della torre sinistra di Notre-Dame.

    Era davvero l’ultimo posto al mondo in cui chi lo conosceva avrebbe pensato di vederlo. Lui, che aveva ricevuto dalla vita il dono dell’ironia, si sentiva il protagonista assoluto del dedalo di cunicoli ipogei che si snodavano sotto la grande chiesa. Era il re dei sotterranei di Notre-Dame, anche se il suo dominio andava ben oltre il quartiere della cattedrale. Ben oltre Parigi stessa.

    Quanto al re di Francia, quella figura così ieratica e lontana dalla gente comune da sembrare sovrumana, lui lo serviva fedelmente. Si era sempre piegato ai voleri e ai doveri del re, re per grazia di Dio, in omaggio a quella sacra autorità che promana direttamente dall’alto. Accettare, obbedire, sopportare sempre, tutto in nome di un ideale superiore. Non importa quanto pesante e doloroso sia il carico di cui bisogna gravarsi le spalle. Come la missione di quella notte, per esempio; fra le più ingrate di tutta la sua vita. Quella notte in cui c’era da mandare un avvertimento ben chiaro, da minacciare e intimidire: cose che non poteva certo compiere l’augustissimo sovrano consacrato con il Crisma dei vescovi, colui che ha ricevuto dal Signore il potere miracoloso di guarire i malati imponendo le mani.

    Come del resto non era ammissibile che Sua Maestà scendesse nei sotterranei di Notre-Dame, laggiù dov’erano gelosamente custodite conoscenze che la Santa Madre Chiesa guardava con sospetto. Allora era Filippo di Fontainebleau a calarsi nel ventre oscuro di Parigi per consegnare al sovrano le informazioni che desiderava ottenere. Ciò era indispensabile, oltre che auspicabile: un buon re ha bisogno di sapere tutto. Deve avere cento occhi o forse anche di più, perché il bene del suo popolo richiede che egli possegga segreti di cui i suoi nemici neppure immaginano l’esistenza. E Filippo di Fontainebleau, uomo senza speciali titoli di governo, un semplice cavaliere come tanti altri, provvedeva alla necessità.

    Ecco, adesso le sue dita vagolanti nel buio riconoscevano quelle linee profondamente incise nella viva roccia. Incise con la punta dello scalpello sotto la guida di una mano potente e sapiente, per eternare una precisa parola. L’aria gelida della notte gli riportò il ricordo di quel giorno lontano. Si rivide lì sotto, due anni prima.

    «C’è una parola che segnerà il tuo cammino iniziatico. Per ogni tappa da te compiuta, scriverai una lettera», diceva il Maestro.

    «Quale parola?»

    «Anànche», rispose Arnaldo da Villanova.

    «È arabo?»

    «È greco, figliolo. Il senso lo scoprirai tu stesso. Un giorno».

    Il vecchio aveva voluto quell’opificio clandestino sotto Notre-Dame proprio come i sotterranei del Tempio di Salomone, perché laggiù, diceva, erano custodite tutta la scienza umana e quella divina, oltre alle immense ricchezze di Ofir. Malauguratamente, se n’era andato da Parigi prima d’avergli trasmesso per intero il patrimonio della sua conoscenza. Delle sei lettere che formavano le pietre miliari del suo cammino iniziatico, ne aveva potute incidere due soltanto: an. E adesso provava un intenso fremito di rabbia e di rimorso, mentre le sue dita, vagando nell’oscurità, riconoscevano il profilo di quei segni.

    Accidenti alla malinconia! Doveva ingoiare il rimpianto e sbrigarsi. Aveva una missione cruciale da compiere, quella notte. Trovò quanto cercava, il perno di ferro conficcato nel muro a sostenere una piccola acquasantiera. La leva scattò cigolando, la porta si aprì. Lui piegò la schiena e s’infilò nello stretto passaggio. Il cunicolo era stato progettato per essere percorso anche nel buio completo; bastava contare i passi, mentre le mani esploravano le pareti, strette addosso più di un utero materno il giorno del parto. Bisognava cercare i segni.

