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Il guerriero di Roma. Il trionfo dell'impero
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E-book509 pagine7 ore

Il guerriero di Roma. Il trionfo dell'impero

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Info su questo ebook

Una serie da oltre 500.000 copie

Un grande romanzo storico

Combatti per Roma, difendi il tuo onore

ROMA, A.D. 264. L’impero romano si è spaccato in due. Le province occidentali – Gallia, Spagna e Britannia – sono state conquistate da Postumo, intenzionato a scalzare Gallieno. Sulle pianure dell’Italia del nord le armate dell’imperatore Gallieno si raccolgono perché egli possa riprendere il potere che gli spetta di diritto. Sta per scoppiare una guerra tra i due contendenti ed è il momento di scegliere da che parte schierarsi. Balista è inviato in missione segreta da Gallieno nella sua provincia natale, Hyperborea, dove il suo popolo sta radunando un’armata per combattere al fianco di Postumo: dovrà viaggiare lungo la Via dell’ambra per raggiungere il remoto Nord. Durante il viaggio incontrerà un temibile nemico deciso ad annientarlo, che metterà a ferro e fuoco l’accampamento dei suoi uomini con continue azioni di guerriglia. Anche il ritorno a casa non sarà pacifico.
La battaglia tra Postumo e Gallieno è imminente e solo uno di loro potrà sopravvivere e diventare imperatore.

Dall’autore della saga Il guerriero di Roma
Una serie da oltre 500.000 copie vendute nel mondo

Dal fragore del campo di battaglia ai sussurri dei circoli più vicini all’imperatore

«La prosa di Sidebottom colpisce per lo sguardo storicamente accurato sugli eventi.»
The Times

«Un eccellente romanzo epico su Roma, con un’azione esplosiva e un intreccio che mette paura.»
The Guardian
Harry Sidebottom
Ha conseguito un dottorato in Storia antica al Corpus Christi College. Attualmente insegna Storia all’università di Oxford e vive a Woodstock. È autore della saga Il guerriero di Roma, che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. La Newton Compton ha già pubblicato i primi sei episodi della serie: Fuoco a oriente, Il re dei re, Sole bianco, Il silenzio della spada, La battaglia dei lupi e Il trionfo dell’impero; nonché i primi episodi della nuova, avvincente saga Il trono di Cesare (Combatti per il potere, Il prezzo del potere, Il fuoco e la spada e, solo in e-book, le due novelle Silenzi e bugie e Ombre e sangue).
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2017
ISBN9788822713162
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    Anteprima del libro

    Il guerriero di Roma. Il trionfo dell'impero - Harry Sidebottom

    LA DINASTIA HIMLING

    1234

    PROLOGO I

    Gallia Belgica, 262 d.C.

    Alla fine, le città mostrano sempre le stesse cicatrici.

    Era stato troppo facile, pensò Starkad. Nell’interminabile viaggio, solo una nave era andata perduta. Non avevano trovato pattuglie romane nel Canale delle Gallie né vedette sulle scogliere che bordavano l’estuario. Le capanne dei pescatori dove avevano riparato le lunghe navi erano abbandonate. Non una sola anima li aveva disturbati nelle restanti ore della giornata. Solo le loro ingombranti ombre e una volpe in caccia avevano assistito alla marcia nell’entroterra all’infida luce delle stelle. La cittadina di Augusta Ambianorum non aveva cinta muraria. Nessun’oca aveva starnazzato e nessun cane aveva tradito il loro arrivo. Nessun richiamo della natura né provvidenziale divinità aveva destato dal sonno un cittadino perché desse l’allarme. I lupi di mare avevano circondato la cittadina, un manipolo per ogni strada. Una volta soddisfatto, l’atheling Arkil aveva dato il segnale. Gli Angli si erano dati al saccheggio con navigato entusiasmo e lo zelo di uomini da troppo tempo in mare. Dopo un assalto così repentino, si era prospettata una lunga notte per tante delle sventurate donne del posto, fin troppo breve e definitiva invece per alcuni dei loro uomini.

    Nella fioca luce grigiastra che precede l’alba, Starkad era vicino alla porta ornamentale e osservava la strada principale fino al foro. A differenza di numerosi guerrieri, non aveva né fatto incursioni nell’imperium né aveva servito presso le forze romane. Trovava insoliti quegli edifici: più grossi, più squadrati, fatti di pietra con i tetti rivestiti di tegole. Se non fosse stato per quelle costruzioni, avrebbe potuto essere un insediamento della Scandinavia o delle coste del Mare di Svevia. C’erano i consueti segni di una città saccheggiata: le porte abbattute a calci, i cimeli in frantumi, le donne in lacrime, bambini piccoli che piangevano e, qua e là, i morti riversi e ammucchiati. E ancora, odore di alcol versato, vomito, escrementi e sangue e il lezzo di uomini non lavati. Starkad pensò che solo un uomo privo di immaginazione poteva osservare ciò che lui e i suoi compagni avevano fatto e non vedere l’implicita minaccia per se stesso e la propria famiglia.

    Goffi e annebbiati dalla stanchezza e dal bere, gli Angli si stavano disponendo in colonna, composta da circa un migliaio di uomini, lungo l’ampia strada. Gli eorl che comandavano le navi pungolavano i duguth che, a loro volta, facevano altrettanto con i dieci guerrieri che ciascuno aveva sotto di sé. Erano tutti carichi di bottino, ma non avevano molti prigionieri al seguito. Questi erano divisi in due gruppi, uno di giovani donne e l’altro di uomini di tutte le età. Quella notte, le prime avevano avuto un assaggio del destino che le attendeva. Se i prigionieri maschi avessero saputo cosa riservava loro il futuro, i più codardi forse avrebbero invidiato quello delle donne.

