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La Guerra è Dichiarata - Luce di Rame - Volume 1(Collana Io me lo leggo)
La Guerra è Dichiarata - Luce di Rame - Volume 1(Collana Io me lo leggo)
La Guerra è Dichiarata - Luce di Rame - Volume 1(Collana Io me lo leggo)
E-book394 pagine5 ore

La Guerra è Dichiarata - Luce di Rame - Volume 1(Collana Io me lo leggo)

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Info su questo ebook

Francia, 1364. Nel mezzo della tregua stilata tra Francia e Inghilterra, la morte inaspettata di re Jean II il Buono è il segno che Fortuna sembra voler favorire il terzo incomodo nella guerra per il trono di Francia. Karlos II di Navarra, pretendente al trono tanto conteso e bramato, non vede ostacoli fatali pararsi davanti all’obiettivo anelato con ostinazione da trentadue anni. A succedere con non poca riluttanza a re Jean infatti, è suo figlio Charles, un giovane uomo di ventisei anni che in vita sua non si è mai guadagnato alcun prestigio e preferisce tenersi vicino ai libri piuttosto che ai campi di battaglia. In questo preludio di guerra civile, è giunto il momento di scegliere da che parte stare, e Miren de Picquigny, figlia di un cavaliere delle più abbienti famiglie piccarde, ha idee ben salde in questo e più svariati campi: nel fiacco ma assennato Charles lei vede il re di Francia perfetto, decisione che si rivela problematica dato che la sua famiglia offre le proprie spade al navarrese. Ma la ragazza non immagina quale duro prezzo dovrà pagare per la sua scelta, che porterà a spezzare la sua famiglia e a trascinare in un vortice di calamità chi sarà disposto a prestarle protezione come i Beaumerais, che si sono schierati a favore del Delfino Charles. Pensiero che per pochi giorni verrà dimenticato da Miren per l’amore burrascoso non ricambiato da Yves, un giovane investito cavaliere da appena un anno che grazie alla sua fervida morale personale si è trovato una scorciatoia per l’inferno.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita16 nov 2019
ISBN9788833663692
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    Anteprima del libro

    La Guerra è Dichiarata - Luce di Rame - Volume 1(Collana Io me lo leggo) - Arianna Inglesi

    M

    LUCE DI RAMELA GUERRA È DICHIARATA

    Libro primo

    Arianna Inglesi

    1

    Da qualche parte, qualcosa di incredibile attende di essere conosciuto.

    Carl Sagan

    PROLOGO

    Gennaio 1363

    Il lume a olio, sospeso a una catenella d’oro, pendeva dalla chiave di volta, facendo risplendere i colorati vetri traslucidi che adornavano la cappella come un preziosissimo sacro reliquario. Innumerevoli occhi fermi lo osservavano. Volti arcani lo giudicavano. Santi, principi, re ed eroi erano leggende e non uomini, cosa pensavano di lui? Era un sovrano degno del suo titolo, oppure no? Era capace di saper distinguere il bene dal male, il bello dal brutto? Avrebbe udito i cori angelici nella beatitudine del Paradiso o la sua anima patito il fuoco e il gelo dell’Inferno? L’uomo si soffermò un attimo su di loro e mentre seguitavano a scrutarlo, in muto giudizio, Karl socchiuse gli occhi, immergendosi nella preghiera.

    Il servo venne da lui nel cuore della notte, scusandosi e rompendo quel momento di solitudine. Non gli fu più possibile pregare, dopo.

    «Cosa significa tornato ?» Karl arrivò sconcertato alla fine del messaggio.

    «Uno dei suoi figli è venuto meno alla sua promessa ed è tornato a Parigi» Karl dovette quasi smettere di respirare per udire la flebile voce del servo: un sussurro. «Ora, per ripagare al torto subito, Jean si è riconsegnato al re d’Inghilterra.»

    Karl era basito. Un anno di trattative tra il Plantageneto e suo cognato per arrivare a un accordo, anche seppur umiliante per Jean, e ora che era tornato a calcare la terra del suo regno devastato, si riconsegnava nelle mani del nemico? Assurdo, pensò riconsegnando il cartiglio nelle mani del servo, mentre i suoi pensieri andarono ad altro.

    «E ora chi tiene le redini del regno?» chiese con inquietudine, anche se era una domanda alla quale Karl si sarebbe dato risposta anche da solo.