    Uno, la testa di moro scolpita in rilievo. Il primo elemento. Due, la coda di delfino. Tre, quattro… fino a sette, e poi la porta in fondo. Fontainebleau frugò nella borsa trovando la chiave. La ruggine lasciata da due anni di completo abbandono non aveva rovinato il meccanismo. Ecco, il tavolo era subito a sinistra. Un acciarino, una candela.

    Alla tenue luce della fiamma, riconobbe lo scenario ben noto. Pareti bianchissime, per moltiplicare la luce. Ai quattro angoli, simboli sacri e preghiere capaci di propiziare il lavoro. In alto, un piccolo lucernario per l’aria che risaliva attraverso uno stretto canale fino al pavimento della chiesa. Sul lungo tavolo si vedevano ovunque storte, alambicchi, preziosi strumenti di misura. Tutto appariva coperto da un velo di polvere e l’aria era intrisa da uno sgradevole tanfo di muffa. Solo due primavere prima, quel piccolo laboratorio sotterraneo era un santuario di scienza. Ora aveva l’aspetto triste e rivoltante di una tomba profanata.

    Imprecò. Perché Arnaldo se n’era andato? I guai erano incominciati in quel momento. Come la malattia del piccolo principe Roberto, che nessun medico sapeva curare. E quella atroce e infamante che ora minacciava lui, insieme all’intero Paese di Francia.

    Aiutami, Dio degli Eserciti! So che si cela qui sotto, il rimedio per il mio male!.

    Raggiunse lo scaffale dei libri che giacevano ancora in ordine sotto uno spesso velo di polvere. Frugò alla rinfusa tra quelle pagine fitte di simboli cercando qualcosa da cui dipendeva la sua salvezza. Ma dov’era finito? Eppure doveva trovarsi lì, lo aveva visto con i suoi occhi. La medicina infallibile capace di guarire il suo male, il futuro di tenebre che gli era calato addosso all’improvviso. Era stato atroce vedersi accusato d’avere il sangue guasto, e ancor peggio si era sentito davanti alla consapevolezza che la sua indegnità poteva danneggiare innumerevoli persone…

    Non lo trovava. Arnaldo se l’era portato via con sé, quel toccasana capace di salvargli la vita. Lo sconforto piombò nel suo cuore irriducibile che aveva sostenuto tante tempeste.

    Perché mi hai lasciato, dannato vecchio?! Hai voluto aprirmi l’universo della tua scienza soltanto per richiudermi brutalmente la porta in faccia, prima che io potessi apprendere quel che dovevo! E adesso resto così in sospeso, come l’anima di un morto che non raggiunge l’Oltretomba, e vaga sulla terra costretta a guardare impotente quel che fanno i vivi. Non sono un iniziato, che possiede l’intera Verità, ma non ho più la beata ignoranza dell’uomo comune, che certe domande nemmeno se le pone. Ma non è finita qui, maestro Arnaldo. Io ti riporterò a Parigi, fosse l’ultima cosa che faccio!.

    Ragionò velocemente per escogitare una contromossa. Doveva spedire a Roma qualcuno capace di sedurre il papa, perché costringesse il Catalano a tornare in Francia: sotto minaccia di scomunica, se necessario. Occorreva un uomo leale al re, che tuttavia fosse anche gradito a Bonifacio viii.

    Forse poco distante da Notre-Dame abitava la persona giusta! Matteo Bentivegna d’Acquasparta, un tempo umile fraticello di san Francesco d’Assisi, poi assurto alla porpora e ben piazzato nel Sacro Collegio, s’era fatto concedere una dispensa in perpetuo per abitare a Parigi perché insegnava teologia alla Sorbona. Doveva fargli visita subito, del tutto inatteso, nel cuore della notte. Ma non nei suoi soliti panni. Urgeva un metodo più rapido e diretto per far intendere al cardinale che la questione era di vitale importanza, per la Francia. Che il re lo ordinava, e per riuscire era disposto a tutto. Persino a sporcarsi le mani, le sue mani consacrate. Persino sguinzagliare i peggiori ceffi di Parigi, compreso quel mercenario maledetto che gli uomini dabbene pregavano di non incontrare mai. Forse non è del tutto umano, Lanius: perché ha in corpo la rabbia di un dannato, e la sua faccia appartiene al regno delle ombre.