    L’equipaggio della nave di Starkad era lì presente e disposto in ordine sommario, schierato più o meno in cinque file da dieci. Il nobile disse all’amico Eomer, il duguo di una delle unità di dieci uomini, di impedire loro di bere ancora e poi si avviò verso la testa della colonna.

    Arkil stava parlando con due degli eorl. Come tutti nella dinastia degli Himling, Arkil era alto, con spalle molto larghe e lunghi capelli biondi. E come tutti gli Himling, aveva le braccia ricoperte e luccicanti d’oro. L’atheling sorrise a Starkad. Uno degli eorl parlò.

    «Il tuo equipaggio continua a essere più lento del mio», disse Wiglaf.

    Starkad fece spallucce.

    «È ancora un cucciolo». Il tono di Arkil era leggero.

    «Venticinque inverni, si può chiedere di meglio», replicò Wiglaf. «L’avevo detto che era troppo giovane per essere uno dei duguth, figuriamoci un eorl».

    Starkad sorrise sperando di trasmettere la maturità dei suoi superiori. Grande e grosso, nutriva una certa sicurezza nelle proprie doti di guerriero e nella capacità di ottenere obbedienza. Non si prese la briga di far notare che i suoi uomini avevano avuto il compito di radunare i prigionieri.

    I comandanti delle altre quindici navi cominciarono a presentarsi uno o due per volta. Arkil scambiò qualche parola con ciascun eorl. Dalla sua gente non aveva ereditato solo la statura. Tutti gli Himling di Hedinsey avevano il dono di saper comandare gli uomini in guerra. Veniva loro naturale. Discendevano da Woden. Perfino il patrigno di Starkad, Oslac, da quell’uomo placido e studioso che era, aveva condotto diverse fortunate spedizioni in gioventù. I pensieri di Starkad corsero da Oslac a sua madre, Kadlin, e da lei a suo padre. Non voleva pensare a suo padre.

    Starkad guardò l’arco della porta che sovrastava la strada. Era una via d’accesso che non si poteva chiudere e non era collegata ad alcuna cinta muraria, una costruzione di elaborata inutilità. Alla luce delle torce, i rilievi scolpiti sembravano muoversi: uomini dalle pesanti armature di foggia romana o nudi come vermi uccidevano guerrieri che indossavano calzoni e avevano grotteschi volti barbuti, quasi bestiali. Perché gli abitanti di quella cittadina avevano commissionato un simile monumento? Probabilmente si identificavano con i combattenti romani e avevano dimenticato che un tempo erano uomini liberi, prima che i legionari massacrassero i loro avi, sottraessero loro le armi e imponessero tributi. Starkad non provava che disprezzo per gli uomini che pagavano per farsi difendere.

    «È stato troppo facile», osservò.

    «E se non lo sai tu», replicò Wiglaf. Alcuni degli eorl più vecchi risero.

    «Forse il ragazzo non ha tutti i torti». Arkil era noto per essere un tipo riflessivo. «Nessuno può dire cos’hanno filato le Norne. Spesso un’immensa sventura segue a ruota il successo. Ma Morcar e io abbiamo sondato il terreno qui l’anno scorso, di ritorno da ovest. Siamo stati minuziosi. Morcar ha interrogato i locali che abbiamo catturato. Non si è risparmiato».

    Tutti sorrisero. Qualcuno trasalì al pensiero dell’ingegnosa crudeltà che il fratellastro di Arkil si dilettava a usare. Non tutti gli Himling erano gentili.

    «Sono cinquanta miglia fino a Rotomagus, la stessa distanza per Samarobriva. Non ci sono truppe romane prima di Gesoriacum, che si trova molto più avanti e nel suo porto ha poche navi da guerra. Non ci sono stati roghi nel lavoro di ieri notte. Non sono stati avvistati segnali luminosi. Manca il tempo perché un messaggio giunga a Gesoriacum e i soldati arrivino qui prima che ce ne andiamo».

    I capi annuirono alla sagacia dell’atheling.

    «Non c’è niente di cui gli dèi possano lamentarsi. Abbiamo promesso così tanto a Ran che eviterà di affogarci con la sua rete, e Woden avrà il resto, più un gran bottino in gran quantità al nostro ritorno».

    Dai comandanti si levò un mormorio di approvazione per le vecchie e rigide usanze di sangue.

    «Abbiamo fatto ciò che è possibile per gli dèi e per l’uomo», continuò Arkil. «Spegnete le torce. È tempo di tornare alle navi».

    Starkard superò tre equipaggi prima di raggiungere il proprio. Malgrado fossero seduti, alcuni addirittura distesi, erano disposti in formazione di marcia. Nessuno stava bevendo più del dovuto. I prigionieri legati erano radunati nello spazio tra i suoi uomini e i guerrieri della nave successiva. All’ordine di Starkad, i suoi guerrieri cominciarono a tirarsi su in piedi. Spensero le torce, raccolsero armi e bottino e urlarono ai prigionieri di alzarsi.

    In patria, gli anziani dicevano che fino al regno del cyning Hjar, appena tre generazioni prima, gli Angli erano andati in guerra senza una parvenza di ordine. Dicevano che gli Angli avevano ereditato la disciplina dopo aver combattuto per i Romani sulle lontane rive dell’Ister, nelle grandi guerre contro i Marcomanni. A Starkad veniva difficile immaginare il suo popolo andare in battaglia in una massa caotica, come i primitivi e selvaggi Scritifini o i Finni dell’estremo Nord. Ma non aveva motivo di credere che i vecchi o gli scop viaggiatori, che tornavano ai palazzi degli Himling e cantavano le gesta di Hjar, potessero mentire.