    «Ha nominato il Delfino quale luogotenente» disse l’uomo. Congedato fece un profondo inchino, lasciando l’imperatore nella penombra silenziosa della cappella e nello sconforto più completo. Chiuse di nuovo gli occhi, mormorando una preghiera per ricacciare nell’oblio della sua mente le angosce risvegliate in quella gelida notte di gennaio, ma nemmeno il lume a olio, le candele e le sacre reliquie riuscirono a tenere lontano gli spettri. Fuori, oltre le pareti, il vento ululava sopra le foreste della Boemia mentre cercava di trovare conforto e il giusto consiglio, invano.

    Non poteva dare sostegno a Jean, anche se una simile mossa avrebbe portato Karl ad assumersi un enorme peso sulla coscienza. I loro padri erano stati inseparabili compagni d’arme. Jan aveva mandato suo figlio Karl a Parigi, dove era vissuto e cresciuto, ma a differenza sua era tornato in Boemia, a Praga, e dopo la sua morte l’aveva elevata a capitale dell’Impero, Praga caput regni . Jan il Cieco, chiamato così per la sua precoce cecità, non aveva mai dimostrato amore per la sua terra e la sua gente, ma in molti lo avevano pianto.

    Nel 1346, quando suo padre aveva sentito che l’armata del re d’Inghilterra, approdata sulle coste normanne, stava marciando verso la Piccardia seminando distruzione per conquistare Calais, era sceso in campo a sostenere Philippe VI, nonostante l’età avanzata e la sua cecità, che gli impediva non poco di distinguere un amico dal nemico. Karl lo aveva accompagnato e aveva combattuto al suo fianco, a Crécy. Quel maledetto 26 agosto 1346 suo padre aveva perso la vita, lanciandosi contro gli inglesi, legato alla propria sella. Si era così guadagnato un’aura eterna di onore e leggenda, tanto che Edward III e il figlio, il giovanissimo principe di Galles, ordinarono che fosse portato nel padiglione reale per essere assistito come si confaceva al suo rango, anche se nulla di ciò servì. Era così morto il fiore della cavalleria, come si decantava in ogni dove. E Karl, invece? Lui si era salvato, da codardo, ripiegando a Praga, odiato dai sudditi, con un regno abbandonato a sé stesso. Prima di questa tragedia, il re di Francia e suo padre Jan avevano suggellato un’alleanza tra i Valois e Premyslidi unendo a nozze sua sorella, la principessa Jitka, al duca di Normandia, ora Jean II di Francia. Da quell’unione erano nati splendidi nipoti, principi e principesse di Francia. Tra questi Charles, nel Natale del 1356, gli aveva reso omaggio a Metz e lo aveva insignito del titolo di principe dell’Impero.

    Ma Karl non poteva aiutare entrambi. Il bene comune era forse più importante degli affetti, della famiglia? Il suo vecchio amico era stato umiliato, reso uno zimbello per la seconda volta, ma Karl poteva rinunciare al bene più importante che ci fosse al mondo, riportare la Chiesa dal suo solo e unico sposo? Che misera figura avrebbe mai fatto, lui che aveva avuto il privilegio di portare le armi di Boemia con l’aquila bicipite dell’Impero di Carlo Magno?

    Aveva creato una rete invisibile di segrete corrispondenze con i suoi più svariati collaboratori sparsi in mezza Europa e Urbano V. Karl aveva sancito quella nobile promessa che non avrebbe mai più appoggiato suo cognato e conservato, lontano dalla luce del giorno, qualcosa più grande di lui, che pochi uomini o solo lui potevano custodire lontano dalle mani di chi aspirava, anelava a valicare i limiti della ragione umana e divina: chi osava sfidare Dio, facendosi profetizzare il futuro da una schiera di demoni. Nessuno lo doveva trovare. Soprattutto tu.. Karl fissò con intensità per un ultimo istante la figura ammantata di blu dipinta sulla parete, illuminata dall’alone giallo della lampada, poi dal timore il consiglio alla fine venne. Ringraziò Dio e segnandosi si alzò, dando le spalle alla cappella.