    Non c’era tempo da perdere: doveva mandare qualcuno a spianargli la strada. E dopo, l’aura oscura delle tenebre avrebbe fatto la sua parte; per compiere l’impresa, occorreva lasciare spazio di manovra al potere profondo della suggestione.

    Riemergendo in superficie nell’aria gelida della notte, Filippo di Fontainebleau si rimise l’elmo trace e imbracciò la scure bipenne.

    Un’ombra incerta fra i vicoli agguantò con forza le grate di una feritoia aperta poco sopra il livello della strada. Bene, le sbarre erano state segate come richiesto. Il clandestino s’infilò nel pertugio, prese un bel respiro. Un breve salto nel vuoto, poi un tonfo, e uno spaventoso puzzo di fuliggine.

    Meno male che il cardinale pretendeva di avere sempre le cantine ben rifornite di carbone! Si guardò: doveva essere nero come il culo dell’inferno, adesso. Quasi non respirava più, tant’era la polvere che gli si era accumulata addosso. I vestiti fradici l’avevano assorbita come una spugna, ma almeno il mucchio del carbone aveva attutito la caduta. Del resto, data la struttura del palazzo, non esisteva altro modo per intrufolarvisi di soppiatto.

    Scivolò lungo la montagna sdrucciolevole, fin quando si ritrovò con i piedi a terra. Ora doveva risalire le scale, sperando che i suoi complici avessero lasciato aperta la porta verso il giardino. La raggiunse, spinse delicatamente il vecchio uscio di legno con il palmo della mano perché non cigolasse. Doveva dare una gratifica al suo compare; aveva obbedito a puntino.

    L’aria della notte lo investì insieme a una folata di vento gelido. Il freddo assassino che morde la carne dei sani e fa strage di poveri, di vecchi e di bambini. Ecco. Il porporato abitava lassù al secondo piano, dove la luce discreta di una finestra dietro la loggia diceva che qualcuno era ancora sveglio.

    E la scala? Era dove doveva stare?

    Sì, per fortuna. Un piede sopra; la sentì stabile. Salì.

    Alla fioca luce di un candelabro, il cardinale Matteo Bentivegna d’Acquasparta recitava devotamente le sue orazioni della sera.

    «Ne nos inducas in temptationem, sed libera nos a Malo….».

    Si fermò, portò la mano al cuore temendo che gli venisse un infarto. Aveva nominato il Maligno, ed ecco, se lo vedeva comparire davanti!

    Poco distante da lui, accanto alla finestra, era apparso un essere completamente nero dalla testa ai piedi. Non era umano, ma un demone inferocito. Un mostro somigliante a una specie di grosso insetto, con il corpo rivestito da scaglie di lucentezza metallica e gli occhi di grandezza abnorme, retati come le celle di un alveare.

    Il cardinale si fece subito il segno della croce e raccomandò l’anima alla Madonna. Come faceva da piccolo. Come gli aveva insegnato sua madre.

    L’essere mostruoso si spostò dalla finestra, squadrò l’intera stanza con occhio indagatore. E per far capire al povero prelato che era un uomo in carne e ossa, non uno spettro vomitato dagli inferi, si tolse l’elmo. Matteo d’Acquasparta vide così che aveva la faccia atra di nerofumo, ma sotto la fuliggine c’era un volto che conosceva benissimo. Ossignore! Proprio non immaginava di vederlo combinato così. Eppure era un uomo consacrato, in nome di Dio! Clericali charactere insignitus… Forse viveva un incubo, stava avendo le traveggole. Il lungo digiuno penitenziale gli aveva sfibrato il corpo ma anche offuscato la lucidità dell’intelletto, se adesso credeva di vedere quell’uomo tanto illustre in così sordidi panni…

    Ogni dubbio svanì quando il malfattore lo salutò. C’era un sonoro sarcasmo nella sua voce ben nota. Si divertiva, vedendo spavento e disgusto sulla faccia sbiancata del cardinale.