    Risuonò un corno di guerra e la colonna si avviò, anche se in modo non proprio uniforme.

    La luce stava aumentando quando Starkad emerse dalla porta nella necropoli. Come tutti i giovani di buona famiglia alla corte di Isangrim, gli era stato inculcato un po’ di latino. Lo stesso cyning parlava la lingua in modo fluente e suo figlio Oslac, il patrigno di Starkad, era noto per l’insolito interesse per la poesia dell’imperium. Starkad sapeva in che modo i Romani chiamavano i loro cimiteri ma, la notte prima, la luce troppo fioca delle stelle e la preoccupazione gli avevano impedito di osservarne uno per la prima volta. Come sottintendeva il nome, la necropoli era un’autentica città dei morti. Oltre alle numerose lapidi e ai sarcofagi scolpiti e incisi, alcune colonne e un paio di piramidi in miniatura, c’erano moltissime casette per i defunti. Cominciavano non appena finivano le dimore dei vivi e bordavano la strada a perdita d’occhio nell’oscurità.

    Era tutto molto strano per Starkard. Gli Angli inumavano i loro morti in stretti tumuli a un’adeguata distanza dagli insediamenti. C’era qualcosa di bizzarro in quella necropoli romana così vicina alla cittadina, qualcosa di lievemente inquietante nel costruire case per i morti come se fossero ancora vivi. Aveva sentito che gli abitanti delle terre del Sud credevano in una vita ultraterrena, nella quale si sarebbero mossi guizzando incorporei come pipistrelli o ombre nel buio. Si chiese in che modo i loro giovani riuscissero ad affrontare la pioggia di frecce o l’acciaio delle spade senza la speranza di raggiungere il Valhalla grazie alle loro azioni.

    Superata la necropoli, i cavalli di Sól si alzarono sull’orizzonte. Il buio si dileguava proprio come la dea del Sole scappava dal lupo Skoll. Tutt’intorno c’erano campi coltivati e radure, sentieri rurali e boschetti; qua e là qualche costruzione: comode ville dall’incantevole panorama e fattorie più umili in punti riparati. Era una terra fertile, ben lavorata e Starkard ammirò come veniva sfruttata.

    La strada continuava e il sole era sempre più alto nel cielo. La mattinata sarebbe stata calda. Erano solo a cinque o sei miglia dalle navi, ma già i guerrieri arrancavano, in affanno e con l’andatura instabile per via degli eccessi notturni.

    Starkad spostò lo scudo e lo zaino che portava in spalla. Non ne ricavò alcun sollievo. Non gli importava. Era felice. Quel disagio era una misura del suo successo e quella strada l’inizio del viaggio verso casa. Sarebbe stato bello tornare. Non c’erano problemi con il patrigno e amava sua madre. Come da abitudine nel Nord, aveva trascorso diversi anni della sua gioventù nel palazzo dello zio materno. Heoroweard Scuoti-Pancia faceva onore al proprio nome: un omone grosso e gioviale, leggendario bevitore e, malgrado il suo girovita, un temibile guerriero. Sotto molti aspetti, era il padre che Starkad non aveva mai conosciuto. Sarebbe stato bello tornare da lui – e da sua madre – in trionfo. E poi c’era il figlio di Heoroweard, Hathkin. Starkard e Hathkin avevano la stessa età, erano cresciuti insieme e non potevano essere più legati. Di certo per Starkard, Hathkin era più importante del figlio e della figlia che sua madre aveva dato a Oslac.

    La strada raggiunse la sommità di un’altura. Sull’altro pendio, un ampio tratto erboso arrivava fino a degli alberi maturi. Era stato in una radura di quel bosco, la sera prima, che la volpe aveva assistito al loro passaggio. Erano quasi a metà strada.

    «Muro di scudi! Schierati attorno all’atheling!».

    Starkad stava ripetendo l’ordine lungo la colonna prima ancora di rendersi conto del suo significato.

    «Muro di scudi! Schierati attorno all’atheling!».

    La minaccia doveva essere più avanti. Starkad si calmò e pensò in fretta. Il suo era il quarto equipaggio della colonna. Doveva andare a destra. Si ricordò dei prigionieri. I fottuti prigionieri. Erano una sua responsabilità. Fece dei rapidi calcoli.

    «Eomer, i tuoi uomini restano con i prigionieri. Quando la linea è formata, portali dietro di noi».

    L’ordine fu accolto da un cenno della mano.

    L’equipaggio davanti si stava già spostando sulla sinistra. Starkad fece segno al resto dei suoi uomini di seguirlo e si mise a correre a un’andatura moderata, attraversando in diagonale la strada. L’erba sotto i piedi era lunga e si impigliava tra le gambe. Sperò di aver fatto la cosa giusta. C’erano ottanta prigionieri. Eomer aveva dieci uomini, ma i prigionieri erano legati e la metà erano donne. Starkad allontanò quel pensiero dalla mente e si concentrò sul portare i propri uomini nel punto giusto.

    Ecco il draco rosso di Wiglaf che sventolava fiero. Starkad raggiunse la destra dei guerrieri dell’eorl. Ansante come un animale braccato, indicò ai suoi di mettersi in posizione. Spintonandosi, formarono una linea larga dieci e profonda quattro uomini, poi mollarono zaini e sacchi pieni di bottino, piantarono le lance nel terreno e impugnarono gli scudi con la sinistra. Un violento conato, poi un uomo fece un passo avanti e vomitò. Poco dopo, un altro fece lo stesso. Qualcuno rise.