    Percorse il corridoio, illuminate dalla luce vacillante delle fiaccole. A quell’ora Karlstejn dormiva. Le guardie, che vegliavano giorno e notte ai lati del varco dall’arco ribassato, allontanarono le loro lance così che Karl potesse accedere alle sue stanze, inginocchiandosi senza alcun rimorso davanti al baule. Sentiva un timore arcano ogni volta che si avvicinava, ma nonostante la notte buia e la costante presenza degli spiriti maligni, lo aprì. «È giunto il giorno del giudizio» mormorò all’oggetto che prese nella mano. Lo spazio, che avrebbe dovuto contenere lo specchio, era vuoto. Il manico che Karl stringeva rappresentava la coda di un serpente che all’altezza del piatto della cornice si biforcava, come le due braccia di Atlante che reggono la grande sfera sulle proprie spalle. Ogni volta che Karl lo aveva davanti agli occhi, un’inquietudine sopraggiungeva a tormentarlo. Era come quasi fossero vivi. Il colore della pelle del rettile brillava di un giallo acido, reso vivo dal nero lucido degli interstizi che separavano le squame. Gli occhi vitrei, del medesimo colore dello zolfo, parevano seguire Karl col proprio sguardo.

    Chiunque lo avesse visto avrebbe pensato che l’uomo che lo aveva realizzato avesse cattivo gusto. Era un oggetto bizzarro, fuori dal tempo. Karl non era in grado di datare lo stile, se fosse recente o antico, di che manifattura fosse. Le sfumature così innaturali erano sconosciute anche al più abile artigiano del mondo cristiano. Non era certo le credenze legate allo specchio fossero veritiere. Non voleva più pensarci, di una sola cosa era certo: doveva sparire.

    Distruggerlo? Impossibile. Ci aveva già provato, una volta, gettandolo tra i tizzoni del suo camino che riscaldava, come una fornace, la stanza del palazzo reale di Praga. Aveva previsto che venisse divorato dalle fiamme ma esse lo lambirono senza che la sua materia sconosciuta si tramutasse in cenere. Aveva provato ad affidarlo al fabbro, senza che questo riuscisse a scalfirlo. Doveva spostarlo, nasconderlo in un altro luogo, portarlo vicino a lui .

    L’uomo, quell’uomo , venuto in suo possesso avrebbe potuto fare del bene. Abbattere i semi della discordia, dalla quale germogliava male, guerra e ingiustizia. Ma quando in una guerra ci fu re giusto agli occhi dell’altro? Perfino un tagliagole considerava le proprie azioni morali, perfino un re che uccideva principi orfani nella culla per appropriarsi dei loro titoli. Un re non poteva mostrarsi debole. Nelle mani aveva il potere di salvare il mondo, d’altra parte, lasciava intendere che avrebbe avuto il potere di distruggerlo. Cos’era disposto a fare un uomo pur di arrivare al grado di conoscenza assoluta solo pari a quella di Dio? Quell’oggetto aveva il poter di far perdere la ragione anche all’uomo più saggio, obliare la sua mente, accecarlo senza più riuscire a distinguere il bene dal male. Era una responsabilità immensa, un’arma a doppio taglio.

    L’ultimo tribuno era venuto a parlargli, anni prima, delle terribili profezie che stavano per portare l’ultimo strazio a quel mondo corrotto e sregolato dalla cieca ignoranza. Lo aveva pregato di andare a Roma così da ricevere la tiara imperiale, perché lui era un uomo degno. Karl, però, era stato costretto a consegnare Cola di Rienzo nelle mani di Arnost e degli inquisitori che lo portarono ad Avignone dinnanzi al pontefice. Lì Cola aveva dato prova della sua abilissima arte dialettica, chiedendo loro come fosse possibile che di Roma, caput mundi , la culla della civiltà, delle arti e della gloria, non rimanesse che un villaggio nel mezzo di un acquitrino melmoso, Invasa dalle acque del Tevere, che uscivano dagli argini dissestati, colonne spoglie e monche, scheletri di antichi e gloriosi templi sommersi dalla gramigna, un focolaio di umori malsani infestato da spietati tagliagole. Roma non era che una vedova triste, abbandonata a sé stessa, una nave lasciata senza un capitano al timone. Cola di Rienzo era stato visto come l’uomo giusto per far rinascere Roma dalle sue ceneri, che avrebbe ricongiunto i due soli, ma i suoi sogni utopici si erano tramutati in manie di grandezza, potere e alla fine aveva tirato fuori la sua vera natura di tiranno. Chiamato eretico, scomunicato, un redivivo costantemente braccato dai suoi nemici: i baroni romani che, una volta sbarazzatisi di quel figlio di un taverniere che si proclamava al di spora di loro, sarebbero tornati a tagliarsi la gola l’un l’altro. Era stato massacrato dallo stesso popolo che un tempo lo aveva accolto come un Cristo in terra e, del resto, chi usurpa la spada è degno di essere passato a fil di spada. [¹]