    «Dio vi guardi, eminentissimo padre. State bene?».

    Il porporato non stava bene per niente, si doveva solo alla mano materna di Maria Santissima, in realtà, se il suo vecchio cuore aveva resistito allo schianto. Non gli chiese per quale folle ragione si fosse conciato in quella deprecabile maniera che stracciava la sua sacra dignità. Non osava farlo.

    «Come… come vi devo chiamare?», biascicò.

    «Con il nome che mi danno tutti. Chiamatemi Lanius».

    Matteo d’Acquasparta deglutì a fatica, e annuì. Magari era solo un incubo atroce e l’indomani mattina non avrebbe più ricordato nulla di quel delirio; nel frattempo, meglio cercare di capire il senso di quella mascherata sacrilega.

    «Cosa posso fare per voi… Lanius?».

    Colui che era venuto nottetempo, sfruttando la reputazione e l’impunità di cui quel nome esecrato godeva fra i pitocchi e i delinquenti di Parigi, si sedette comodo poggiando i piedi accavallati su uno sgabello. Esibiva una strafottenza coi fiocchi, un’irritante arroganza da bandito che faceva a pugni con la compassata padronanza di sé e il contegno che in genere lo distingueva. Quando era vestito di seta e di porpora, s’intende.

    «Dovete andare a Roma, eminentissimo. Ordine del re».

    Il cardinale sedette anche lui, mani sulle ginocchia, sperando di capirci qualcosa.

    «È un ordine informale. Dico bene?»

    «Evidente. In caso contrario, sareste stato convocato al Louvre per ricevere la notizia. Invece, eccovi me».

    «B-bene, Lanius… Ma che orrore, chiamarvi così! E comunque… come posso servire i desideri di Sua Maestà?».

    Il bandito si fece più vicino.

    «Avrete con voi un drappello di soldati. Scorterete una persona che ora si trova a Roma, ma deve arrivare a Parigi sana e salva».

    «Di chi si tratta?», domandò.

    «Arnaldo da Villanova, il celebre medico catalano. Lo conoscete?»

    «Certo», rispose il porporato. «Mi ricordo di lui. Era qui a Parigi tre anni fa. Per un po’ di tempo fu cattedratico all’università, poi lo denunciarono e finì sotto processo. Come mai si trova a Roma?»

    «Perché si è appellato al papa, e Bonifacio viii gli ha dato asilo. Il pontefice lo tiene in altissima considerazione, stando a quanto dicono».

    Matteo d’Acquasparta annuì.

    «Scorterò volentieri questo sapiente, se così desidera il re. Mi chiedo però come cavarmi d’impaccio con Sua Santità. Il Catalano non vorrà lasciare Roma, se il papa lo favorisce. E Bonifacio viii sarà contento di vederlo partire?».

    L’altro non rispose, ma il sorriso vagamente perverso che gli illuminò la faccia parlava meglio di tante allegorie. Il cardinale comprese, e subito sgranò gli occhi in un empito di scandalo.

    «Mio Dio! Dovrei sequestrare quel vecchio scienziato?!».

    L’espressione della più aperta condanna vibrava nel suo sguardo. L’idea di fare violenza a un’altra persona era qualcosa che sconvolgeva il rigido senso morale del francescano.

    «No, questo mai!», si ribellò. «Il re di Francia non può chiedermi di commettere un crimine. E se per caso lo fa, allora è vero quel che dicono i suoi detrattori. Che è un uomo malvagio, sotto tutte quelle arie da asceta che si dà. Che è privo di scrupoli, oltre che di sentimenti. Il re di marmo e di ferro, lo chiamano. Ma sarebbe meglio dire che è il re degli abusi!».

    Insensibile alle veementi proteste del cardinale, l’altro spostò lo sguardo oltre la finestra, laggiù dove svettavano le torri del Palazzo reale. Il vento aveva stracciato le nubi scoprendo la pelle scura della notte. La luna illuminava lo stendardo di Sua Maestà, l’orgogliosa bandiera della monarchia di Francia. Azzurro come il cielo di un giorno che non tramonta mai, seminato di gigli d’oro, come infinite stelle che annunciano buona fortuna.