    Il vessillifero di Starkad era lì accanto. Alzò lo sguardo sul serpente bianco che la madre e le sue donne avevano cucito per lui. Il draco fremette; la sua coda sferzò l’aria. Starkad non si era accorto che si era alzato il vento settentrionale. L’equipaggio successivo si stava disponendo alla sua destra. Fino ad allora, niente era andato storto. Finalmente ebbe modo di capire il motivo dell’allarme.

    Il nemico era schierato davanti al bosco. Una lunga linea di bianchi scudi ovali contrassegnati da un motivo rosso. Elmi d’acciaio rilucevano al sole e, su di essi, un mare di punte di lancia. In alto, sventolavano numerosi stendardi, anch’essi bianchi e rossi. Un manipolo di cavalieri spiccava davanti a tutti, al centro; un grosso draco fluttuava su di loro. C’erano circa duecento passi di terreno aperto tra le due forze.

    Starkad si schermò gli occhi stanchi e scrutò da quella distanza. Colse lo scintillio delle cotte di maglia tra gli scudi. Lo schieramento nemico era profondo parecchi ranghi. Valutò la larghezza della formazione avversaria, poi venne avanti e guardò lungo il muro di scudi degli Angli, ormai quasi formato. Più o meno la stessa larghezza, perciò dovevano essere in parità numerica. Tornò al proprio posto.

    «I cornuti», spiegò a Starkad uno dei guerrieri più anziani. «I tuoi primi Romani, e si dà il caso che siano nostri cugini. Molte unità ausiliarie di cornuti vengono reclutate in Germania. Potrebbero essere Batavi».

    Starkad grugnì. A parte il fatto che gli scudi erano ovali e non tondi, e che tutti recavano lo stesso motivo, non sembravano molto diversi dagli Angli.

    «Una coorte doppia, dovrebbero essere un migliaio di uomini», aggiunse il guerriero.

    Ma per chi l’aveva preso il vecchio Guthlaf? Per un bambino? Non era la prima volta che si trovava a far parte di un muro di scudi per fronteggiare i ranghi del demonio. Era in grado di fare una stima dei numeri e un nemico era un nemico. Starkad voltò la testa e finse di guardare Eomer che portava i prigionieri.

    «Arriva qualcuno».

    Un cavaliere procedeva adagio, diretto verso il centro della linea, dove svolazzava lo stendardo bianco di Arkil, il cavallo bianco di Hedinsey. Teneva la lancia capovolta in una mano e una specie di bastone nell’altra.

    «Quell’affare che ha in mano indica che è un messaggero. Vuole essere sicuro che nessuno lo uccida su due piedi».

    Starkad stava esaurendo la pazienza con Guthlaf.

    «Come sono arrivati qui?», domandò una voce dai ranghi.

    Starkad non ne aveva idea. «Silenzio nel muro. Sentiamo cos’ha da dire».

    Il cavaliere se la prese comoda ma, alla fine, si fermò a un breve lancio di giavellotto da Arkil. Non indossava l’elmo. Aveva corti capelli scuri, proprio come la barba. Bisognava dargliene atto, sembrava piuttosto calmo.

    «Nel nome dell’imperator Cesare Marco Cassiano Latinio Postumo Augusto, Pio, Felice, Invitto, Pontefice Massimo, Germanico Massimo, voi Angli avete l’ordine di arrendervi». Parlava in latino. La sua voce era forte e chiara.

    Ci fu una pausa. Il cavallo del messaggero arricciò il naso.

    Proprio quando il messaggero stava per riprendere a parlare, Arkil fece un passo avanti.

    «Fatevi da parte e ce ne andremo». Il latino di Arkil aveva un pesante accento ma era comunque comprensibile.

    «Impossibile».

    «Allora farai meglio a tornare indietro e sarà l’acciaio a decidere».

    «La cosa non deve per forza finire tragicamente, Arkil degli Angli. Il mio comandante, Marco Aurelio Diale, governatore della Germania Inferiore, ti offre delle condizioni».

    Il messaggero smise di parlare e, ancora una volta, tutti rimasero in silenzio.

    «Dicci quali sono queste condizioni». La voce di Arkil era dura. La cosa si stava trascinando troppo a lungo.

    «Deponete le armi, lasciate metà del bottino e potrete andarvene».

    «Faresti meglio a tornare indietro».

    Il messaggero non si mosse. «Se prometti una tregua e resti dove sei, forse il governatore Diale offrirà condizioni più clementi».

    Arkil venne avanti a grandi passi. «Vattene subito».

    «Se solo…».

    Arkil sguainò la spada. Gli Himling possedevano numerose spade di antica fama. Quella era Gaois, la ringhiante, vecchia la metà degli anni di Woden e responsabile di quasi altrettanti morti.

    «Vattene subito», ripeté Arkil.

    Affatto diplomatico, ma Starkad pensò che l’atheling avesse fatto bene. Il tempo non era dalla loro parte. Da un momento all’altro avrebbero potuto vedere altre unità romane arrivare da ogni direzione.

    Il messaggero fece girare il cavallo e si avviò verso la propria formazione. E nessuno tra gli Angli poté dire che avesse agito senza coraggio.

    «I prigionieri!», tuonò Arkil. «Uno su dieci!».

    Gli uomini di Starkad si scostarono per lasciarlo passare. Essere un eorl significava dover fare scelte difficili come quella. Starkad si fermò accanto a Eomer davanti ai prigionieri. «Lui», indicò. «E lui. Quello…». Continuò fino a che non furono trascinati fuori otto uomini, nessuno dei quali giovane. «Liberate gli altri».

    Senza più le corde, le donne e gli uomini più giovani rimasero lì fermi, esitanti e timorosi.