    Quello specchio, che ora teneva in mano, che ora gli infondeva terrore misto a curiosità, era appartenuto a Cola di Rienzo, ed era stato affidato a lui. Ma era sulla bocca di tutti. Se ne parlava dalla Castiglia alla Tracia, dalla Danimarca alla Sicilia, semplici e regnanti. Non voleva che finisse di nuovo in mani sbagliate. Doveva sparire, troppi uomini si erano lasciati intaccare la ragione dalla follia più depravata, troppi uomini avevano voluto sfidare Dio per profetizzare il futuro, troppi uomini erano morti. Karl non poteva tenerlo lì ancora per molto, a Karlstejn, a Praga, in Boemia, non quando Jean Valois aveva fatto vela per l’Inghilterra. Troppe persone mormoravano, e i mormorii erano capaci di giungere lontano, troppo lontano.

    Prese un altro oggetto, un sacchetto di velluto. Appena lo sollevò udì un tintinnio metallico. Al suo interno erano raccolti i frammenti dello specchio che un tempo era contenuto nella cornice. Erano schegge di vetro, di un colore che a seconda della luce appariva nero o blu, cangiante come le piume di un corvo, come il cielo di notte. Lo specchio così era inutilizzabile, ma sarebbe bastato un solo piccolo frammento di quel vetro, un chierico con una buona infarinatura di arti negromantiche, per fare del bene, oppure del male.

    La porta alle sue spalle si aprì e Arnost lo trovò in ginocchio, il baule aperto. Karl si alzò e gli si mise di fronte. Gli porse lo specchio e il sacchetto. «Ne avevamo già discusso di cosa dovete farne.»

    *

    Due occhi vuoti lo fissavano.

    «Chi sarà stato?» Senza badare alla pioggia fredda che scrosciava, Gobain de Saint-Maur si tolse il cappuccio vermiglio, avvicinandosi ai due corpi impiccati a una grossa quercia.

    «Inglesi? Navarrini?» Edmund teneva per le briglie il suo corsiero dal manto zuppo d'acqua. Gobain, appena sotto i due cadaveri penzolanti, li scrutava compiaciuto. «Brice, tu che dici?»

    Brice era un giovane, diciassette anni, e di inglesi e navarrini ne aveva visti pochi, o forse nessuno. «È meglio andarcene» fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare dopo aver lanciato una sfuggevole occhiata agli impiccati.

    Gobain non demorse. «Anch’io potrei aver paura di inglesi e navarrini, ma come si potrebbe aver paura di loro, morti?» Sulle labbra del suo capitano non c’era mai stato un accenno di sorriso, ma piuttosto di pungente arroganza. Brice non aveva mai imparato né ad amarlo né ad ammirarlo come cavaliere. «Ciò che è morto rimane morto. Non possono farci niente, se non scrutarci con i loro occhi vuoti.» Brice sarebbe corso a slegare le briglie del suo cavallo partito veloce al galoppo, puntando sulla via del ritorno. Lontano da lì. Il più possibile.

    «Ragazzo, non hai ancora risposto alla mia domanda» Gobain era incontentabile e Brice fu costretto a posare gli occhi sui due corpi senza vita. Gli parve di deglutire un masso. I loro volti erano ridotti a brandelli di carne in putrefazione; i corvi avevano già banchettato su di loro, strappando capelli e carne, lasciando trapelare l’osso del cranio. Uno di loro possedeva ancora gli occhi, mentre dell’altro rimanevano le due cavità orbitali vuote. La neve e la pioggia avevano lavato il sangue raggrumato dai loro volti.

    La voce del ragazzo era un debole tremolio: «Le loro sopravvesti sono rosse» e lo erano state un tempo, se la pioggia e il fango non avessero slavato il loro colore «e su di esse vi sono delle catene dorate inquartate con i gigli di Francia.» I nodi scorsoi, anziché essere fatti con una spessa corda, erano ricavati con delle catene. Esse scorticavano in una stretta morsa i loro colli. «Navarrini» dedusse infine Brice.