    Era il suo orizzonte, da tutta la vita. A quel sacro vessillo aveva giurato fedeltà assoluta, fino alle estreme conseguenze, se necessario. Non si sarebbe tirato indietro. Né ora, né mai.

    Lanius si alzò di scatto, abbandonando la postura rilassata, i suoi muscoli si tesero come serpenti nell’attimo che precede l’attacco. Avanzò contro il prelato, incombendo su di lui. Era alto, e in quel gesto sembrò immenso. Matteo d’Acquasparta d’istinto si alzò anche lui, arretrò, e ben presto si ritrovò spalle al muro. Le candele ingigantivano la sagoma scura del suo interlocutore, la rendevano ancora più minacciosa. Il cardinale si sentì piccolo e inerme come un topolino ricoperto dall’ombra immensa di un’aquila piombatagli di colpo addosso.

    «Ubi maior, minor cessat. Tenetelo a mente. Il Catalano ha con sé qualcosa da cui dipende la salvezza della Francia».

    «Che cos’è?»

    «Immaginate uomini che si trucidano gli uni con gli altri. Città deserte, campi devastati. Cadaveri che si decompongono lungo la strada perché non è rimasto nessuno a seppellirli. Il Catalano può scongiurare tutto questo. Perciò deve tornare qui: costi quel che costi!».

    Poi gli voltò di colpo le spalle senza salutarlo, aprì la finestra e saltò sul loggiato per sparire nel buio, dentro la città notturna e insidiosa che era il suo rifugio.

    Lì dove aveva amici fidati pronti a coprire le sue tracce. La patria sulla quale regnava indiscusso.

    II

    Albeggiava.

    Un’allodola cantò. L’uomo lasciò il letto ancora tiepido d’amore. Si rivestì in fretta, mentre gli ultimi strascichi della notte bagnavano di luce azzurrina i tetti d’ardesia dei palazzi nel cuore illustre di Parigi. La sua amante si mosse, nuda e calda di sonno. Fra la seta pesante delle coperte, lì dove aleggiava ancora un odore dolce, carico della loro gratitudine per il reciproco piacere. Aprì gli occhi. Vederlo in piedi contro la rada luce della finestra, vestito e già pronto per lasciarla, la spaventò.

    «Dove vai?», gli chiese drizzandosi sul letto, il lenzuolo tirato d’istinto a coprirsi pudicamente il seno nudo.

    Lui finì di chiudersi la cintura sopra la giubba di pelle lisa. Come ne portavano i bracconieri e gli sbirri della capitale.

    «Dormi, amore mio. È ancora buio».

    Lei gli tese le braccia; e mentre la salutava, tentò di avvinghiarlo ancora, di coinvolgerlo in un ultimo amplesso fugace.

    Giovanna di Navarra aprì gli occhi.

    Si era svegliata sentendo ancora in bocca il sapore di quei baci. La sua illusione durò poco, veloce a svanire come lo sono i bei sogni. La parte del letto accanto a lei era vuota, fredda. Il re non s’era fatto vedere neanche un momento, quella notte. Aveva dormito da sola, un’altra volta. Con gli occhi lucidi, resistette alla voglia pungente di sfogare dolore e delusione nel pianto. A cosa mai sarebbe servito?

    Non le restava che alzarsi e correre incontro ai suoi tanti doveri quotidiani. Si guardò allo specchio nella luce crescente del giorno che nasceva. Come far sparire le occhiaie dovute al sonno perduto, ai dispiaceri? Tutta la corte del Louvre sghignazzava alle sue spalle, avrebbero riso di lei fino alla fine dei suoi giorni. Ma avevano ragione, maledette vipere! Avevano ragione loro. Sua Maestà era distratto da una qualche passione segreta, ultimamente; e cosa, se non una donna, può assorbire la miglior parte di un uomo potente, che passa per essere il più bello del mondo?

    Ultimamente, le sembrava più freddo e distante

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1