    «Andate», ordinò Starkad.

    Questi non si mossero ma lo guardarono con occhi sgranati senza capire. Si rese conto di aver parlato nella sua lingua natia.

    «Andate», ripeté in latino. «I vostri dèi vegliano su di voi».

    Ancora immobili. Forse sospettavano qualche scherzo crudele.

    «Andate». Indicò verso la cittadina. Un individuo, poi un altro, si avviarono titubanti nella direzione da cui erano venuti. Quando non ci fu alcuna reazione, si mossero più in fretta. Altri li raggiunsero, fino a che tutti si misero a correre più veloci che potevano verso le loro vite infrante.

    Starkad indicò con il pollice gli otto rimasti. «Davanti alla linea».

    Furono distribuiti lungo il muro di scudi. Starkad doveva occuparsi di uno dei prigionieri. La cosa non gli faceva piacere ma era necessario. Un eorl doveva fare ciò che era giusto per i suoi uomini e per gli dèi.

    Arkil diede inizio alla dedica. Starkad e gli altri si unirono a lui. «Ran, moglie di Aegir…».

    Starkad abbassò lo sguardo. L’uomo era in ginocchio, legato. Aveva i capelli grigi, gli occhi grigi e un viso gentile e delicato. Probabilmente aveva una moglie, molto probabilmente un figlio, di sicuro era stato il figlio di qualcuno.

    «Ran, distogli da noi i tuoi chiari occhi freddi…».

    Starkad estrasse la spada.

    «Risparmiaci la tua rete e prendi invece questi».

    Senza esitare, Starkad brandì la spada. L’uomo si gettò da un lato. Non abbastanza in fretta. L’acciaio affondò nel collo. Il sangue sprizzò vivido alla luce del sole. L’uomo strillò come un maiale. Era a terra, non si muoveva ma non ancora morto. Gemeva. Starkard venne avanti e lo finì con due forti colpi di taglio alla testa.

    Un ruggito di sdegno si levò dalle file romane.

    Starkad pulì la lama sulla tunica dell’uomo morto e la rimise nel fodero.

    «Teste di cinghiale!». La voce di Arkil si propagò lungo il muro di scudi degli Angli.

    Guthlaf fece qualche passo avanti e prese saldamente posizione. Altri due guerrieri esperti andarono a mettersi a ciascun lato, appena dietro di lui. Starkad prese posto alle spalle di Guthlaf. Provava al contempo un senso di oppressione e di vuoto nel petto e aveva il respiro corto e affannoso. Senza pensarci, allentò la spada e il pugnale nei rispettivi foderi, e toccò il pezzo di ambra legato alla custodia come amuleto. Prese la lancia con il palmo viscido di sudore.

    Man mano che si disponeva a cuneo, ciascun equipaggio cominciava a cantare:

    La spada ruggisce

    Lasciando il fodero

    La mano ricorda

    Il lavoro della battaglia.

    La testa di cinghiale era formata. Starkad aveva Eomer da un lato e il suo vessillifero dall’altro. Rinfrancato dal canto e dalla prossimità con i compagni, sentì i timori dissolversi. Sarebbe stato un uomo, non avrebbe deluso né gli altri né se stesso.

    «Avanzata!». All’urlo di Arkil seguì lo squillo di un corno.

    Normalmente, quei guerrieri toccati da Woden o un’altra divinità sarebbero balzati fuori dalla formazione e si sarebbero messi a danzare. Saltando e girando, gettando via la corazza, avrebbero sviluppato dentro di sé la ferocia di un lupo, di un orso o di un’altra bestia dotata di zanne o artigli. Man mano che si facevano prendere dalla furia omicida, l’animo degli altri ne avrebbe tratto coraggio. Quel giorno non c’era tempo. Se, contro ogni previsione, era apparsa un’unità romana, potevano essercene altre. Gli Angli dovevano stroncare il demonio che avevano davanti e riuscire a guadagnare le navi.

    Un cupo sospiro, come una brezza attraverso un campo di orzo maturo. Sommesso e ingannevolmente dolce, il barritus degli Angli ebbe inizio. Quando si mossero, il canto di guerra crebbe di volume. Sollevarono gli scudi davanti alla bocca, il suono si riverberò, facendosi più pieno e pesante.

    Camminando a tempo, il barritus si trasformò in un rozzo ruggito discontinuo. Si affievolì e poterono sentire la replica dei nemici. Gli Angli alzarono la voce e, come una grande tempesta, soffocarono tutto il resto. Dal barritus si poteva prevedere l’esito dello scontro e il loro barritus sembrava buono, un’espressione di virilità.

    Tra gli elmi di Guthlaf e della prima linea, Starkad intravedeva i nemici. Erano fermi, i ranghi serrati e in attesa dell’assalto. I loro capi avevano preferito la coesione allo slancio. Trovandosi a valle, avevano fatto una pessima scelta. Starkad era contento di muoversi.

    Gli Angli stavano guadagnando velocità. Correndo ad andatura moderata, il rimbombo dei loro stivali e lo sferragliare delle armi si aggiungeva al frastuono del barritus. Starkad vide Guthlaf abbassare la lancia. Con cautela, si portò sottobraccio la propria; la punta sbucava tra Guthlaf e lo scudo dell’uomo alla destra del vecchio guerriero.

    Erano vicini, non più di quaranta passi. Ogni particolare del muro di scudi nemico era ben visibile. La prima linea era in ginocchio, l’impugnatura della lancia piantata nel terreno e gli scudi bianchi sovrapposti a metà. La seconda linea aveva abbassato gli scudi sulla prima, la base agganciata all’umbone dello scudo sottostante. Un accecante muro di legno bianco e bestie cornute dipinte di rosso. Ovunque spuntavano maligne punte di lancia luccicanti, in attesa di strappare via la vita a quelli che le Norne avevano deciso di far morire.