    «Quale acutezza, Brice» rivelò Gobain. «Non me la sarei mai aspettata da te.»

    «Ho avuto modo di studiare tutte le insegne delle più nobili Case dell’Occidente» per un breve istante il giovane Brice ebbe occasione di vantarsi degli insegnamenti appresi dall’erudito mastro Wis.

    «Navarrini. Mi pare assurdo il fatto che siano tali. Chi si è macchiato di tale crimine?» il capitano era confuso. «Inglesi no di sicuro. Plantageneti ed Évreux sono legati da un patto di sangue. Che possano essere dei ribelli?»

    «Dovremmo raggiungere gli altri» Edmund non aveva altro tempo da perdere. «Dobbiamo rimanere uniti.»

    Brice vide le labbra del cavaliere stringersi in una linea dura e sottile. Edmund, con la sua disciplina e destrezza, era il più nobile esempio della cavalleria, secondo Brice. Ma questa volta nel prudente cavaliere c’era una tensione nervosa che arrivava pericolosamente vicino alla paura.

    Brice la percepiva. E la provava lui stesso.

    Era lo scudiero di Edmund da due anni. Il suo cavaliere e gli altri compagni esibivano le insegne dell'Ordine della Stella. Il re di Francia aveva deciso, con tanta impazienza, di raccogliere i migliori cavalieri della nobiltà francese, che avrebbero dovuto prestare consigli al proprio re, lealtà e mai tirarsi indietro sul campo di battaglia. Ma ora, dei cinquecento cavalieri che Jean II aveva investito, ne sopravvivevano una trentina. Era stata la pioggia di frecce degli arcieri del Principe di Galles a portarsi via il fiore della cavalleria francese sul campo di Poitiers. E ora quei superstiti avevano scortato il re di Francia fino a Calais. Dopo quattro anni, re Jean era stato liberato dal re d'Inghilterra, in cambio di un riscatto ingente e di alcuni ostaggi pescati dalla sua famiglia. Solo che uno di loro, suo figlio Louis, era fuggito da Londra e non ne voleva sapere di tornare in una prigione dorata. Re Jean era stato costretto a riconsegnarsi al nemico, pur di non compromettere l'onore della sua nobile Casa.

    Era la prima volta che Brice varcava le solide e bianche mura di Parigi, erette un secolo prima da Philippe-Auguste, e si avventurava così lontano. Le storie che gli aveva raccontato Gobain, nei giorni precedenti, gli tornarono alla mente. Lo avevano tormentato lungo il loro cammino mentre i cadaveri impiccati sembravano essere più degli alberi dai quali penzolavano.

    C’era qualcosa che gli provocava involontariamente gelidi brividi lungo la schiena, giorno e notte. Erano fuori da dodici giorni. Si erano lasciati alle spalle Calais e avevano cavalcato prima verso sud, poi verso sud-est, evitando le compagnie di mercenari e gli inglesi, che infestavano le terre del Ponthieu, accrescendo così i giorni di marcia. Da quel punto in avanti, ogni giorno era stato peggiore del precedente.

    E quel giorno era peggiore di tutti. Per l’intera giornata Brice non era stato in grado di scacciare la sensazione di essere osservato da occhi carichi d’odio e assalito da qualcosa alle sue spalle. Aveva ancora in mente l’unica precedente idea: partire al galoppo sfrenato e tornare al più presto a Parigi, o in qualsiasi città o castello sicuro. Ma non era un’idea da condividere con i due compagni, specialmente se inflessibili come quelli.

    «Dobbiamo arrivare il più presto possibile a Parigi» si ostinò Edmund, pronto a montare in sella. «Abbiamo ancora un lungo cammino da affrontare e questa pioggia e questi boschi non mi piacciono. Se non smette, sarà un’impresa guadare la Somme sulla via del ritorno. E lo sarà di più senza che inglesi o navarrini ci attacchino.»

    «In quella lettera, che lo sgorbio pallido aveva ricevuto, re Edward prometteva di imporre ai suoi uomini di non catturarci, né massacrarci» Gobain de Saint-Maur finalmente si svegliò da un lungo e riflessivo silenzio. «E la stessa regola vale anche per quegli stramaledetti navarrini, anche se non confido molto nel fatto che rispetteranno gli ordini a loro imposti. Andiamo. Seguitemi.»

    Gobain si lasciò alle spalle i corpi senza vita degli impiccati e passò in testa stando attento a pietre, radici e affossamenti nascosti in un acquitrino fangoso. Edmund veniva dietro di lui, il corsiero che avanzava nel sottobosco. Brice non sarebbe mai voluto stare in retroguardia; ci sarebbe dovuto essere Edmund, ma lui non avrebbe mai osato farlo notare al suo capitano.

    Si tirò su il cappuccio della cappa fradicia e pesante, mugugnando fra sé. Oltre allo scrosciare della pioggia e al debole tintinnare metallico dei foderi delle loro spade, non si udiva nient’altro.

    Nella mano di Gobain era apparsa la sua spada lunga.

    «Ti servirà a poco o a nulla quell’affare, se ci imbatteremo in una banda di arcieri inglesi» gli fece osservare Edmund, cupo come quel mattino di gennaio. «E gli alberi qui sono fitti. Potrebbe impacciarti i movimenti, capitano.»

    «Se e quando avrò bisogno di un consiglio, sarò io a chiedertelo» ribatté Gobain, ancora più cupo dell’altro.

    Alla corte parigina l’unica persona che si sarebbe meritata il titolo di banderese avrebbe dovuto essere Edmund, e questo Brice lo aveva imparato da subito. Gobain aveva ventiquattro anni, e a differenza di Edmund era un cavaliere giovane e troppo inesperto; non sapeva cos’era veramente una battaglia, o meglio, la guerra. Edmund aveva combattuto sul campo di Poitiers al fianco di re Jean contro gli inglesi guidati dal Principe Nero. Gobain, oltre a placare delle scaramucce in città, non aveva fatto altro in vita sua.

    «Ci sarebbero serviti degli scudi» intervenne Brice. «Sono l’unico modo per…»

    Il capitano si arrestò d’improvviso, mettendo tutti a tacere.

    «Cosa c’è?» la mano di Edmund scivolò veloce sull’elsa della spada.

    «Qualcosa non va. Hai sentito?»

    Il cavaliere rimase in silenzio e aguzzò le orecchie. Brice fece lo stesso, ma non udì niente di strano. Piuttosto, vide delle sagome muoversi fra gli alberi.

    «A terra!» urlò il giovane. «Arcieri!»

    Edmund lasciò le briglie del suo cavallo per appiattirsi contro il tronco di un albero. Brice scartò a terra, riparandosi dietro al grande e solido tronco di una quercia. Una freccia andò a conficcarsi a due passi dai suoi piedi.

    «Brice!» la voce di Edmund era un urlo strozzato dalla tensione e dalla paura. «Scappa! Vattene! Salvati almeno tu!» Se il prudente cavaliere gli avesse dato il medesimo ordine un momento prima, Brice sarebbe fuggito senza pensarci più volte. Ora però era immobile, pesante come pietra, stretto al tronco della quercia. Non avrebbe mai lasciato il suo cavaliere e i suoi compagni in un momento come quello, con la morte che li attendeva impaziente. Doveva combattere con loro e morire con loro.

    «Scappa! Cerca un castello o una roccaforte francese e mettiti in salvo!» Edmund aveva le lacrime agli occhi e le frecce continuavano a sibilare a poche spanne da essi.

    Non poteva. Doveva obbedire al cavaliere.

    «Scappa!»

    Scappò.

    Corse tra gli alberi e i loro fitti rami secchi e contorti, mentre le frecce si piantavano nel suolo alle sue spalle. Le ultime gocce gelide di pioggia gli inondarono il viso. Le urla e le imprecazioni di Gobain e Edmund divennero echi deboli e lontani. Stavano combattendo, o forse stavano morendo. Poi fu solo silenzio.

    Si appiattì con la schiena al tronco di un albero e riprese fiato. Dove poteva andare ora? Non sapeva dove fosse e nemmeno possedeva una mappa per orientarsi. Avrebbe vagato a vuoto in quel bosco tetro cercando la sua fine, col timore di essere braccato alle proprie spalle e di far compagnia a coloro che vi avevano trovato la morte.

    Si abbandonò sedendosi a terra. Pochi giorni prima la scorta era passata nei pressi di Crécy, e Brice sapeva che a qualche miglio sorgeva Amiens. Boves era vicina. E Boves significava casa.