    Gli Angli si lanciarono alla carica, scattando. Trenta passi, venti. I paurosi e i coraggiosi, ma incoscienti, correvano insieme. Il barritus riecheggiò come un’enorme onda che si infrange su una scogliera. Qualcosa balenò a destra tra Starkard e Eomer. In alto, l’aria si riempì delle lance scagliate dalle retrovie di ciascuna fazione. Urla lacerarono quel frastuono. Mento contro il petto. Nessun tempo per pensare.

    Poi il rumore, mai sentito simile nella Terra di Mezzo, di legno e acciaio che cozzavano, cedevano, si spezzavano. Colpì Starkad prima che il violento impatto gli si ripercuotesse lungo il braccio destro, la spalla, causandogli un dolore atroce. La metà della sua lancia spezzata gli fu strappata di mano. Alla massima velocità, corse con lo scudo contro quello di un cornutus. Uno dei suoi uomini andò a sbattergli contro la schiena. Rimase senza fiato. Non c’era spazio per muoversi. La faccia nemica dietro lo scudo era ringhiante, animalesca. Fiato caldo nelle narici. Dolore schiacciante. Il nemico che cadeva all’indietro e andava giù con gli occhi dilatati dal terrore. Guthlaf era sopra di lui, si arrampicava sugli scudi nemici, usandone gli umboni come punto di appoggio. I cornuti spingevano le spade verso l’alto. Guthlaf che menava fendenti verso il basso, come un boscaiolo impazzito. La struttura che ondeggiava, crollava. La pressione su Starkad che si allentava impercettibilmente. Boccheggiando, sguainò la spada.

    Uno spintone da dietro. Starkad incespicò sul nemico fremente nell’erba. Perdere l’appoggio in quel punto significava morte certa. Amici e nemici ti avrebbero calpestato e ridotto in poltiglia. Lo scudo ben alzato, Starkad affondò la spada. La punta della lama incontrò la resistenza di una cotta di maglia. Appoggiò tutto il peso sull’elsa. L’acciaio spezzò gli anelli e scivolò nella carne cedevole.

    Una lama tracciò un arco alla destra di Starkad. Diretta al suo scudo. Tirò su la spada, una goffa parata con la guardia. Qualcosa lo colpì alla parte sinistra dell’elmo. Molto forte. Stordito per via del clangore che gli risuonava nella testa, barcollò con la vista annebbiata.

    Da ogni direzione, l’assordante, terribile frastuono della battaglia. Intrappolato in una crescente calca di corpi. Arrancando, Starkad lottò per restare in piedi e non essere trascinato.

    Il feroce filo di una lama affondò in cima allo scudo, tagliando il rivestimento di cuoio, fino alle assi di tiglio. Una scheggia gli aprì uno squarcio nella fronte. Gli tremavano le gambe, tanto era stanco. Si accovacciò dietro allo scudo. Calò un altro colpo e un pezzo di scudo venne via. Piegò le ginocchia, cercò di conficcare i talloni nel terreno per trovare una posizione salda. Doveva contrattaccare, essere preso a esempio. Era un eorl.

    Un lampo di luce alla destra di Starkad. Un urlo spaventoso. La spada conficcata nel ventre di Eomer. La faccia dell’amico bianca per il trauma. Il cornutus estraeva la lama, Eomer crollava a terra. Starkad si girò e balzò in avanti, schivando il colpo. Un altro urlo. La lama di Starkard affondava di traverso nelle cosce del soldato, grattando contro le ossa. Starkad e il cornutus si aggrovigliarono l’uno all’altro. Starkad lo spinse via. Il soldato cadde. Due passi e Starkad sollevò la spada.

    «Per favore…». Una mano insanguinata si alzò in segno di supplica.

    Starkad calò la pesante spada. Una, due, tre volte.

    La calca era meno pressante, adesso il movimento era tutto in direzione del nemico.

    «Via! Via! Via!». Il trionfante, tradizionale grido degli angli riverberò lungo il fianco della collina, inseguendo i cornuti che fuggivano nel bosco.

    Starkad osservò il campo di battaglia. Ovunque c’erano spade e lance abbandonate e rotte, scudi ed elmi, perfino cotte di maglia. Dappertutto i morti e i moribondi giacevano nel sangue e nella sozzura, e i vivi erano sopraffatti dall’enormità di quanto avvenuto. Uno spiazzo erboso ridotto a mattatoio. Ma era finita. Adesso bisognava capire a che prezzo.

    Eomer era seduto, sostenuto da un altro guerriero. Si premeva le mani sullo squarcio irregolare nella casacca di guerra. Il sangue scorreva lento ma già aveva formato una pozza sul suo grembo, incrostando gli anelli della cotta, macchiandogli di scuro i calzoni all’altezza delle cosce.

    «Vado a…».

    «No», rantolò Eomer. «Ferita al ventre. Inutile».

    Starkad lasciò cadere la spada e si mise sulle ginocchia. Cercò di togliersi l’elmo ma il violento colpo l’aveva sformato. Qualcuno lo aiutò a sfilarlo. Il sangue dalla fronte gli cadde negli occhi.

    «Basta per entrare nel palazzo di Woden». Eomer si sforzò di sorridere. «Spero».

    Starkad avanzò strisciando sulle ginocchia. L’altro guerriero si mosse e Starkad prese tra le braccia l’amico.

    «Dillo a mia madre, e ad Aeva». Eomer fece una smorfia. «Di’ loro che sono morto bene».