    Sarebbe arrivato stremato sotto le mura del castello e avrebbe riabbracciato la famiglia, che aveva lasciato due anni prima. Due anni, non ricordava più le voci dei suoi fratelli, delle sue sorelle, della madre e del padre. I loro volti erano immagini sfocate e confuse. Gli mancavano le coroncine che Zabèle confezionava con i fiori che profumavano di primavera; Sauveur e Gilles che tiravano colpi di spada nella corte del castello tra risate e cadute nella polvere. Ma chi gli mancava veramente di più era Yves, l’unica figura familiare che ammirava. Chi gli mancava di meno era suo padre, Eustache. Era stato lui a prendere la decisione di allontanare Brice da casa per mandarlo nella grande capitale del regno. Il giovane all’epoca avrebbe potuto protestare, ma con un padre come lui era meglio evitarlo.

    In molti gli avevano detto che servire l'Ordine della Stella era un onore riservato a pochi. Il re di Francia aveva promesso a suo padre, Eustache, che Brice sarebbe entrato a far parte dell'Ordine. Ma Brice, a Parigi e con indosso le insegne dell'Ordine, si sentiva solo un diseredato. Cacciato dalla sua Casa ed estromesso da qualsiasi eredità, anche la più esigua. Era stato proprio Gobain a donargli quell’appellativo, una volta che Brice gli ebbe raccontato delle sue origini e della sua famiglia. Nel giro di pochi giorni, tutto il corpo dell'Ordine sapeva chi fosse il Diseredato. Brice odiava che lo chiamasse in quel modo. Gobain, in particolare, ma in quel momento l’odio che aveva provato una volta verso il capitano sfumò.

    Serrò gli occhi e pregò che egli potesse essere ancora vivo, che potesse essere lì con lui. Una volta riaperti, non vi era alcuna traccia del capitano e nemmeno di Edmund. Era solo, con la sua spada e il suo pugnale.

    E con la morte pronto a braccarlo.

    Gelidi brividi lo scossero lungo la schiena. Echi lontani arrivarono alle sue orecchie, urla e il tintinnare metallico delle catene. Si drizzò di scatto e sfoderò la sua spada, scostandosi dal suo riparo. «Per re Jean e san Dionigi!» un urlo che venne strozzato dalla paura.

    Davanti a lui, disposti rigorosamente in linea, c’erano dieci arcieri navarrini, le lunghe catene ai loro colli e le faretre gravide di frecce. Erano già in posizione, gli archi tesi e le frecce incoccate. Pronti a scoccarle sulla loro preda.

    Poteva solo scappare.

    Di nuovo.

    Corse evitando i rami bassi. Lasciò cadere a terra la sua amata spada, Fiamma Ardente, l’unico dono fattogli da suo padre. Contro gli arcieri non gli sarebbe servita a nulla. Edmund pareva essergli accanto.

    Frecce andavano a piantarsi nel terreno alle sue spalle, altre sfiorandolo. Brice voleva coprirsi le orecchie. Quel sibilo angosciante, generato dalle frecce, non lo voleva più sentire, non voleva più udire nulla.

    Non sarebbe riuscito ad andare oltre. Le gambe prima o poi avrebbero cedute, affondando nel terreno, che la neve aveva reso un acquitrino.

    Si guardò alle spalle: i navarrini erano partiti alla carica. «Per re Karlos!»

    Il respiro di Brice si fece pesante. Il suo fiato si condensava in bianche nuvole nell’aria gelida. Altre frecce sibilarono.

    Brice divenne lento, troppo lento. La punta di una freccia arrivò a squarciare la stoffa della casacca, sul suo braccio. Brice represse un urlo di dolore. Sangue gocciolò sulla stoffa che rimaneva.

    « Navarre! » Pareva che le frecce non finissero mai. Brice si tastò il punto in cui era stato ferito. Quando ritirò la mano, il suo guanto di cuoio era fradicio. Ora, pensò, le mie gambe si spezzeranno.

    Le frecce erano più veloci di lui.

    Una di esse andò a piantarsi nella spalla. Questa volta non riuscì a trattenere le grida di dolore. Un’altra freccia andò a conficcarsi nella sua schiena.

    «Per Karlos! Unico e legittimo re di Francia!»

    Una terza freccia trapassò il braccio, già ferito. Altro sangue ruscellò andando a mescolarsi con la pioggia che continuava a cadere.

    Doveva ritrovare gli altri compagni, dai quali si era diviso con Gobain e Edmund. Non potevano essere tanto lontani da lì. Sarebbero accorsi in aiuto dopo aver udito le urla dei compagni.