    Starkad sprofondò la testa nel collo dell’amico, piangendo.

    «È tempo di andare». Guthlaf era in piedi davanti a loro, coperto di sangue ma illeso. «L’atheling ha ordinato di muoverci».

    Cinque volte alla guida della testa di cinghiale e Guthlaf era ancora vivo, stavolta apparentemente senza un graffio. Doveva toccare a lui, non a Eomer. Starkad non riuscì a replicare.

    «Dobbiamo andare», ripeté Guthlaf.

    Starkad singhiozzò.

    «Tu sei un eorl», disse Guthlaf. «Dimostrati tale».

    Starkad lo guardò torvo, sul punto di maledire il vecchio, di augurargli di finire nel Niflheim e da Hel.

    «Ha ragione». Eomer strinse il braccio di Starkard con la mano insanguinata. «Tu sei il mio eorl. Fa’ l’ultima cosa per me».

    Starkad scosse la testa.

    «Coloro che Scelgono i Caduti verranno a prendermi». Eomer lo strinse con più forza. «Fallo, poiché ti voglio bene, fallo».

    Starkard sapeva che avevano ragione. Baciò Eomer, lo tenne stretto, gli disse che gli voleva bene, gli sussurrò all’orecchio le ultime parole di Woden a Balder. Poi tirò fuori il coltello e tagliò la gola all’amico.

    Dopo, Guthlaf lo aiutò a rialzarsi. «Guidare gli uomini non è solo festini e distribuzioni di oro. Ti sei comportato bene. Sei un eorl per tutto l’equipaggio».

    La pianura era in fermento. Starkad prese posto sotto il suo draco. Quattro dei suoi uomini erano morti nello scontro, due erano stati aiutati a uscirne. Ce n’erano sei con ferite gravi ma comunque in grado di marciare. Starkad mandò degli uomini a raccogliere come bottino tutto ciò che era leggero e non avrebbe intralciato il loro cammino. Nel frattempo, schierò quelli rimasti.

    Il corno di Arkil risuonò e la colonna ridotta riprese la sua zoppicante marcia verso il mare.

    Gli alberi, querce e faggi, creavano uno screziato mondo di ombre. Sotto i loro ampi rami, la vegetazione era rada ma sufficiente a celare un’imboscata. Starkad accantonò questi pensieri. Aveva visto Arkil mandare uomini in ricognizione. L’atheling era un vero condottiero, un vero Himling.

    «Devono averci visti», disse una voce dai ranghi.

    «No», replicò Starkad. «Conoscevano il nome di Arkil».

    Continuarono ad avanzare con passo pesante, riflettendo sulle implicazioni negative dell’accaduto.

    «Arkil è stato qui l’anno scorso, insieme a Morcar», osservò Guthlaf.

    Starkad fece un sorriso privo di allegria. «Morcar non avrebbe lasciato in vita nessuno che conoscesse i loro nomi».

    «Devono aver preso la barca mancante di Ashhere», ipotizzò qualcuno.

    «Nessuno degli uomini di Ashhere ci tradirebbe». Starkad ne era sicuro.

    «Eppure sapevano dell’arrivo di Arkil», obiettò Guthlaf.

    Non ci furono repliche.

    Attraverso il fogliame era visibile un cielo striato di nubi. Più in basso, nuvole leggere viaggiavano verso est. Il vento era favorevole, sempre che riuscissero a raggiungere le navi. Mancavano non più di tre miglia.

    Più avanti, la colonna marciava nella luce del sole. Prima di raggiungere il limitare del bosco, Starkad capì che c’era qualcosa che non andava. Un profondo mugugno contrariato si levò dagli uomini in testa. Poi udì il corno di Arkil e l’ordine di tornare indietro.

    «Muro di scudi! Schieratevi attorno all’atheling! Ultimo equipaggio come riserva. I feriti si dispongano come loro retrovie».

    Ancora una volta Starkard portò i suoi uomini nella barriera a destra degli uomini di Wiglaf. Erano a circa venti passi fuori dal bosco, mentre la riserva era sul limitare.

    Stavolta era un esercito quello che avevano davanti. I Romani erano schierati su una bassa collina: un torrente alle pendici, aperta campagna sul davanti, volute di fumo nel cielo alle spalle. Legionari dalla cresta rossa al centro, ausiliari su ciascun lato, tutti con l’ausilio degli arcieri. Una falange formidabile, con la cavalleria spiegata su entrambe le ali. Starkad contò gli stendardi, l’ampiezza del fronte, calcolò la loro profondità e cercò di fare una stima dei nemici. Tremila o più, forse parecchi di più, un terzo dei quali a cavallo. In una buona posizione e schierati in buon ordine.

    «Be’, a quanto pare ci siamo», disse Guthlaf.

    «Cuore e coraggio. Alcuni di noi potrebbero farcela». Starkad non ci credeva, ma sentiva che era il tipo di cosa che un eorl doveva dire.

    «Cuore e coraggio», borbottò incerto qualcuno degli uomini.

    «È poco più di un miglio fino alle navi», mentì Starkad e nessuno dei duguth né i guerrieri scelsero di correggerlo.

    Il vento soffiò tra i grandi alberi dietro di loro, sibilante nelle fauci dei dracones in alto. Un cavallo nitrì nello schieramento nemico.

    «Un altro messaggero».

    Il romano cavalcò giù per il pendio, guadò il torrente in una nuvola di spruzzi e si diresse verso gli Angli. In sella a un magnifico cavallo nero, stavolta era un ufficiale di alto rango, dalla corazza dorata e di forma anatomica. Tirò le redini riducendo la velocità al passo e fermò il destriero a un tiro di sasso dalla barriera di scudi. A capo scoperto, capelli e barba arricciati con cura, assomigliava a un imperatore di un’epoca passata raffigurato su una moneta.

    «Arkil, figlio di Isangrim». Il romano parlava la lingua della Germania con un accento che richiamava qualche parte nei pressi del Reno. «Guidi uomini coraggiosi. Troppo coraggiosi per sprecarne la vita in una causa senza speranza».

    Arkil si fece avanti. «Nessuno può predire il corso degli eventi». Alzò la voce. «Spesso il Wyrd risparmia un uomo non segnato, se il suo coraggio è grande».

    Il cavaliere annuì, come alla saggezza di quelle parole, e poi indicò dietro di sé. «Le vostre navi sono bruciate».

    Oltre l’esercito romano, Starkad vide che il fumo aveva formato una fitta colonna. Si levava verso l’alto e poi si gonfiava a est.

    «All’augusto Postumo piacerebbe avere uomini come te nel suo comitatus, se tu volessi prestare giuramento».

    Arkil si sfilò l’elmo perché l’altro potesse vedere la sua faccia. «Tanto tempo fa, mio padre, il cyning Isangrim, promise la sua amicizia al tuo nemico, l’augusto Gallieno. Isangrim è il capo del nostro popolo. Non è da noi rimangiarci la parola del nostro theoden».

    Il cavallo nero agitò il capo e il romano lo tranquillizzò con mano esperta. «Il tiranno a Roma non merita l’amicizia di uomini come gli Himling di Hedinsey né dei coraggiosi guerrieri angli che comandano. Gallieno ha riservato un trattamento vergognoso al tuo fratellastro Balista. Non gli ha concesso alcun onore per i suoi anni di servizio, alcun onore per i rischi che ha corso né le ferite che ha riportato. Anzi, si dice che l’abbia mandato in esilio sulle lontane montagne del Caucaso, a morire tra gli stranieri».

    L’accenno all’ostaggio suscitò un cupo mormorio tra i guerrieri più anziani nella barriera di scudi. Starkad sentì un rimescolio interno.

    «Gallieno spreca il suo tempo a oziare nelle terme e nelle taverne di Roma. Indossa gioielli e sete come una donna e guida un comitatus di lenoni e catamiti. Non c’è disonore nel rinunciare all’amicizia di un uomo simile».

    «E il nostro bottino?», domandò Arkil.

    «I miei soldati si spartiranno quello che avete lasciato sul campo di battaglia al di là del bosco. Quello che avete con voi resta vostro».

    «Dove vorrebbe mandarci l’augusto Postumo?», chiese ancora Arkil.

    «Se gli giurate fedeltà, l’augusto Postumo vi guiderà innanzitutto contro i vostri atavici nemici, i Franchi. Sarete ricompensati con generosità. Sono convinto che non troverai Postumo privo di coraggio».

    Arkil rise. «Questo lo vedo già».

    Postumo accolse le sue parole con un gesto cortese.

    «La decisione non spetta solo a me», continuò Arkil. «Devo consultarmi con gli eorl».

    «È una giornata piacevole. Aspetterò». L’imperatore, tutto solo, si mise a sedere comodo sul cavallo.

    Starkad e gli altri eorl si raggrupparono attorno all’atheling.

    «Potremmo ucciderlo», sibilò un eorl. «A quel punto non combatterebbero».

    Arkil inveì contro chi aveva parlato. «È così che ragiona un nithing. Solo chi è senza valore penserebbe di fare del male a un uomo che è venuto come messaggero, fidandosi della nostra parola».

    «Io non ho alcun desiderio di stare qui», dichiarò Wiglaf. «Dovremmo combattere».

    «Combattere questo esercito, poi l’esercito sul Reno e i Franchi sulla sponda opposta? Siamo lontani da casa», ribatté Arkil.

    «Dopo aver sconfitto il demonio che abbiamo davanti, dovremmo occupare un porto, prendere le loro navi».

    «Mio vecchio amico», disse con calma Arkil, «hai addosso la foga della battaglia. Se oggi combattiamo, stasera ceneremo tutti nel Valhalla».

    Un mormorio di consenso percorse il cerchio degli eorl.

    «Allora siamo d’accordo». Arkil si girò di nuovo verso l’imperatore, alzando la voce. «Serviremo nel tuo comitatus per due anni».

    «Cinque», replicò Postumo.

    «Tre, con la stessa paga dei pretoriani».

    Postumo rise. «Lo stipendium sarà quello che dici tu e riceverete il donativo che riterrai opportuno, ma servirete per cinque anni».

    «E cinque siano».

    «Presterai il giuramento militare a nome dei tuoi uomini?».

    Arkil annuì.

    «Allora pronuncia il sacramentum qui, davanti agli uomini e agli dèi».

    Arkil estrasse la spada, posò la mano sinistra sul filo e parlò in latino. «Su Giove Ottimo Massimo e su tutti gli dèi, giuro di eseguire gli ordini dell’imperatore, di non abbandonare mai lo stendardo né di sottrarmi alla morte, di anteporre l’incolumità dell’imperatore sopra ogni cosa».

    Cinque anni, se fosse sopravvissuto. Guardando dalla sua linea nello schieramento, Starkad dovette fare i conti con l’idea di quei cinque anni prima di poter sperare di tornare a casa.

    PROLOGO II

    L’Isola di Abalos nel Mare di Svevia, 263 d.C.

    Il romano era molto lontano da casa, al di là perfino delle grandi foreste della Germania. Era solo e aveva paura. Quell’isola, che era apparsa così piccola al primo avvistamento nell’inquieta distesa grigia del Mare di Svevia, adesso

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