    Doveva andarsene. Doveva continuare a correre.

    «Non riuscirai a correre tanto lontano!»

    L’ultima freccia andò a piantarsi nel polpaccio. Brice cadde in ginocchio. Le sue gambe ora erano a pezzi, i muscoli intorpiditi. Cercò la forza di rialzarsi. Tentativo inutile.

    Udì dei passi attutiti dal fango. Un’ombra lo sovrastò.

    Brice cercò, con le sue dita intirizzite, il pugnale. Una mano lo afferrò per il collo. Il pugnale scivolò dalle sue dita, improvvisamente inerti. La presa divenne più forte.

    « Monstrant regibus astra viam » era il motto dei cavalieri della Stella, «le stelle mostrano la via ai re.» Alzò gli occhi al cielo, una massa grigiastra schermata da un intrico di rami spogli. Nessuna stella, nessuna salvezza.

    Le lacrime andarono a mischiarsi con la pioggia sul viso. Chiuse gli occhi e cominciò a pregare san Firmino. Poi, la fredda lama si fece strada nella sua gola, inondandolo di sangue caldo.

    I

    Boves, 13 aprile 1364

    C’erano giorni in cui Yves Beaumurais era felice di essere un cavaliere e solo il quartogenito di sei figli.

    Denis, un giovane tutto cortesie cavalleresche, era appena rientrato dai boschi che circondavano Boves con un airone grigio cenere messo di traverso sulla sella, dietro di lui. Smontando dal suo palafreno venne incontro a Clotilde, sua moglie, che salutò circondandola con braccio mentre le avvicinava la bocca a un suo orecchio per bisbigliarle qualcosa, parole che le strapparono una risata cristallina.

    Yves non invidiava affatto il fratello maggiore. Tutta quella galanteria tipica dei signori della nobiltà, sorrisi e complimenti adulanti, non facevano per lui. Suo padre non avrebbe mai nemmeno avuto per la testa l’idea di dargli in sposa la figlia di qualche signore dell’Amienois. Ne era grato, perché di moglie ne aveva già una e gli bastava. Il suo nome era Fuoco sacro. La sua lama emanava riflessi cangianti argentei e azzurri. L’elsa era forgiata in un metallo che mandava luci dorate e rossastre. L’estremità dell’impugnatura era stata forgiata in guisa d’una testa di fenice, simbolo della sua casata. Quella spada gli era stata donata dal padre Eustache, il più bello e prezioso dono che mai potesse fargli. Denis stesso a quel tempo era stato preso da un’ignobile gelosia alla vista del regalo, È troppo per Yves aveva detto. E aveva ragione.

    L’aveva impugnata per la prima volta a dodici anni, quando le sue braccia non erano ancora forti e allenate, i muscoli gli dolevano per lo sforzo, dalle mani ai piedi. Per il giovane Yves i primi tentativi furono un fallimento. Sapeva che non poteva deludere uno come suo padre. Aveva paura di lui. Era sempre stata una figura fredda e autoritaria, e a causa sua, crescendo Yves era diventato un ragazzo timoroso.

    Ogni servo, alfiere e stalliere di Boves sapeva che da piccolo Yves Beaumurais si divertiva a fare coroncine di fiori con sua sorella Zabèle . A quell’epoca Yves aveva poco più di nove anni, un innocente bambino, troppo innocente per Eustache. Così il padre gli aveva cacciato una spada di legno e lo aveva mandato dal maestro d’armi. «Il figlio che voglio non è una donnicciola che fa coroncine di fiori e gioca con le bambole di sua sorella» gli aveva detto, in uno dei suoi penosi discorsi. «Tu sarai un cavaliere, un uomo forte e coraggioso, e voglio che tu lo dimostri.»

    Almeno una dozzina di diversi maestri d’arme si erano alternati nel cortile del castello di Boves con la missione di trasformare Yves Beaumurais nel cavaliere e nell’uomo che il padre voleva che fosse. Il ragazzo subì punizioni continue ogni volta che la spada gli scivolava a terra. Aveva ricevuto schiaffi, era stato martellato di insulti e bastonate. Un giorno Eustache gli fece indossare i vecchi abiti di sua sorella più grande, Guinivere, e lo fece passare in parata davanti a tutta la corte, tra risate e insulti, con la speranza che la vergogna si sarebbe tramutata in

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